Curiosità Archivi - Pagina 9 di 13 - Vinarte
  • La memoria delle anfore

    Il vino nella storia – Continua la serie dedicata alle rotte del vino – Sesta parte

    Nello scenario della produzione italica, erano la Campania e in parte il Lazio a fare la parte dei leoni, in quanto i vini di queste regioni non solo primeggiavano nei consumi interni, tra le famiglie benestanti, ma erano molto apprezzati anche tra le popolazioni che si affacciavano sul mercato del vino. Centri di smistamento dei vini provenienti da altre regioni, erano stati creati al nord di Roma da commercianti altamente specializzati.

    La fama dei vini prodotti nella penisola italica raggiunse perfino i mercati del Medio ed Estremo Oriente. Anfore vinarie che testimoniano la provenienza del vino italico, infatti, sono state trovate ad Alessandria d’Egitto, ad Axum e anche nel sud dell’Iran da dove via mare giungeva per l’appunto la richiesta dei vini italici.

    In conseguenza di ciò, nacquero delle vere imprese per l’esportazione, oltre Roma, nonostante avesse i numeri per dominare questi mercati, altri mercati – soprattutto quelli dei Paesi affacciati sul Mediterraneo – resistevano e spesso superavano la concorrenza romana.

    I vini di Cipro, della Siria e delle isole Greche, molte volte vincevano la battaglia della domanda e dell’offerta e anche a Roma su alcune tavole raffinate giungevano spesso in quantità sufficiente eccellenti vini dall’Asia Minore.

    Le anfore di ceramica erano i principali contenitori utilizzati nel traffico marittimo mediterraneo già prima del III sec. a.C. Mentre in seguito, cioè nel I e II sec. a.C., le anfore del vino erano soprattutto del tipo conosciute come Dressel 1; pare che siano state prodotte a partire dal 130 a.C. e che fossero usate esclusivamente per l’esportazione dei vini dalla costa Tirrenica. A metà del I sec. a.C., questo tipo di anfora subì una modifica, presentandosi con un collo più alto e più pesante, inoltre si incominciarono a vedere delle imitazioni provenienti dalla Spagna e dalla Francia del sud.

    Le anfore spagnole portavano quasi certamente il vino della provincia Tarraconense, che secondo il solito Plinio era all’altezza dei migliori vini italici, mentre quelle provenienti dalla Gallia sono indicative di un inizio di viticoltura in quella provincia.

    Con l’arrivo dei Romani nel sud della Francia, infatti, il mondo vitivinicolo cambia aspetto, anche se nei pressi di Marsiglia, esattamente a Saint-Jean-du-Desert, furono scoperte anni fa una decina d’impianti di vigna risalenti al IV sec. a.C. Lo storico Strabone scrive: «La Gallia Narbonense produce in quantità e dappertutto gli stessi frutti dell’Italia», riferendosi all’uva e alle olive.

    La diffusione dell’anfora Dressel 1 è un ottimo indicatore dell’ampiezza raggiunta dal commercio romano del vino dal I sec. a.C. Non solo ci fa conoscere le lunghe distanze percorse dal vino, ma anche il ruolo dei fiumi e l’importanza dominante per il suo commercio. Sono state ritrovate così anfore prodotte in Italia lungo il corso del Tamigi, il Rodano, il Reno, la Garonna, l’Ebro, la Guadiana. Non è facile valutare il giro commerciale dato dal vino intorno al I sec. a.C., ma dal numero di anfore ritrovate e da quelle che ancora numerosissime giacciono sui fondali marini, si ipotizza che all’epoca in cui era diffusa l’anfora Dressel 1, furono circa 40 milioni quelle caricate a bordo di imbarcazioni, il che indicherebbe un flusso di circa 100mila ettolitri di vino all’anno proveniente dalle Gallie.

    Alla fine del I sec., l’anfora Dressel 1 fu sostituita da un nuovo tipo che imitava le anfore prodotte sull’isola greca di Kos, la Dressel 2-4.

    Mentre la Dressel 1 pesava circa 25 kg con un rapporto peso-capacità di 0,88 litri per kg, le nuove anfore erano molto più leggere, tra i 12-16,5 kg, con un rapporto 1,09-2,04 litri per kg. Questo cambiamento fu forse dato dal desiderio di trasportare una maggiore quantità di vino, ma qualcuno azzarda l’ipotesi di un mutamento nel costume sociale del bere, con la comparsa della moda dell’annacquare il vino, lanciata dai Greci.

    Un’ulteriore innovazione tecnica relativa al trasporto via mare del vino (considerati alcuni ritrovamenti su alcuni relitti naufragati all’epoca), fu l’introduzione di navi che portavano pesanti giare, note come: «dolia» e ancorate in mezzo alla nave, ma visti i risultati, sembra che l’esperimento non sia andato oltre al I sec. d.C.

    La produzione vinicola svolgeva un ruolo molto importante nel commercio alimentare dell’epoca. Insieme all’olio, la Spagna, l’Italia e la Grecia spesso si scambiavano vini, e l’olio prodotto in Italia veniva mescolato con quello prodotto in Spagna, Gallia e Africa. Strabone (circa 64 a.C.-19 d.C.) scrive: «Miscentur sapores… miscentur vero et terrae caelique tractus» («…si mescolano i sapori (…) si mescolano in verità anche terre e tratti di cielo»).

    L’incremento dei traffici richiedeva un notevole aumento della logistica per far fronte all’intero apparato commerciale. Di tutto questo ne beneficiavano, non solo i grandi porti marini, come quello di Alessandria che sotto Roma Imperiale era diventato il centro mondiale del traffico mercantile, ma anche importanti snodi della penisola italica, tra cui Pozzuoli e Ostia, ma anche Aquileia, Tiro, Cadice (Gades), Efeso e Marsiglia. Si assisteva anche a un fiorente commercio in alcuni porti fluviali ricavati nelle anse dei fiumi, dove transitavano un numero impressionante di anfore vinarie caricate su barconi, come ad esempio a Lione.

    L’imperatore Augusto, aveva assegnato un compito ai responsabili dei traffici e del commercio: «Unire saldamente l’impero per rendere la sua sopravvivenza la più lunga possibile nei secoli a venire». Noi pensiamo che il vino abbia avuto il merito e un posto di rilievo (non da merce qualunque), per essere considerato un simbolo di raffinata civiltà, con cui scrivere pagine di storia.

    Brunello di Montalcino Altesino 2012 D.O.C.G
    Il marchio Altesino è una realtà di 40 ettari vitati, 25 dei quali iscritti nell’albo del Brunello, dislocati tra Montosoli (nord) e Pianezzine (sud).Le zone sono protette da grandine e temporali grazie al Monte Amiata, mentre le uve possono raggiungere un’ottima maturazione grazie ai venti caldi della Maremma che creano un microclima caldo e secco.

    Fondate negli anni Settanta le Cantine di Palazzo Altesi, creano il loro Brunello (uve Sangiovese grosso) in modo tradizionale, con lunghi affinamenti in rovere di Slavonia da 50 ettolitri. Il disciplinare infatti prevede uso di Sangiovese in purezza, riposo in cantina per almeno 50 mesi, di cui almeno 2 passati in botte. Tutto questo dona longevità (20 anni).

    Il vino che vi proponiamo per il pranzo di Natale è un prodotto molto elegante e molto equilibrato con accenti molto diversi tra loro, ma che – come per un tocco magico – nel bicchiere si fondono tra loro creando una perfetta armonia. Servito a 18° C, è l’ottimo accompagnamento per arrosti, carni rosse, selvaggina e pollame nobile (cappone ripieno).

    / Davide Comoli

  • La culla dei vini liquorosi più celebri

    Bacco giramondo – È nel Graves, così come nel Pessac-Léognan e nel Sauternes, che si producono non solo superbi vini rossi ma pure notevoli vini bianchi secchi e anche liquorosi

    La vasta regione delle Graves è posizionata sulla riva sinistra del fiume Garonna. Questa regione è la più antica tra le regioni del bordolese e le sue vigne esistevano già molto prima di quelli del Médoc; alcune proprietà come ad esempio Ch. Pape Clément, hanno più di 700 anni di storia.

    L’appellation Graves si estende per circa 55 chilometri a sud, arrivando alla città di Langon; il punto più lungo è di circa venti chilometri, da est verso ovest. Questa ampiezza di superficie dà origine a una produzione di vini differenti.

    Qui si producono non solo superbi vini rossi, ma pure notevoli vini bianchi secchi e anche liquorosi. È infatti in seno alla Graves che troviamo le A.O.C. «Barsac» e «Sauternes», i vini liquorosi più celebri al mondo.

    Come il suo nome lascia intendere, il terreno delle Graves è composto da una serie di affioramenti di depositi sedimentari, dominati da ciottoli mischiati alla sabbia, con degli strati argillosi accumulatisi nei secoli.

    Il paesaggio è vallonato con foreste e i vigneti migliori occupano le groppe delle colline meglio drenate; inutile sottolineare che il sottosuolo varia da un cru all’altro.

    Per molto tempo oscurati dai grandi crus del Médoc, i migliori vini delle Graves stanno negli ultimi anni conoscendo un meritato successo, soprattutto con i vini di Pessac-Léognan. Questa appellation è sicuramente la più importante della regione delle Graves e la sua parte settentrionale confina con la città di Bordeaux. È solo dal 1987 che Pessac-Léognan ha ottenuto una propria «A.O.C.», defilandosi un po’ dalle Graves. Dal punto di vista storico questo riconoscimento è arrivato relativamente tardi, visto che le proprietà vicine alla città hanno subito un crollo nel corso del XIX secolo.

    La nostra speranza, e ci crediamo fortemente, è che la vicinanza della città con la sua edilizia invasiva non faccia sparire questi siti da leggenda, culla del vigneto bordolese. Nel tentativo di cercare la parte buona in tutto questo, si potrebbe osservare che la scomparsa di tanti vigneti è stata ricompensata da uno sviluppo qualitativo dei cru che contano (Haut-Brion, Pape-Clément), due bandiere di Bordeaux e parecchi altri crus classés nel lontano 1959.

    Pessac-Léognan è la sola regione del bordolese che produce vini sia bianchi sia rossi d’eccellente qualità. Di due rossi abbiamo parlato, ma ai nostri cari lettori raccomandiamo i bianchi prodotti con uve Sémillon e Sauvignon Blanc di Château Smith Haut Lafitte, Château La Louvière e il mitico Château Carbonnieux, da accompagnare a un rombo in salsa mousseline.

    Scendendo verso sud, si raggiunge Sauternes, dove si concentra la migliore produzione di eccellenti vini liquorosi creati dalla «muffa grigia». Possiamo solo incoraggiarvi a fare una passeggiata in questa infilata di colline e vallate, che ad ogni svolta offre un paesaggio diverso, vecchie rovine di imponenti fortezze, piccoli borghi chiusi in se stessi e poi castelli che presiedono ai crus classés.

    Sauternes vi accoglierà nella serenità della sua campagna e chi apprezza la buona cucina troverà un paio di buoni ristoranti in cui gustare un grande vino dell’appellation.

    Tra il XVII e il XIX secolo, i vini liquorosi erano le vedettes del bordolese. I primi amatori di questo genere di vini furono gli olandesi che permisero a questi crus di fare una carriera senza precedenti. La crisi filosserica di fine XIX e inizio XX secolo che determinò una caduta dei vini liquorosi – ma anche una serie di grandi millesimi negli anni Ottanta e l’infatuazione di alcuni amatori di questo genere di vini – permise di rovesciare la tendenza.

    Questa appellation (Sauternes) appartiene a cinque comuni: Fargues, Bommes, Preignac, Barsac e Sauternes. I vitigni della zona sono gli stessi dei Graves bianchi (Sauvignon, Sémillon, Muscadelle).

    Il Sémillon, per la sua particolare idoneità a essere attaccato dalla botrytis (muffa nobile) entra normalmente con l’80 per cento nell’assemblaggio, il Sauvignon con il 20 per cento al quale qualche volta si aggiunge poco Muscadelle. I vini di Sauternes sono ricchi, mielosi, vellutati, di corpo, con una punta di acidità che propizia il loro invecchiamento ottimale. Con gli anni cambia colore (può restar qualche decennio in cantina), diventa più profondo e con un gusto più secco, quasi di bruciato.

    La regione è attraversata dal torrente Ceron, le cui acque fredde si gettano in quelle più calde della Garonna. Questa configurazione geografica particolare favorisce le brume autunnali che ristagnano sulle vigne lungo il fiume. È questo il momento ideale perché le spore del fungo della botrytis si moltiplichino sui grappoli.

    Di regola le brume svaniscono sotto il sole caldo del mezzodì, ma se l’umidità si prolunga nel pomeriggio, ci saranno le condizioni migliori per un’ottima disidratazione delle uve. Anche se le condizioni climatiche sono ideali, i produttori devono prodigare delle cure speciali a questi vini, molto più che ad altre tipologie. E soprattutto il debole rendimento, due bicchieri da 1 dl per ceppo, permette la buona maturità e concentrazione.

    A Château d’Yquem, situato a 86 m s/m che è il punto più alto del Sauternes, si producono vini da leggenda (1 dl per ceppo), nelle buone annate si ottiene un nettare eccezionale, dai profumi intensi, miele, noci, uva passa, albicocche e confettura d’arance; in questo vino v’è la forza, l’ampiezza, la dolcezza, ed esplode in bocca con i suoi aromi.

    Per le feste potrebbe essere di fatto un buon regalo (anche se un po’ caro): il solito foies-gras d’oca, un maturo formaggio bleu, un tarte-tatin, ma anche il piacere di centellinare questa Ambrosia, che i cugini d’oltralpe definiscono, scherzosamente: «La pipì des Anges».

    Cartizze Barboza
    Nella Marca Trevigiana, il vigoroso vitigno Glera domina incontrastato. Coltivato su pendenze che arrivano anche al settanta per cento e che costringono a orientare i filari di traverso e girapoggio con piccole quantità di vitigni autoctoni come: la Bianchetta, la Perera e il Verdiso, il Glera delinea i contorni sensoriali delle varie tipologie di Prosecco.

    Il Cartizze è un cru di 107 ettari tra le frazioni di Saccol, Santo Stefano e San Pietro di Barbozza nel Comune di Valdobbiadene, dove le vigne più scoscese esaltano le sfumature e le differenze nei vini. Il Barboza, prodotto dall’Azienda Agrigola Benotto, è un Cartizze Superiore di rara eleganza.

    Di un bellissimo colore giallo paglia con sottili riflessi verdolini, il vino possiede una bella spuma e perlage molto lungo, al naso presenta impetuosi accenti fruttati e persistenti che ci ricordano la mela, la pera per poi passare a note di fiori bianchi, leggero di corpo e fragrante, è un vino di facile beva. Ottimo per un brindisi tra amici, come aperitivo con stuzzicanti «appetizer», ma anche con pasticceria secca.

    /Davide Comoli

  • Per mare e per vie carovaniere

    Il vino nella storia – Continua la serie di articoli dedicati alle rotte del vino – 5a parte

    Nel 264 a.C., Roma governava – o erano a essa assoggettati – tutti i territori della penisola italica. Come si desume da molte cronache di quel tempo, il commercio si svolgeva principalmente via mare o lungo le vie carovaniere. È logico quindi pensare che lo sviluppo di questi traffici abbia determinato un miglioramento per renderli più sicuri, veloci e meno costosi.

    Le più affidabili cronache ci riferiscono quali erano i più importanti punti di riparo e attracco del Mediterraneo, del Mar Nero, del Golfo Persico e del Mar Rosso, ovvero: Emporium, Tarentum, Neapolis, Siracusa, Panormus e Marsiglia.

    In periodo romano, si ebbe la produzione di una serie di carte stradali chiamate: itineraria. Ma il noto itinerario di Isidoro di Carace, disegnato per l’Impero Partico, mostra come molto tempo prima degli itineraria romani, il traffico carovaniero era già stato studiato dai funzionari persiani e continuato dai cartografi di Alessandro Magno.

    Scorrendo le cronache degli ultimi scorci dei secoli a.C. – mentre s’attendeva che Roma diventasse una «potenza imperiale», dominatrice incontrastata del Mediterraneo – si nota che avvenne un certo impoverimento dei traffici mercantili.

    Fu forse l’espansione di Roma, prima all’interno della penisola italica e poi sempre più a nord e a ovest, che allontanò per un certo periodo l’interesse per i vini della Grecia, di Cipro e altre civiltà viticole dell’Egeo. La Sicilia stessa e la Magna Grecia, svincolatesi troppo in fretta dalla cultura e dagli esperti viticoltori greci, dai quali avevano appreso il mestiere, a quell’epoca non riuscivano più a trafficare oltre ai ristretti confini delle loro vigne. Le rotte tradizionali frequentate da pirati e mercenari al servizio di commercianti senza scrupoli di varie etnie, invasero poi i mercati con vini poco rispettosi della qualità.

    La storia ci racconta che nei primi tempi della Repubblica, la penisola italica fu terra di piccoli agricoltori, intenta a produrre mezzi di sussistenza per la propria famiglia, e forse un piccolo surplus da vendere. Lo stesso Catone (234-149 a.C.), che legò la sua fama alle misure prese quale censore (184) contro la ellenizzazione dei costumi di Roma, ci descrisse una sua azienda agricola, evoluta per quel tempo, che disponeva di un vigneto di 100 iugeri (1 iugero = 0.252 ha) e di un oliveto di 240.

    Catone permise una promiscuità colturale: si seminavano infatti grano, cereali e altre colture vegetali fra i filari delle vigne. Era inoltre molto diffusa la coltivazione della vite sostenuta dagli alberi. Anche questi elementi forse determinarono l’impoverimento della vitivinicoltura nei territori dominati da Roma in quel periodo storico. Fu verso la fine del periodo della Repubblica che il mondo agricolo, grazie a illuminati uomini politici, con coltivazioni e produzioni specializzate, portò una ventata intelligente allo sviluppo dell’intero comparto.

    Anche il vino, protagonista in passato di affari d’oro per molti Paesi produttori del Mediterraneo, divenne per Roma un’importante mezzo di sviluppo commerciale. Strade efficienti e funzionali trasporti su ruota, collegavano i vari luoghi di produzione, molte strade come quelle in alcune zone vinicole della Spagna furono costruite esclusivamente per soddisfare esigenze mercantili, per agevolare i carri che trasportavano le anfore piene del celebre rosso della Betica. Nel contempo una maggior sicurezza nei viaggi marittimi attraverso il Mediterraneo e in quelli fluviali, stimolava il commercio.

    In poco meno di venti giorni, vento e condizioni meteorologiche permettendo, da Roma si arrivava ad Alessandria d’Egitto, dalle coste iberiche a Ostia ci s’impegnava dai nove ai dieci giorni e dalle coste egiziane a Creta non più di tre.

    L’imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.) garantì a Roma alcune posizioni strategiche per i traffici mercantili, stabilendo ad esempio un vero e proprio protettorato romano sul Mar Rosso, via obbligata per il commercio con il sud-est, cercando con determinazione, grazie alla sua potenza, d’indebolire eventuali controlli esercitati da altri popoli.

    Cominciarono a essere preferiti e agevolati tutti i prodotti agricoli, a iniziare dal vino, destinati soprattutto al mercato esterno. Anche le fabbriche di anfore e botti assunsero dimensioni di rilievo; gli storici raccontano di alcune in cui operavano più di cento operai specializzati. Qui venivano travasati vini sempre più complessi, strutturati e di varie tipologie, ma anche vini più modesti. Famosa per le sue anfore era l’antica Pithecusa (sull’attuale isola di Ischia), che fu la prima colonia greca nel golfo di Napoli.

    Ancora non sappiamo con certezza matematica quanti vini si producessero nella grande vigna dell’Impero. Attenendoci a ciò che scrive Plinio nella sua Storia Naturale, troviamo una grossa discordanza tra i numeri che egli ci fornisce (80-185). Si potrebbe ipotizzare che il primo numero sia riferito ai più famosi o a quelli riconosciuti tali, il secondo ai vini in generale di cui all’epoca si aveva notizia.

    Tra i vini prodotti in Italia elenchiamo i più famosi: il Falerno, il Calenio, lo Statanio, il Cecubo, il Retico e il Mamertino. Ma tutti i vini italici dovevano competere sul mercato con i celebri vini di Chio, di Taso e di Lesbo, per non parlare dei vini spagnoli, tra i quali i Tarraconensi.

    Bric Loira (Cascina Chicco)

    Quando le prime brume e l’aria si fa un po’ più fredda, aumenta la voglia di cibi più sostanziosi, è normale quindi applicare delle prime regole per un buon abbinamento: «a piatti rilevanti, vini strutturati».

    Il Bric Loira, uve Barbera cento per cento vendemmiate sulle colline di Castellinaldo (CN) e vinificate dalla Cascina Chicco, è il vino giusto per le nostre serate dove la selvaggina la fa da padrona sulle nostre tavole. Colore di un profondo rubino con riflessi violacei, al naso intensi percepiamo la marasca, la prugna e il ribes, ma anche profumi floreali di viola e alcune spezie delicate, tra cui la vaniglia.

    Al palato il Bric Loira ci stupisce per la sua morbidezza, il suo colore e i suoi tannini setosi, lasciandoci un finale molto lungo e armonico, piacevolmente accompagnato da un retrogusto di liquirizia. Come già detto, accompagnatelo ai medaglioni di cervo o a un bollito misto, ma sappiate che è stupendo se bevuto con amici durante una «merenda» di pane e salame.

    / Davide Comoli  

  • La vita nella ghiaia del Médoc

    Bacco giramondo – La penisola del dipartimento francese della Gironda è tra le più note al mondo per la qualità dei suoi vini

    Il Médoc è una banda costiera larga circa dieci chilometri che s’allunga per circa ottanta chilometri da Bordeaux all’Atlantico. La zona sicuramente più conosciuta a livello mondiale per la grande qualità dei suoi vini. Il Médoc ha saputo creare infatti uno stile di vinificazione molto apprezzato e possiamo tranquillamente dire anche «copiato in tutto il mondo». I vigneti occupano una fascia territoriale che va dai tre ai cinque chilometri e termina a nord nei pressi del villaggio di Vensac; le sue vigne godono di un clima relativamente umido e caldo, ben soleggiato e con dei microclimi unici.

    Il terreno povero, permeabile e pieno di ciottoli, permette alle radici della vite di scendere molto in profondità (a volte fino a dodici metri) così da assorbire tutti gli elementi indispensabili per un ottimale sviluppo. I circa 16’500 ettari sono quasi esclusivamente dedicati alla coltivazione di vitigni a bacca nera e sono: il Cabernet Sauvignon, il Merlot, il Cabernet Franc, il Petit Verdot, il Malbec e il Camenère.

    Prima del XVIII sec. era il Médoc, nome che deriva da: «media aquae», una zona semi paludosa, nella quale si poteva arrivare quasi esclusivamente con un’imbarcazione. Con l’arrivo degli Olandesi, specialisti come sappiamo nel bonificare terreni, la nobiltà bordolese incominciò a impiantare dei vigneti sul piatto terreno ciottoloso. Subito si capì quale fosse il terreno migliore, la parte nord, il Médoc e la parte più a sud, l’Haut-Médoc, Questa separazione è in vigore ancora ai giorni nostri, e fu solo dopo il XVIII sec. che l’Haut-Médoc, il cui confine termina nel comune di Saint-Seurin-de-Cadourne, cominciò a imporsi per la produzione di vini eccezionali. Solo un terzo della produzione proviene dal Médoc, il terreno qui non permette di ottenere vini con molta struttura né complessità come quelli dell’Haut-Médoc, e non possiedono nemmeno l’altitudine per poter invecchiare. Sono comunque vini piacevoli, ma da bersi giovani.

    Situazione molto differente quella che troviamo più a sud, è qui che si incontrano i più celebri «crus classés» e le «appellations régionales» più prestigiose come: Saint-Estèphe, Pauillac, Saint-Julien, Listrac, Moulis e Margaux.

    Osservando attentamente una mappa del Médoc, si nota che i vigneti si concentrano soprattutto al limitare dell’estuario della Gironda. E proprio accanto al fiume, come viene attestato dalla concentrazione dei crus classés, che si trovano i migliori terroirs di ghiaie dei Pirenei su un substrato argillo-calcareo. Questa combinazione ha due vantaggi certi: un drenaggio ottimale delle piogge di primavera e autunno e il riflesso del calore solare diurno durante la notte verso i grappoli, che continuano a maturare lentamente. Per tale ragione le viti vengono allevate basse, in modo che restino vicino a questi ciottoli caldi.

    Il Médoc, l’Haut-Médoc e le varie «appellations communales» sono la patria del celebre vitigno rosso del Bordolese, il Cabernet Sauvignon. Vitigno di tarda maturazione, sa adattarsi a tutte le condizioni climatiche e geologiche, in più le sue radici che con forza penetrano in profondità tra i ciottoli, permettono di produrre vini molto complessi e di qualità eccezionali. Questo vitigno robusto, ha bisogno di molto sole per maturare, altrimenti ci troveremo di fronte a vini con il gusto erbaceo troppo marcato, il classico (non proprio) piacevole peperone verde e in certe annate si possono trovare vini dai tannini duri e amari, che mancheranno d’armonia invecchiando.

    I piccoli acini a buccia spessa sono di fatto ricchi di tannini, questo richiede un grande e superlativo lavoro agli enologi per equilibrare le loro cuvées. Gli altri cinque vitigni sopracitati entrano in quantità e proporzioni differenti nelle cuvées. Naturalmente i vini in cui il Cabernet Sauvignon è dominante, necessitano di un invecchiamento più lungo, per dare modo al bouquet e all’equilibrio di schiudersi.

    In ogni caso nei più famosi Château del Médoc, il Cabernet Sauvignon è il re incontrastato e s’illumina di tutta quella che i francesi chiamano: «Grandeur». La grande forza del Bordolese sta nel suo «classement viticole», voluto da Napoleone III per l’Exposition Universelle a Parigi, il 16 settembre 1855. Questa classifica tiene però solo conto della regione del Médoc, di Ch. Haut-Brion nelle Graves e dei vini liquorosi di Sauternes e Barsac. I vini prodotti sulla Rive-Droite della Dordogna non furono tenuti in conto, ma questa è un’altra storia.

    Percorrendo la D2 in direzione sud di Bordeaux, colpisce il forte contrasto fra l’opulenza dei grandi Châteaux e la modestia delle basse casette dei tanti villaggi che punteggiano la strada, e immancabilmente la nostra memoria ritorna alle grandi risate fatte in molti viaggi con gli amici ticinesi e soprattutto con uno speciale ricordo a Fabio, scomparso da qualche anno.

    È d’obbligo fermarsi a provare i vini di Saint-Estèphe, con il loro gusto pronunciato, forse per la proporzione maggiore di Merlot. I vini di Pauillac, piccolo comune un po’ più a sud del primo, che costeggia la Gironda, godono di una fama molto prestigiosa già dai tempi di Luigi XV. Il suolo molto vario dà ai vini di Ch. Lafite una finezza atipica per i vini di Pauillac. Abbiamo provato questo nettare abbinandolo al famoso piatto locale, il gigot d’agneau. I vini del suo vicino Saint-Julien hanno un po’ meno corpo, ma è incredibile la loro armonia e l’equilibrio ineguagliabile; sono forse i vini più moderni del Médoc.

    Margaux, Listrac e Moulis, sono i tre comuni più a sud dell’Haut-Médoc. Il suolo composto da sabbia, ciottoli e argilla, costituisce il tipico terreno della zona: les graves. L’appellation Margaux, che raggruppa i comuni di Arsac, Labarde, Cantenac, Issan e Soussans, con i suoi 400 ettari vitati è la più grande superficie viticola del Médoc. I vini di Margaux sono considerati come i più fini e dal bouquet più intenso, mai troppo pesanti e molto eleganti. Ottimo quello di stasera con il nostro piatto di quaglie con il risotto.

    Winkl «Sauvignon Blanc»
    Nella sottozona di Terlano o Terlaner (BZ), affiancata da Nalles e Andriano, le radici delle viti devono scavare a fondo nell’arido terreno per raggiungere il nutrimento vitale che è all’origine del carattere minerale di questo straordinario «Sauvignon Blanc».

    Regina incontrastata per la produzione vinicola della zona è la Cantina Terlan. Il «Winkl» viene vinificato in purezza e si presenta a noi con un bouquet di rara complessità, a voler dimostrare che questo vitigno non solo per aromi varietali e erbacei, ma con il giusto rapporto del terroir e la mano di un esperto enologo, può dare sensazioni molto più complesse e fini.

    Tutto questo già lo si percepisce all’olfatto dove ai profumi fruttati/floreali si intersecano aromi di pietra, spezie dolci e camomilla. Una freschezza avvolgente ci stupisce al palato che sopporta una ragguardevole persistenza gusto olfattiva. Il 2017 è un vino piacevolmente nervoso, ma dalla grande capacità d’invecchiamento. Un risotto con cappesante è il suo abbinamento ideale, delizioso lo abbiamo provato con un’ombrina alle olive taggiasche ed erbe fini.

    / Davide Comoli

     

  • Una guerra senza armi

    Vino nella storia – Così Roma punì Rodi rovinando il suo commercio – 4a parte della serie «Lungo le rotte del vino»

    Con il passare degli anni e l’intraprendenza di altre realtà emergenti – come ad esempio quella di Cnido, un lembo di terra fertile poco più a nord di Rodi (oggi Turchia) – l’isola egea cominciò a sentire il fiato sul collo di altri concorrenti, a cominciare dai dominatori romani. Dopo la terza guerra macedonica, Roma decise di punire Rodi, scegliendo di colpire il suo punto più vulnerabile: il commercio, soprattutto quello del grano e del vino.

    Per indebolire la prosperità della piccola isola dell’Egeo, Roma non ebbe bisogno di dichiararle guerra o di mandare le sue legioni. Un qualunque atto di forza sarebbe stato uno scandalo per il mondo greco, e Roma, quanto più poté, cercò di evitarlo: fu sufficiente infatti mettere in atto una misura più semplice e meno drastica. Con l’intento di portare disappunto e creare difficoltà per mezzo di una concorrenza sleale, Roma dichiarò la piccola isola di Delo, alleata di Atene: «porto franco».

    In verità, dietro questa misura, ci fu lo zampino degli alleati di Roma; gli antigonidi, la dinastia che per due secoli aveva regnato in Macedonia e che cercava in tutti i modi di boicottare Atene, considerata una pericolosa avversaria. In poco tempo il commercio del grano, del vino e altri prodotti provenienti dal nord, passò nelle abili mani di mercanti che controllavano i magazzini e il porto di Delo, per farne merce di scambio e commercio per i traffici che attraversavano l’Egeo e il Mediterraneo.

    Con Delo esente da tasse, iniziò così una nuova era. A subirne le conseguenze non fu solo Rodi, ma anche gli stessi nativi di Delo, dato che non a tutta la popolazione era dato di beneficiare del ritorno economico del traffico di vino. Per i locali produttori di vini e piccoli commercianti, la creazione del «porto franco» significò la rovina. Delo, lasciata in balia di banchieri e trafficanti, divenne la piazza ideale per i privati di professione, che potevano vendere senza problemi il frutto delle loro scorrerie. Anche la distruzione dei centri di commercio di Corinto e Cartagine causò la rovina di importanti comunità di ricchi mercanti mediterranei.

    Coloro che riuscirono a sopravvivere e portare in salvo parte dei loro beni, furono costretti a cercare nuovi lidi disposti ad accoglierli e dove poter continuare la loro attività e i loro commerci. Pure in Medio Oriente, Siria ed Egitto, una nuova situazione di disagio economico e mercantile che si era creata consigliò ai mercanti di rivolgersi ai nascenti mercati del sud Italia.

    Gli abitanti dell’Italia meridionale erano stati a lungo in stretti rapporti commerciali con il mondo greco, dapprima con Atene, in seguito tramite Rodi e Delo, con i quali trafficavano nei due sensi i vini dell’Egeo e i vini di Enotria. Alleati dei Romani e considerati essi stessi dei romani al cospetto del mondo mercantile d’Oriente, e dunque protetti dalle leggi e dagli eserciti di Roma, sia i Greci sia gli Italici – colonizzati culturalmente dagli ellenici, che occupavano le aree a sud della penisola – non si fecero sfuggire l’occasione di diventare protagonisti del nascente mercato, aumentando la produzione vinicola. Tutto ciò fu senza alcun dubbio agevolato dalla istituzione del «porto franco» di Delo. A testimonianza di quanto affermiamo, sono le centinaia di anfore vinarie e olearie ritrovate sulla piccola isola sulle quali sono impressi dei bolli italici.

    Con capitali acquisiti durante le guerre che Roma condusse in Occidente e Oriente, i mercanti italici cominciarono a stabilirsi a Delo e ad attivare rapporti con i produttori di vino in Italia, i mercanti della bevanda in Grecia e in tutto il bacino Mediterraneo. L’influenza di Roma aprì altre importanti aree, avviando una nuova era commerciale internazionale, nella quale il vino avrebbe avuto un ruolo importante. Il resto fu merito dei primi grandi viaggiatori e conquistatori che svilupparono le relazioni commerciali tra il mondo greco ed ellenizzato e i Paesi poco o nulla toccati dalla civiltà greca. Nei nostri viaggi, abbiamo trovato tracce di ciò che stiamo scrivendo: in Iran, India, Asia centrale, confini della Cina, Arabia e naturalmente Europa.

    Si cominciarono a codificare, divulgandone l’esistenza, le varie strade da percorrere, le vie dei traffici mercantili, a cominciare dal commercio carovaniero diretto verso Oriente. Il traffico aveva come protagoniste le vie fluviali della Mesopotamia, della Gallia, della Germania, la parte meridionale della Russia e i Paesi attraversati dal Danubio.

    Importante e decisivo era il commercio marittimo, che per secoli aveva visto il solo Mediterraneo come scenario e che ora collegava molti Paesi tra loro. Il commercio locale avveniva, indifferentemente per via terra, veleggiando lungo la costa o attraverso i fiumi navigabili. Questo portò a scatenare una gara tra le regioni mediterranee interessate a produrre quantità di vino sempre maggiore, alla quale faceva riscontro una domanda in continuo aumento. Se per i mercanti l’enorme quantità di anfore vinarie giustificava il viaggio, più difficili si presentavano le operazioni mercantili per i Paesi che non si affacciavano sulle coste. Infatti, questi dovevano affrontare viaggi lunghi, lenti e costosi, con carri e animali da soma su strade sconnesse e pericolose.

    Châteauneuf-du-Pape / Clos de l’Oratoire des Papes 2006
    Su depositi di calcare (conchiglie) vecchi milioni di anni, si sono sedimentate sabbie e in seguito argilla dove il Rodano ha poi ricoperto con grossi sassi di quarzite e selce provenienti dalle Alpi. Su questi terreni si produce il Châteauneuf-du-Pape, vino che ha pochi paragoni in fatto di celebrità, passando dalla più grande notorietà a momenti di oblio.

    I vini di questa «enclave» del Basso Rodano sono famosi perché prodotti con quasi tutti i vitigni autorizzati in questa regione, 8 rossi e 5 bianchi. «Clos de l’Oratoire des Papes», situato presso il castello che domina il villaggio, è prodotto con ceppi centenari di Grenache, Syrah, Mourvèdre e Cinsault. Questo mitico vino canalizza la potenza del sole in un clima mediterraneo, senza sacrificare l’eleganza. Possente, ma non pesante, bisogna avere la pazienza d’aspettare una decina d’anni prima di gustarlo. Il nostro 2006 è perfetto in questo senso, complesso e ampio con i suoi sentori di frutti rossi maturi, seguiti da tabacco, liquirizia e tartufo, è l’ideale per la vostra sella di capriolo, il fagiano arrosto, ma provatelo sulla famosa «canard à l’orange».

     

    / Davide Comoli

  • A spasso tra i vigneti della Gironda

    Bacco giramondo – Non è solo un itinerario affascinante, la regione è anche ricca di storia e di terroir che mostrano tra loro grandi diversità

    Affascinante, elegante, seduttrice e qualche volta arrogante, ma pure alle volte campagnola, la Gironda, dipartimento francese della regione Nuova Aquitania, non finisce mai d’emozionarci. Questo territorio riesce a esprimere lo spirito della città di Bordeaux, nato dall’attrito tra aristocrazia, gente comune, mercanti olandesi, inglesi e da ultimo, ma non ultimo, dai vignaioli.

    Lasciata la città, si prende la Rocade (circonvallazione) – non importa verso quale direzione – per poi ritrovarsi immersi in infinite distese di vigne. Un amatore di vini, potrebbe passare l’intera vita a esplorarle tutte.

    Sulla Rive Gauche, Pessac-Léognan e Graves raccontano la nascita del vigneto bordolese che risale a più di duemila anni or sono. Tra questi vigneti a forte personalità, potete incominciare a conoscere la grande diversità dei terroir girondini, passando dai signori di Pessac-Léognan e arrivando ai piccoli vignerons di Langon.

    Al centro della regione delle Graves, Sauternes e Barsac mantengono inalterati gli «umori» liquorosi del Sémillon e del Sauvignon, dedicandosi al rito della «pourriture noble», che nasce dalla magia degli autunni brumosi e dalle tarde piogge estive.

    Più a nord si trova la Médoc, dove l’amatore di vini dovrà fare in modo di cogliere di sorpresa alcuni produttori per poter rubare qualche degustazione. In questa regione, tra la Gironda e la foresta delle Landes, produrre vino è religione, e il loro «idolo» è il Cabernet, vitigno molto indocile che esige il sole per maturare e tempo per risvegliarsi e dare il meglio di sé.

    Da Margaux a Saint-Estèphe, passando da Saint-Julien e Pauillac, la Médoc ci propone alcuni dei vini più prestigiosi al mondo. Qualche nome? Latour, Lafite-Rothschild, Mouton-Rothschild, Margaux, bastano per attirare in questi luoghi migliaia di estimatori della sacra bevanda.

    I grandi Crus (provandoli) illustrano la favolosa e straordinaria potenzialità del terroir della Médoc. Passando la Rive Droite e andando verso nord, troviamo il Libournais, dove impera il vitigno Merlot con la sua opulenza. Nel Pomerol e Saint-Emilion, i vini prodotti con questo vitigno ci seducono con il loro profumo di bacche rosse e nere, con la loro rotondità e morbidezza.

    Da secoli Bordeaux elabora grandi vini: il poeta romano Ausonio (circa 310-393 d.C.) fu il primo a tesserne le lodi. Coltivate da molto tempo, le migliori viti delle Graves sono oggi le belle parcelle di un grande crus (il vigneto di Château Pape Clément), già famoso nel 1331. All’alba del XVIII secolo, qui si cominciarono a produrre grandi vini capaci d’invecchiare, dando così i natali al Château Haut-Brion.

    La Garonna, che nasce dai Pirenei e sfocia nell’estuario della Gironda, separa la Rive Gauche con Bordeaux per capitale, dalla Rive Droite, con il porto di Libourne come città principale.

    La differenza geografica delle due regioni, la ritroviamo nello stile dei vini rossi prodotti. Mentre la Rive Gauche è dominata dal Cabernet Sauvignon, la Rive Droite è il feudo del vitigno Merlot, ma molte altre differenze sono legate alla storia.

    Nella regione delle Graves, si producono pure dei superbi vini bianchi dai vitigni Sémillon e Sauvignon Blanc, anche se questa categoria di vini resta appannaggio della regione dell’Entre-deux-Mers, situata nel mezzo dei corsi della Garonna e della Dordogna. A sud-est su entrambe le rive della Garonna, troviamo la vasta produzione dei vini liquorosi, con i famosi Crus tra cui spicca su tutti il mitico Château d’Yquem e i meno conosciuti vini di Loupiac e di Sainte-Croix-du-Mont. Ma di tutte queste zone citate, approfondiremo la conoscenza nei nostri prossimi incontri.

    Il vigneto di Bordeaux si estende per circa 120mila ettari e produce circa 6 milioni di ettolitri di vino. Il paesaggio bordolese, come già abbiamo accennato, si compone di tre macrozone molto diverse, la cui linea di demarcazione è definita dall’estuario della Gironda, lungo circa 60 km, e dai due grandi fiumi che lo formano, la Garonna che nasce dai Pirenei e la Dordogna che nasce dal Massiccio Centrale.

    La parte a occidente s’incunea con una piana ondulata verso nord-ovest, tra il litorale atlantico e la Gironda, mentre quella orientale presenta morbidi pendii collinari che di rado superano i 100 metri sl/m.

    Situata ai bordi dell’oceano Atlantico, sul 45° parallelo nord, esattamente a metà strada tra il Polo e l’Equatore, il vigneto di Bordeaux, interamente inserito nel dipartimento della Gironda, fruisce di un clima estremamente favorevole, che possiamo definire marittimo-temperato.

    La Regione beneficia in parte della calda corrente del Golfo proveniente dai Caraibi che costeggia il litorale dell’Aquitania e che regola la temperatura. Anche la foresta delle Lande, la lunga e larga striscia di pini marittimi, fatti mettere a dimora da Napoleone III (1808-1873) per vincere la malaria che imperversava nella regione, formano uno scudo protettore ed efficace contro i venti dell’Atlantico. È dunque un clima molto favorevole, adatto alla giusta maturazione delle uve, sebbene non manchino i rischi dati dalle gelate primaverili durante la fioritura, e le piogge fredde durante la fecondazione che provocano la colatura, senza dimenticare la grandine che alle volte colpisce al momento della vendemmia.

    Bisogna però ricordare che i grandi vini sono il prodotto della combinazione di diversi fattori naturali ma anche di un sapere che deriva dalla tradizione. Oltre ai motivi citati non dobbiamo assolutamente dimenticare la composizione del suolo e Bordeaux, come vedremo, ha la fortuna di possedere un insieme di terroir particolari, favorevoli alla viticoltura.

    Ripasso «Gran Lombardo»

    La vendemmia è manuale e si svolge da metà ottobre, con selezione dei grappoli di Corvina, Veronese, Corvinone, Rondinella e altre uve locali, che vengono depositate in piccole casse per un leggero appassimento. La vinificazione avviene con diraspa, pigiatura soffice degli acini e conseguente macerazione delle uve per un paio di settimane, segue la fermentazione in piccoli recipienti d’acciaio, unendo le diverse varietà dell’uvaggio. La tecnica del Ripasso prevede una «riattivazione» sulle vinacce fermentate del Recioto o Amarone della Valpolicella.

    Dal colore rubino intenso con riflessi blu, il nostro vino svela al naso un frutto rosso molto maturo, amarena, ribes nero, susina, per poi virare verso spezie delicate, armonico, ben equilibrato e caldo al nostro palato, è ben viva ancora la frutta nel finale lungo e persistente. Da provare con una punta di vitello ripiena o con un piccione farcito con i suoi fegatini.

    / Davide Comoli

     

  • Sulle rotte dei Fenici

    Il vino nella storia – Lungo le vie che da Oriente arrivavano sulle sponde del Mediterraneo occidentale – 3. parte

    Esistono a grandi linee tre rotte che partono da Oriente e arrivano sulle sponde del Mediterraneo occidentale. La prima costeggia le coste del nord e arriva fino all’altezza di Corfù (l’antica Corcira). Da lì con vento favorevole in poco meno di due giornate si potevano raggiungere le coste della Sicilia.

    La seconda rotta, quella meridionale, segue le coste africane dell’Egitto fino all’attuale Africa settentrionale, arrivando dopo una lunga navigazione di cabotaggio alle Colonne d’Ercole. Lungo tutto il percorso, i navigatori Fenici avevano disposto degli scali oppure dei piccoli luoghi d’approdo (fondachi), il più importante (forse) fu Cartagine, definita dallo storico greco Appiano, una «nave alla fonda». La terza rotta attraversava il mare, facendo appoggio su una catena di isole, Cipro, Creta, Malta, Sicilia, Sardegna, Baleari. Questo tragitto costringeva gli equipaggi ad abbandonare il cabotaggio ed era una vera navigazione d’altura. Furono in grado gli scafi Fenici di seguire questa rotta? La risposta è sì, la presenza dei Fenici e di Cartagine in seguito, è ben presente su molte isole che s’incontrano su queste rotte. Questo accenno che abbiamo dato sulle vie mediterranee, ci fa comprendere il lungo viaggio del vino alla conquista dei consumatori di città e campagne. Saranno prima i Greci e in seguito i Romani, mercanti di vino, a solcare le rotte tracciate dai Fenici.

    In tutta la regione dove dominava Atene, il vino è il protagonista delle bevute quotidiane o di quelle straordinarie del «Simposio». Il consumo del vino, dopo l’avvia di queste rotte, non verrà più considerato un privilegio dei pochi, riservato alle classi elitarie, che facevano incetta dei vini migliori lasciando alla massa i vini più scadenti. In Grecia e nelle zone ad essa legate nel bacino Mediterraneo, il commercio del vino diventa indispensabile strumento di promozione verso quei popoli e quelle regioni che sono sprovviste di vigne o il vino prodotto non è sufficiente a soddisfare le richieste. Il vino infatti diventa, come già accennato, la «star» del momento, non solo per il largo uso quotidiano, ma soprattutto nei tradizionali riti dei banchetti come unica bevanda nelle cerimonie sia civili sia religiose.

    Saranno i Greci, i primi a codificare i requisiti che devono avere i vini. Non sempre è facile tradurre i termini in modo corretto, ma proviamo: Mèlas (rosso/nero), Leukòs (bianco/giallo), Austeròi (aspro), Xeròi (secco), Malakòi (amabile), Glykèis (dolce), Òzontes (ricco bouquet), Leptòi (leggero), Pachèis (corposo), Thermòs (caldo), Asthenèsteros (poco vigoroso), i più apprezzati erano quelli: neri, forti, odorosi e invecchiati. Sotto la «spinta» culturale ellenica e con la diffusione della viticoltura – causa anche dell’aumento demografico, quindi la necessità di produrre e distribuire i frutti della terra, e tra questi il vino, vera forza trainante del mercato – ci sarà uno sviluppo repentino del traffico mercantile soprattutto via mare. Tutto ciò implicherà indispensabili severi controlli nei porti. I controlli non sempre vengono fatti per motivi etici o a difesa dei consumatori, ma per evitare che navi di certe zone, come ad esempio quelle di Taso, importante centro di produzioni vinicole dell’Egeo settentrionale, trasportino vino proveniente da zone non codificate per legge.

    Se le coste del Mediterraneo occidentale sono per i Greci motivo di grande interesse commerciale, questo popolo non disdegna di esportare il vino anche verso le popolazioni rivierasche dell’Egitto e soprattutto quelle che si trovavano verso nord, sulle sponde del Mar Nero. Non possiamo poi dimenticare il dominio greco delle coste italiche meridionali: della Puglia, della Calabria, della Sicilia e l’isola di Ischia, che oltre al vino, introducono, in queste regioni, vitigni di cui ancora oggi godiamo il frutto. Anche se la civiltà enoica e mercantile della Grecia e il suo predominio nel Mediterraneo non sono da mettere in discussione, si affacciarono tuttavia sulla scena, dominata dagli Elleni, nuovi protagonisti.

    Rodi, piccola isola dell’Egeo, si prepara a conquistare, proteggere e consolidare le rotte mercantili. Grazie alla sua posizione, Rodi diventa (almeno in età micenea) un’importante intermediaria tra Grecia e Oriente. Intuita la possibilità di commerciare i vini della Grecia o di Cipro e altre realtà mediterranee, Rodi volge la sua attenzione verso Oriente. Molti storici, sia antichi sia moderni, concordarono nel far risalire il suo sviluppo commerciale, diventando una potenza (per l’epoca), in virtù delle sue navi mercantili, adattandole in modo da garantire il trasporto di centinaia di anfore atte a contenere il vino. Il notevole aumento di prestigio si accompagnò in Rodi a un corrispondente aumento di ricchezza, testimoniato dai ritrovamenti di monete di quest’isola, che dominò il mercato dell’Egeo e altri mercati fuori da esso. L’esportazione del vino e la sua diffusione è testimoniato dai «bolli rodii» impressi sulle migliaia di anfore ritrovate; bolli che dimostrano i lunghi viaggi dei mercanti dell’isola, i quali imposero anche i loro vini «mediocri» ai clienti con i quali Rodi fu in rapporto costante. La maggior parte delle anfore vinarie furono prodotte tra il 240 e il 120 a.C. e sono state trovate in Egitto, Siria, Palestina, Asia Minore, Persia e a occidente: Sicilia, sud Italia e Cartagine.

    Marschallgut – Pinot Noir Reserve
    Nella «Bündner Herrschaft» sino al 1635 si coltivavano solo vitigni a bacca bianca. Fu durante la guerra dei Trent’anni che il duca di Rohan, Enrico II, capo dell’armata francese, introdusse il Pinot Nero. Grazie al foehn i vini prodotti nella regione della Bündner Rheintal arrivano ad avere qualità eccezionali. Il vitigno principe di questa regione è il Pinot Nero, sovente elevato nelle barriques, dona dei nettari complessi e longevi, i quali non temono di sfidare i più quotati Pinot Neri di Borgogna.

    Fondata nel 1868, la cantina Cottinelli possiede circa ventidue ettari vitati nei comuni di Malans, Jenins, Zizers, Coira. Il Pinot Nero che vi proponiamo proviene invece dalla tenuta di Marschallgut, nel comune di Maienfeld. Di un rosso intenso, al naso offre subito richiami diversi, frutta rossa concentrata e croccante, note di leggera speziatura e incredibilmente lungo nella fase retrogustativa. È un vino caldo e avvolgente che consigliamo con un carpaccio di cervo ai mirtilli, o in abbinamento a un risotto con funghi, noi lo abbiamo provato con il fegato alla veneziana… ottimo.

     

    /Davide Comoli

     

  • I vini della Valle della Loira

    Bacco giramondo – Grazie ai numerosi corsi d’acqua e al microclima, questa è una delle più generose regioni vitivinicole della Francia

    Dalle alture ai confini della Bretagna sino ai meravigliosi giardini della Turenna: questi i confini di una regione francese della Loira che presenta un’impressionante diversità di vitigni e di vini. Sono preservati sia dalle tradizioni locali che ne privilegiano l’autenticità, sia dai terroir che beneficiano dei microclimi creati dai numerosi corsi d’acqua.

    Tutti questi vitigni condividono caratteristiche comuni: situati sulla stessa latitudine, i vini prodotti grazie a essi godono delle tonalità nordiche, sono molto freschi e soprattutto dominati dall’influenza del fiume Loira, onnipresente e grande via di comunicazione. Fiume selvaggio, la Loira è generosa verso le vigne che crescono lungo tutto il suo corso, accompagnandole come delle guardie d’onore. Sulle coste e sulle terrazze delle sue rive, i ceppi di vite godono della sua luce e della dolcezza del suo clima.

    La storia dei vini di questa regione è legata direttamente alla storia della Francia. I romani furono i primi a piantare la vigna sui bordi della costa atlantica, ma è ai vari monarchi, principi e prelati susseguitisi nel corso dei secoli, che la vigna di questa regione deve il suo sviluppo e la sua diversità.

    Dalla sua sorgente al suo estuario, il fiume più lungo della Francia scende attraverso un passaggio di dolci colline, di campi verdi e naturalmente di vigne, lambendo dei magnifici castelli e dimore signorili. La Loira, larga e lenta, è alimentata dai suoi rifluenti (il Cher, l’Indre, l’Allier e la Vienne), i quali danno il nome ai vari dipartimenti, la stessa cosa fanno gli affluenti meno importanti come: l’Aubance, il Layon, la Sèvre Nantaise e la Maine, creando dei microclimi particolari.

    La Loira nasce a sud del Massiccio Centrale e, a metà del suo percorso, vira verso ovest creando la prima delle tre grandi regioni vitivinicole: Sancerre e Pouilly, dove si producono vini bianchi fruttati ed erbacei, grazie al vitigno Sauvignon Blanc, la cui popolarità ha conquistato il mondo.

    La seconda regione vitivinicola è contraddistinta da vaste distese di vigneti: la Turenna e l’Angiò, in cui ha origine tutta una famiglia di vini bianchi fermi o pétillants prodotti con il vitigno Chenin Blanc, ma è anche la regione più importante per la produzione dei vini rossi, con il vitigno Cabernet Franc, chiamato anticamente Bretonne.

    La terza regione è costituita dalla bassa Loira, che si differenzia molto dalle altre. Questa regione è il reame incontrastato del Muscadet (chiamato anche Melon de Bourgogne), vino bianco leggero e fruttato, che evoca i profumi del mare; l’oceano, infatti, non è troppo lontano, come dimostra la pluviometria abbondante dei Pays Nantais.

    Il clima di questa regione varia in modo molto sensibile: dalla sorgente all’estuario della Loira – a dipendenza dell’influenza più o meno marcata dell’Oceano Atlantico e le annate vinicole – il risultato della vinificazione dipende molto da questo fattore sia in qualità sia in quantità.

    Tornando ai Pays Nantais, il Muscadet e il Gros-Plant, sono dei vini semplici nel caleidoscopio dei vini francesi. Essi hanno un gusto inimitabile, per secoli sono rimasti dei prodotti a uso locale, ma dopo gli anni Settanta sono divenuti, per gli amatori dei vini semplici, l’accompagnamento ai piatti composti da frutti di mare e ciò è stato la loro fortuna.

    Risalendo poi il fiume verso ovest, troviamo le due province più belle della Francia, l’Angiò e la Turenna, regioni dove per secoli uomini e natura hanno lavorato in armonia. Ad Angiò e a Saumur, troviamo molte varietà di vini dagli stili differenti e molti vitigni. Troviamo bianchi dolci e voluttuosi a Quarts-de-Chaume e Bonnezeaux, molto secchi a Savennières, prodotti con lo Chenin Blanc, così come i «mousseux» di Saumur e i rossi e rosati di Saumur-Champigny, dai vitigni Grolleau-Noir e Gris e Gamay.

    Nella Turenna, non si può non fermarsi a Chinon, città ricca di storia, dove il Cabernet Franc la fa da padrone e oseremmo dire, forse, solo secondo a quello prodotto a St. Emilion (Bordeaux), mentre sull’altro versante del fiume lo Chenin Blanc trova il suo apogeo nei vini del Vouvray e Montlouis, senza dimenticare i famosi villaggi e relativi castelli di Amboise e Azay-le-Rideau.

    Quasi all’altezza di Orleans, risalendo, la Loira scorre da nord a sud, fa una curva e si orienta ovest-est e a qualche chilometro si scorgono le alture che affiorano, costituendo una piana molto propizia per la viticoltura.

    Sulla riva ovest troviamo la città fortificata di Sancerre che domina l’insieme dei vigneti circostanti, la cui forma vista dall’alto, ricorda quella di un «croissant»: è uno dei siti francesi con la più alta densità di vigne. Dall’altro lato del fiume, troviamo il villaggio di Pouilly-sur-Loire, con i suoi vigneti impiantati su terreni calcarei.

    Forse molti non lo sanno, ma è in queste due «enclave» che il Sauvignon Blanc è servito da modello per i vini bianchi emulati in tutto il mondo. I vini prodotti dal Sauvignon Blanc sono delicati, da bere con una «tartare di pesce» o con «formaggi caprini giovani», ma anche con una «choucrôute alsaziana», magari nella versione Pouilly-Fumé, con la sua acidità vibrante e il gusto che ricorda il ribes maturo, che dà una squisita sensazione di freschezza.

    Non bisogna comunque dimenticare in questa zona i vini prodotti con il Pinot Nero, anche in versione «rosés», molto piacevoli nella stagione calda.

    Pouilly-Fumé Ladoucette
    Conosciuto anche con il nome: «Fumé de Pouilly», il vino è prodotto con solo uve Sauvignon Blanc, che maturano sul territorio di 3 comuni situati sulle collinette di Saint-Aindelain (Loira). De Ladoucette è uno dei produttori più noti a Pouilly-sur-Loire: vinificato esclusivamente in vasche d’acciaio con affinamento sui lieviti per sei mesi, il suo Pouilly-Fumé è un vino molto particolare.
    Le uve maturano su terreni che sono testimoni dell’opera del tempo e della natura. Il quarzo, le marne calcaree, ma soprattutto il silicio, che si trova sotto forma di composti sulla crosta terrestre di questa zona, regala ai vini sentori minerali e un gusto «fumé» che si sviluppa molto bene dopo qualche anno di permanenza del vino in bottiglia. Con il tempo infatti si libera un bouquet più fine, altalenando profumi vegetali e minerali con speziate note esotiche, ma soprattutto l’intensa mineralità della «pietra focaia».
    Da servire tra gli 8°/10°, può restare in cantina tra i 2/5 anni, ottimo con il cocktail di gamberetti, le ostriche, pesce con salsa al burro e formaggi caprini di media stagionatura.

    / Davide Comoli

     

  • I Fenici e prima di loro i Cananei

    Vino nella storia – Continua il viaggio che segue le antiche rotte del vino – Seconda parte

    Nella cultura cananea, il vino (con il grano) è il simbolo della deificazione dei prodotti della terra, elevati al rango di offerte alle varie divinità.

    A leggere la Bibbia o i testi di Ugarit, la terra di Canaan era una specie di Eden (almeno allora): una terra fertile, bagnata da ruscelli e torrenti, protetta da un clima favorevole allo sviluppo dell’agricoltura mediterranea, nella quale per interessi commerciali o solo come semplice scambio, la vitivinicoltura era l’attività predominante.

    A ovest del Mar Morto, nelle zone di Hebron e Gabaon, si trovano vigne che ospitavano vitigni in grado di resistere e persino di trarre beneficio dal tipo di clima. Il vino prodotto, anche se non di eccelsa qualità, era tuttavia indispensabile sia per un consumo diretto, sia per garantire un apporto calorico, euforico, e rendere la vita meno grama.

    A testimoniare il commercio di vino in Medioriente sono i testi ritrovati nel Palazzo reale di Mari, antica città sul fiume Eufrate (oggi Tell Hariri), al confine tra Siria e Mesopotamia; questi testi riportano i traffici e i depositi del vino che veniva stipato e racchiuso in migliaia di giare. In quelle pagine sono descritti anche altri luoghi dove il vino veniva venduto a grossisti, a mercanti e a trafficanti poco onesti.

    Famosa era la città assira di Sippar e soprattutto Ugarit sulla costa del Mediterraneo, città ricca di storia che, oltre a ospitare il più grande e importante emporio di vini, era il luogo da dove partivano i traffici marittimi verso l’Egitto.

    I contenitori per il vino erano generalmente in terracotta, ma anche in legno o pietra lavorata grossolanamente. I vini nei magazzini, per essere trasportati via terra o via mare, venivano travasati in contenitori chiamati «anfore vinarie». In Medioriente si affermò l’anfora «cananita» caratterizzata da due manici ansati contrapposti che ne agevolavano il movimento. Sembra che fossero state ideate dai vignaioli o dai cantinieri di Canaan, ma molto più realisticamente, furono invenzione dei mercanti di vino fenici che le utilizzavano lungo le rotte del Mediterraneo.

    D’altronde, nessuno oggi può disconoscere il ruolo avuto dai navigatori fenici e dai loro discendenti, come propagatori delle tecniche di costruzione delle prime vere navi da trasporto adatte a navigare in mare aperto.

    Non a caso i faraoni d’Egitto chiedevano in prestito ai Cananei prima, e in seguito ai Fenici, le navi per la loro flottiglia per la navigazione sia sul Nilo sia nel Mediterraneo. Fenicie erano pure le grandi navi che trasportavano per gli Ittiti e altri popoli, cereali, merci e vino verso i porti del Mediterraneo. La capacità di navigare lungo le coste e per tragitti più lunghi con una navigazione a vista, permise ai Fenici di trasportare oltre che viveri e strumenti per uso agricolo, molte specie di vegetali, tra i quali barbatelle di vite che trapiantarono nelle terre da loro colonizzate. Non fu quindi difficile per i Fenici dopo che da costa in costa avevano visitato tutto l’Egeo, spingersi più a sud, verso le coste africane sino allo stretto di Gibilterra e da qui verso nord fino a Cadice.

    Nel corso dei secoli si scontrarono con Greci, Etruschi, Romani, Persiani e Macedoni, alternando lotte a pacificazioni e alleanze. Il vino ebbe certo parte importante in tutto questo, visto che nella stessa Cartagine, importante colonia fenicia, sono state ritrovate anfore vinarie tipiche della cultura di quel popolo.

    I Fenici e prima di loro i Cananei e tutte le popolazioni costiere, avevano l’isola di Cipro come punto di riferimento delle loro iniziali scorrerie nel Mediterraneo. Quest’isola fu senza dubbio il punto d’incontro più importante delle civiltà dell’Egeo, e i Ciprioti appresero dagli evoluti Fenici la viticoltura, l’olivicoltura e l’arte d’andar per mare.

    Anche in Sicilia e Sardegna, i Fenici fondarono fattorie agricole che si rifacevano alla cultura cananea o siro-palestinese, dove per protagonista, oltre alla coltivazione di cereali e olive, c’era l’uva da vino.

    Se gli Egizi fecero conoscere ai Fenici la bevanda fermentata dai cereali (birra?), questi ultimi insegnarono ai discendenti delle antiche dinastie egizie, l’arte di migliorare la vinificazione. Fu in coincidenza con questo periodo storico che nel Mediterraneo si consolidarono le prime specializzate manifestazioni mercantili. Non più scambi per la semplice sopravvivenza, ma vere e proprie attività mirate a un profitto il più elevato possibile.

    Anche gli Etruschi entrarono nell’orbita commerciale dei Fenici, anzi, in comune avevano l’opposizione verso i Greci, tanto da allearsi in svariate operazioni militari contro gli Ellenici. Ed è a questo punto che ci domandiamo: da chi gli Etruschi appresero l’arte della vinificazione?

    Tra gli scritti dei vari autori greci e romani di cui abbiamo consultato le opere, ci sono parecchie contraddizioni. A nostro parere, i Fenici ebbero più detrattori interessati che cronisti storici fedeli e naturalmente disinteressati.

    Costretti dallo spazio ristretto dalla loro patria d’origine, si «inventarono» il mare come patria adottiva: i Fenici furono per secoli i padroni del Mediterraneo. Di sicuro portarono in tutti i luoghi da loro esplorati, l’arte della vitivinicoltura e tutti i mestieri a quest’arte legati.

    La storia non sempre ne parla bene, anzi; alle volte ci sembra che negli scritti di tanti sapienti ci sia una nota di gelosia. Il vino e il mondo legato a questa bevanda devono, però, forse, ai Fenici un po’ di riconoscenza.

    Insolia Principi di Butera
    Con ancora negli occhi il fucsia delle bougainvillea e il blu del mare, il ricordo delle vacanze siciliane diventa ancora più intenso quando dal nostro calice di Insolia si sprigionano i profumi caratteristici del vitigno. L’approdo sull’isola su cui cresce è forse da ricondursi al periodo della dominazione normanna nel Mediterraneo orientale.

    Usato in passato nella composizione del Marsala o commercializzata per dare corpo e alcol ai vini di altre regioni, l’Insolia, grazie ai produttori siculi, ha saputo da qualche anno farsi apprezzare per la produzione di bianchi affascinanti.

    L’«Insolia; Feudo Principi di Butera» è prodotto in provincia di Caltanissetta, da monovitigno in purezza. Fermentato in vasche inox, viene affinato per sei mesi sui propri lieviti.

    Colore giallo paglierino, con leggere sfumature verdoline, al naso sono netti e intensi i profumi di frutta carnosa che ben si armonizzano ai richiami di fiori di ginestra. Al palato è pieno e piuttosto armonico, morbido, nel finale emerge una leggera nota salina che ne fa il compagno ideale per un piatto di involtini di pesce spada, o pasta alla bottarga, ma il matrimonio perfetto lo si fa con couscous preparato con brodo di pesce.

    / Davide Comoli

     

     

     

  • La Champagne vitivinicola

    Bacco giramondo – Ritenuta regione ambasciatrice del gusto francese nel mondo, questa provincia vanta vini molto delicati e ricchi di profumi

    Con i suoi vini, la provincia della Champagne è orgogliosa di essere considerata l’ambasciatrice del gusto francese nel mondo, grazie ai suoi vini che – con la loro delicatezza, la ricchezza di profumi e le migliaia di bollicine molto fini – sono sinonimo di piacere. Reims e Epernay si disputano il titolo di capitale vitivinicola della Champagne, la quale però si estende nei dipartimenti della Marna, parte dell’Aube e dell’Aisne, in qualche comune della Alta Marna e di Senna e Marna (Seine-et-Marne).

    La presenza della vite nella Champagne rimonta addirittura al Terziario, come testimoniano le foglie di vite fossilizzate ritrovate nella zona di Sézanne. Le prime notizie certe di viticoltura in questa regione si hanno però tra il II e il IV sec. d.C., grazie all’estensione dei vigneti impiantati a sud dai Romani. A quell’epoca l’odierna Reims era chiamata Durocortorum, ed era la capitale della Gallia Belga (molti monumenti ricordano ancora quel periodo). La storia di questa regione è ricca di avvenimenti che meriterebbero di essere citati, ma lo spazio è tiranno, chiediamo quindi scusa se salteremo a piè pari qualche secolo.

    Delimitata da una legge nel 1927, l’area di produzione copre circa 34mila ettari. Situata a circa 150 km a est di Parigi, la Champagne ha 319 comuni nei cinque dipartimenti sopra citati. I vigneti sono ripartiti in quattro grandi regioni: la Montagne de Reims, la Vallée de la Marne, la Côte des Blancs, la Côte de Sézanne e l’Aube, divisi in circa 281mila parcelle. Diciassette villaggi beneficiano della denominazione: grand cru, e quarantaquattro villaggi quella di premier cru.

    Il vigneto della Champagne è situato ai limiti settentrionali della coltura della vite, tra il 48° e 49.5° latitudine nord.

    Impiantati dai 90 ai 300 metri d’altitudine, i vigneti godono di una doppia influenza climatica. L’influenza continentale è anche responsabile di gelate, alle volte distruttrici in inverno, ma anche di un favorevole soleggiamento in estate. L’influenza oceanica è contrassegnata invece da temperature basse con un minimo scarto tra le stagioni e porta piogge in quantità regolari, con contrasti termici di poco conto.

    La composizione del suolo è in maggioranza calcarea, così pure i sedimenti che affiorano (craies). Questo tipo di suolo favorisce il drenaggio del terreno e dona una mineralità molto particolare a certi vini della Champagne. Le craies sono composte da granuli di calcite sopra degli scheletri di micro-organismi marini (coccolites) e caratterizzato dalla presenza di fossili di belemniti. La sua forte porosità è in effetti una vera riserva d’acqua (300-400 litri al m3), che assicura ai ceppi di vite una costante idratazione anche nelle estati più secche.

    La natura del terreno ha portato alla scelta dei vitigni che meglio s’adattano. La legge del 22 luglio 1927 determinò poi quelli autorizzati: Pinot Nero, Pinot Meunier e Chardonnay sono oggi in netta maggioranza.

    L’Arbanne, le Petite Meslier, con il Pinot Bianco e il Pinot Grigio, sono ugualmente autorizzati, ma rappresentano meno dello 0,3 per cento del vigneto. Il Pinot Nero è usato per dare corpo e longevità; il Pinot Meunier fornisce aromi e vini fruttati; e in quanto allo Chardonnay, è il vitigno che dona eleganza a questo vino d’assemblaggio che è lo Champagne. Ogni anno lo chef de cave, deve elaborare una cuvée di prestigio.

    È poco probabile che il vino di Champagne abbia avuto un vero inventore, ma questo non ha impedito ai cugini d’Oltralpe, grazie a scrittori vari, di attribuire la paternità a dom Pierre Pérignon, monaco benedettino alla fine del XVII secolo. Ma del modo in cui lo Champagne ha raggiunto nel mondo il grado di primo vino, simbolo di festa, ne riparleremo in altra data, così pure di come avviene la sua particolare vinificazione.

    Seguiteci invece per una passeggiata tra i vitigni di questa incantevole regione francese. La Montagne de Reims è un altopiano ricco di foreste a sud di Reims, tra i fiumi di Marna e Vesle. Il suo sottosuolo è di gesso, coperto da affioramenti di lignite e argilla, ed è proprio ciò che lo rende un terreno ideale per il Pinot Nero, che qui riesce ad esprimere un grande potenziale in acidità e note minerali, ma quello che più ci colpisce sono gli incredibili profumi di ribes bianco e di prugna mirabelle Da non perdere se si passa da Bouzy, è anche l’eccellente rosso fermo, sempre prodotto con il Pinot Nero.

    Château-Thierrry, la Vallée de la Marne, da Epernay, è dominata da terreni argillosi e si estende lungo le due rive della Marna. Questa zona è conosciuta oltre che per il Pinot Nero, per il Pinot Meunier, che dona vini freschi e fruttati, che ricordano la mela, la pera e alle volte i pinoli.

    La Côte des Blancs e la Côte de Sézanne hanno invece terreni ricchi di gesso puro, con affioramenti di una particolare argilla chiamata «sparnaciana», da cui prendono il nome gli abitanti di Epernay (Sparanciani). Questo terreno è l’ideale per lo Chardonnay che qui raggiunge un incredibile raffinatezza. Ricco di eleganti profumi agrumati e floreali, con notevole freschezza e mineralità, lo Chardonnay di queste zone ingentilisce l’irruente acidità del Pinot Nero, ma vinificato da solo, produce eccelsi Blanc de Blancs, che quando sono un po’ evoluti evocano profumi di nocciola, burro fuso, pan brioche e confettura d’agrumi.

    Infine, il vigneto dell’Aube, il più meridionale della Champagne. Si estende per più di 100 km verso sud, lambendo la regione dello Chablis. Anche il suo terreno è ricco d’argilla e di kimmeridgiano, tanto da ricordare quello della zona borgognotta. Il Pinot Nero, qui, dà vini eleganti e meno freschi, con note vegetali e di bacche selvatiche; grazie al suo clima più continentale le uve maturano prima.

    Chianti «Castello di Albola»
    «Aestus», estate è tempo di vacanze, si ha voglia di sostare, riposare per un po’ di tempo. Il sole infuoca la terra e il Ferragosto è un giorno destinato alle scampagnate e ai pic-nic. Anche un semplice fresco pergolato può essere il luogo ideale per le nostre grigliate estive.

    Lo stesso Pellegrino Artusi consigliava per questo giorno, cibi semplici, facili da trasportare e un vino non impegnativo, ma che possa con le sue caratteristiche organolettiche trovare giusta concordanza alle sensazioni gustative (grassezza e leggera sensazione amarognola) delle luganighe, costine, braciole, eccetera, cotte sulla vostra griglia.

    Il Chianti classico, «Castello di Albola» a Radda in Chianti, prodotto con uve Sangiovese al cento per cento, può sicuramente essere il compagno ideale per le vostre tavolate.

    È questo un vino che parla della terra toscana, pulito ed ermetico, dai tannini che vi sorprendono subito per la loro morbidezza, possente in bocca e grazie alla sua sapidità mantiene una struttura molto ricca. De servire in estate un po’ più fresco (15°-16°), aprendo la bottiglia un momento prima del servizio, ottimo pure sui grandi arrosti e formaggi d’alpe stagionati.

    / Davide Comoli