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  • Il vigneto della Svizzera occidentale

    Bacco giramondo – Continua il viaggio elvetico tra degustazioni e bei paesaggi: è la volta di Argovia, Berna, Basilea e Lucerna

    Stupefacente è l’avanzata dei produttori di vino nella Svizzera tedesca! La passione che questi uomini e donne hanno messo nella vinificazione e nella ricerca, da qualche anno, ha portato a produrre dei crus veramente straordinari, con cui vincono concorsi e guadagnano medaglie.

    Il vigneto «svizzero tedesco» ingloba tutte le regioni germanofone, vale a dire la Svizzera orientale, centrale e occidentale, su una superficie che copre sedici cantoni molto differenti tra loro per clima e suolo; da notare inoltre che in media le aziende vitivinicole sono piuttosto piccole (2-4 ettari per unità). Per semplificare, partiremo dalla regione occidentale.

    Tenuto conto della superficie consacrata alla vite e della produzione di vino, i due cantoni più importanti sono Argovia e Berna. Basilea (Campagna-Città) occupa una posizione intermedia, seguono Lucerna e Soletta, dove la viticoltura è quasi domestica (3,5 ettari vitati), 45% vino bianco e 65% rosso.

    I viticoltori del canton Argovia sono senza dubbio dotati di grande audacia e iniziativa con i loro 90 ha vitati; il vigneto argoviese è situato in gran parte a nord ovest del cantone tra Rheinfelden e Aarau, sulle rive destre dell’Aar e a nord est della Limmat.

    Tra i comuni viticoli più importanti, dove bisogna assolutamente scoprire le cantine-bistrot gestite dagli stessi produttori, troviamo Döttingen, Klingnau, Würenlingen, Tegerfelden, Ennetbaden. Oltre ai classici Pinot Noir / Blauburgunder e al Riesling x Sylvaner, vengono coltivati una trentina di altre qualità, tra nuovi e vecchi vitigni. Notevoli certe cuvées speciali a base di Cabernet Sauvignon, Malbec con Pinot Noir, e Pinot Noir con Diolinoir elevati in barrique, come certi vini bianchi davvero stupendi. Tra le novità si annoverano specialità inabituali alle nostre latitudini come il Zweigelt (apprezzato in Austria); il Dornfelder; il Gewürtztraminer che ci entusiasma con i suoi aromi delicati e possenti; il Kerner e il Scheurebe, anch’essi appartenenti alla stessa famiglia dei vitigni bianchi aromatici, ma più discreti; e infine il Bacchus, vitigno bianco dai sentori di noce moscata (lo abbiamo provato in versione metodo classico, ottimo). Nel nostro girovagare tra i vari produttori abbiamo degustato anche degli eccellenti Chardonnay, dei Grauburgunder (Pinot Grigio) e dei Sauvignon Blanc. Con le tecniche di congelamento delle uve, abbiamo pure provato dei vini passiti molto interessanti come il Muscat Oliver, gustato a Ueken con la classica Rüeblitorte (torta di carote).

    Sulle rive de lago di Bienne nel canton Berna, i vini sia bianchi sia rossi sono molto simili ai loro cugini di Neuchâtel. Noi ci siamo fermati nella superba regione del Lago di Thun (14 ha), dove abbiamo visitato il bellissimo vigneto di Spiez con il suo castello, così come quello di Oberhofen, arroccato sul pendio a strapiombo sul lago, dove abbiamo degustato un’eccellente Riesling x Sylvaner e un Pinot Noir, in una cornice degna di una cartolina.

    Il vigneto di Basilea Campagna è il solo della Svizzera tedesca a produrre dei Chasselas (Gutedel), leggeri, nervosi e con una buona acidità, ma è solo una piccola produzione dei 106 ha vitati: qui la parte del leone la fa il Pinot Noir, dove la maturazione beneficia del rialzo delle temperatura portata dai caldi venti della valle del Reno.

    Nei villaggi di Muttenz e Liestal ai confini con l’Alsazia, i terreni più argillosi influenzano molto la struttura dei vini prodotti. Particolari i Gewürtztraminer e i Riesling x Sylvaner molto aromatici; curiosi i vini prodotti come Vin de Glace; e meritevoli il Räuschling e il Garanoir.

    A Dornach e Prattelni produttori discepoli del biologico, coltivano di preferenza ibridi interspecifici, perché resistenti alle malattie, i vini prodotti meritano di essere degustati. Questi i vitigni: Seyval Blanc per i bianchi, RegentMaréchal Foch e Léon Millot per i rossi. Non bisogna lasciare il cantone senza aver visitato i 5 ha di vigneti, orgoglio di Basilea Città, arroccati in modo spettacolare sulle pendici del Schlipf a Riehen, dove ci lega il ricordo di un piatto di rognoni flambée abbinato a un Pinot Noir di 4 anni maturato in barrique di quercia svizzera.

    Il vigneto del Canton Lucerna ha una superficie viticola di poco superiore ai 16 ha, con una produzione di ca. 150mila bottiglie, 20 i comuni viticoli e circa altrettanti i vignerons-produttori professionisti che gestiscono almeno 1 ha di vigna, dove 1/3 sono coltivati a vitigni a bacca bianca e 2/3 in rosso.

    vignerons, per i loro vigneti , sfruttano i terreni dei luoghi privilegiati sulle rive del Lago dei Quattro Cantoni nel Seetal e il Wiggertal, nei comuni di Kastanienbaum e Horw, ai picchi del Bürgenstock, i suoli morenici ben drenati, il riverbero del lago e il favonio, assicurano alle uve un’ottima maturazione, con una gradazione Oechsle che abitualmente si situa tra gli 85° e 90°. Ça va sans dire che i vini lucernesi sono rari, cari, ma di grande qualità: per poterli conoscere bisogna acquistarli presso i produttori o scoprirli in qualche ristorante «top» del Cantone. I vini bianchi sono prodotti principalmente con il Riesling, il Riesling x Sylvaner, il Pinot Blanc e lo Chardonnay, tra i rossi il Pinot Noir, il Garanoir, il Diolinoir, il Regent.

    Ricordo indelebile, il Sauvignon dai profumi di sambuco bevuto in un hotel di Lucerna ad accompagnare un piatto di asparagi al burro.

    / Davide Comoli

  • Nasce il brandy, dalla dolcezza delle uve del Capo

    Vino nella storia – La viticoltura in Sudafrica ebbe origini durante l’occupazione della Compagnia Olandese delle Indie Orientali

    L’introduzione della viticoltura nel sud dell’Africa avvenne per motivi economici durante l’occupazione olandese; a differenza, ad esempio, di quanto accadde in Centroamerica e in Sudamerica: qui, gli spagnoli portarono la coltivazione della vite soprattutto per una tradizione culturale, ideologica e religiosa.

    Già nel 1487, il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz, durante uno dei suoi viaggi alla ricerca di una via orientale per le Indie, finì sulla punta estrema dell’Africa, che poi battezzò: «Capo di Buona Speranza». Luogo che rimase per oltre un secolo sotto il controllo del Portogallo.

    Nel XVI secolo ebbe inizio la colonizzazione vera e propria della zona con l’occupazione del «Capo» da parte della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (Oost Indische Compagnie). Fu definita come «primo successo spettacolare delle grandi compagnie». Tra il 1640 e il 1650 gli olandesi cercano di installare una stazione di vettovagliamento allo scopo di creare un luogo ove i vascelli diretti a oriente potessero sostare e rifornirsi.

    Fu così che un gruppo di coloni al comando di Jan van Riebeeck venne inviato con l’incarico di creare uno scalo per le navi in rotta verso le Indie. Arrivati alla Baia della Tavola (1652) quegli uomini costruirono dapprima un forte, poi delle case e delle fattorie, in modo da supplire alle loro necessità e a quelle delle navi che facevano scalo nel viaggio verso est.

    Anche se pare che gli Heeren Zeventien, a capo della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, non incoraggiassero l’intenzione di impiantare dei vigneti da parte di van Riebeeck, egli insistette affinché gli portassero delle barbatelle dall’Europa. La forte insistenza e la chiara determinazione sembra fossero alimentate da due fattori: anzitutto l’alto costo che i coloni olandesi dovevano pagare per importare il vino in Sudafrica, ma ancor di più – da medico – perché si era reso conto dell’importanza della bevanda sacra a Bacco nel proteggere i marinai dallo scorbuto.

    Nel mese di luglio del 1655 una nave scaricò delle barbatelle: non è chiara la loro provenienza, ma due tipologie hanno fatto la storia della viticoltura sudafricana; erano il Moscato di Alessandria (chiamato in loco Hanepoot) e lo Chenin Blanc (Steen) entrambe provenienti dalla Francia sud-occidentale. Queste prime barbatelle vennero messe a dimora vicino al forte, ma con l’arrivo di nuovi carichi dall’Europa van Riebeeck creò un vigneto nei pressi della odierna Wynberg; a tal proposito, resta famosa la frase che van Riebeeck scrisse sul proprio diario: «Oggi, lodiamo Dio, il vino è stato fatto per la prima volta con le uve del Capo», era il 2 febbraio 1659.

    I primi vini prodotti erano dolci e di alta gradazione alcolica, il clima e il genere di vitigno non ancora ben acclimatato davano un vino di scarsa qualità. Per ovviare a tutto ciò (così racconta la storia), sembra che un cuoco di una nave ancorata in porto, ebbe l’idea di distillare il vino prodotto delle uve del Capo, creando così i primi «brandy» prodotti in zona.

    Un nuovo impulso alla produzione di vino nel Capo fu data da Simon van der Stel nel 1679. Il nuovo Governatore fece mettere a dimora un nuovo vigneto a Groot Costantia, con vitigni di provenienza francese e qualche cultivar tedesca, creando a poche miglia da Cape Town sulle pendici orientali della Table Mountain, la più rinomata Casa vinicola della storia del Paese.

    Contrariato dalla forte acidità che davano i vini locali, incominciò a produrre, acquisendo grande fama, vini dolci da dessert dai vitigni Muscat Rouge e Muscat de Frontignan, la cui fama arrivò addirittura per più di un secolo a primeggiare con il celebre Tokay. La storia ci racconta che nell’esilio di Sant’Elena, Napoleone beveva solo questi vini provenienti dal Capo.

    Una grossa spinta e un forte stimolo alla promozione della viticoltura nel Paese fu comunque lo sbarco di migliaia di Ugonotti tra il 1685 e il 1690, in seguito alla revoca dell’editto di Nantes voluto da Luigi XIV.

    Più di mezzo milione di Ugonotti fuggirono dalla Francia e molti di essi dapprima si stabilirono in Olanda, anche perché incoraggiati dagli Heeren Zeventien che avevano compreso la potenzialità di molti di essi, abili conoscitori dell’arte della viticoltura; tanti di loro emigrarono invece nella nuova colonia del Capo nel 1688. I nuovi arrivati si stabilirono dove oggi ci sono le più prestigiose zone viticole, ovvero Paarl, Franschhoek e Stellenbosch (nome dato in onore di van der Stel).

    Tra le famiglie ugonotte che raggiunsero il nuovo continente, ci piace ricordare i Pontac, famiglia originaria del bordolese che portò il vitigno Pontac; oggi viene allevato per ragioni sanitarie su pochi ettari, ma in passato ebbe un ruolo importante nella produzione dei vini rossi (dà vini molto colorati e tannici).

    Nel corso della prima metà del XVIII secolo la produzione vinicola, sfruttando il lavoro degli schiavi, aumentò in modo considerevole appoggiandosi anche su una legge che indicava la viticoltura come attività non soggetta al pagamento delle decime.

    La fortuna degli olandesi cominciò a calare verso la fine dello stesso secolo, quando gli inglesi tra il 1795 e il 1803 in seguito alle guerre napoleoniche occuparono a più riprese il Sudafrica.

    / Davide Comoli

  • Tra le vigne affacciate sui laghi

    Bacco giramondo – Facciamo tappa attorno ai laghi di Bienne e di Morat ed entriamo nel Giura

    Come fossero il naturale prolungamento del vigneto di Neuchâtel, lungo le rive del lago di Bienne si rannicchiano l’uno contro l’altro diversi villaggi vitivinicoli. Pur essendo situati sui terreni più ripidi e più difficili da coltivare, condividono il medesimo suolo e beneficiano di molte ore di sole.

    Da La Neuveville sino a Bienne troviamo i villaggi di Chasselas (Schafis), Gléresse (Ligerz), Douanne (Twann), Daucher (Tüscherz), mentre sulla riva opposta, i villaggi di Cerlier (Erlach), Anet (Ins), e infine Tschugg su quello che viene chiamato «Domaine de Jolimont» e che comprende l’isola di Saint-Pierre, paradisiaco luogo che aveva conquistato ai tempi con il suo charme anche Jean-Jacques Rousseau. Antico priorato cluniacense, è di proprietà de l’Hôpital des bourgeois de Berne, e vanta una superficie totale vitata circondata dal lago di circa 225 ettari.

    In questa zona, le influenze francesi e tedesche si mescolano in continuazione e lo stesso nome dei villaggi si presenta in duplice forma, per cui non sempre è facile districarci tra questi pittoreschi luoghi, dove vigne e case si fondono tra di loro, specchiandosi nelle acque del lago.

    I vitigni bianchi sono in maggioranza e coprono circa il 58 per cento della superficie coltivata; è sempre lo Chasselas, il vitigno più coltivato: molto simile al cugino di Neuchâtel, è dotato di un buon corpo e una presente vivacità, diventando il giusto «compagno» per una fugace merenda con la charcuterie locale. Interessanti, pure il vivace e aromatico Sauvignon Blanc, il Pinot Grigio dal finale molto lungo, e i particolari Traminer e Riesling. La parte restante del vigneto è dedicato alla coltivazione dei vitigni rossi, dove il Pinot Nero la fa da padrone, permettendo la produzione di buoni vini rossi – forse alle volte un po’ troppo chiari e leggeri (per noi) – e dei profumati rosé.

    Troviamo pure, visitando l’interessante Vinoteca Viniterra a Douanne, dei pregevoli Dornfelder, Gamaret, Garanoir, vinificati sia in purezza sia in assemblaggio dai produttori del lago di Bienne.

    Da Bienne imbocchiamo la veloce e moderna autostrada che si inoltra a nord-est, direzione Moutier, per svoltare verso Delémont, capitale del Giura e poco prima di Porrentruy usciamo dalla nazionale per fare una deviazione a St. Ursanne, villaggio che conserva ancora un’atmosfera arcaica sul fiume Doubs, dove passeremo la notte.

    Nel 1987 il Giura decise di ricostruire un antico vigneto su una superficie di circa cinque ettari nel comune di Buix (al confine con l’Alsazia) a Clos des Cantons: nulla di strano visto che già intorno al 1200 i monaci di Grandcour coltivavano la vite in questi luoghi. D’altro canto, qui, il suolo ghiaioso cosparso di rocce affioranti ha un effetto molto favorevole nel tenere caldo il terreno e le piante di viti esposte in pieno sud, dove vengono solo sfiorate dalle nebbie sia primaverili sia autunnali.

    Il Riesling-Sylvaner che accompagna (dopo essere stato usato per la loro preparazione) dei «filetti di trota al vino bianco con basilico» ci ha entusiasmato con i suoi profumi aggrumati, come pure il Pinot Gris, compagno ideale delle rosette ottenute dalla forma di formaggio Tête de Moine usando la Girolle. Al ritorno ci siamo fermati nel comune di Soyhières a due passi da Delémont, dove su circa quattro ettari, tra vigna e vivaio, opera un personaggio straordinario, famoso in tutto il mondo per le sue ricerche sui vitigni (malattie, freddo, incroci): Valentin Blattner. Nel suo vigneto abbiamo scoperto delle sorprendenti creazioni: il Réselle (Müller-Thurgau, Chasselas, Seyval) dall’intenso profumo di pompelmo; il dolce Muscat de la Birse, ottenuto dalla congelazione delle uve per concentrare zuccheri e acidità; il fruttato Maréchal Foch dai sentori di lampone e ciliegia; il possente Cabernet Sauvignon – Maréchal Foch; e la splendida Cuvée Olivia in cui oltre ai due rossi citati intervengono anche di base il Léon Millot e il Regent.

    Usciamo a Sugiez e raggiungiamo Praz e Môtier, tre villaggi che si affacciano sul lago di Morat ai piedi dei pendii calcarei del monte Vully, che dà il nome a questa zona viticola particolare perché è a cavallo di due cantoni, Friburgo con 107 ettari vitati e Vaud con 50 ettari. La zona conta un centinaio di produttori che sono lieti (dietro appuntamento) di accogliervi per offrire interessanti degustazioni. Ad avere tempo a sufficienza sarebbe interessante fare il giro del lago per poter provare questi vini bianchi un po’ leggeri e minerali, come i rossi Pinot Noir, Gamay, Gamaret, Garanoir dal bel colore e dal bouquet fine, magari da provare in assemblaggio.

    Qui come in tutte le regioni a nord, come detto, lo Chasselas è il vitigno più coltivato e produce vini vellutati; il Traminer, il Pinot Grigio e il Freisamer sono generalmente ricchi di aromaticità. A Praz abbiamo provato un Sauvignon Blanc in purezza che non aveva fatto la fermentazione malolattica: con quel suo leggero residuo zuccherino e il bouquet esplosivo, ci ha costretti a infilarne qualche flacone nel bagagliaio dell’auto.

    Ma la «vedette» locale è il Freisamer: lo abbiamo provato a Morat o Murten, città bilingue il cui passato appartiene alla storia della Svizzera (1474, sconfitta di Carlo il Temerario duca di Borgogna). Entrando attraverso le porte del XIII secolo, si respira la storia e il profumo di vino, che è sempre stato un compagno e grande amico della prima. Infatti, ad accompagnare il nostro ricco piatto di «filetti di persico» con una montagna di frites, è il Freisamer (Sylvaner x Ruländer = Pinot Grigio) caldo di alcol e dagli intensi profumi; sarà stata anche l’atmosfera creata dalla terrazza sul lago, ma personalmente l’ho trovato uno degli abbinamenti più azzeccati. Indimenticabile anche il plateau di formaggi (il Canton Friburgo è forse il più conosciuto per i suoi prodotti caseari) con Freisamer vendemmia tardiva, elaborato assemblando al suddetto Gewürztraminer Müller-Thurgau, entrambi provenienti da uve passe.

    Storicamente il Canton Friburgo possiede anche dei vigneti nel Canton Vaud, uno dei migliori è quello di Les Faverges e Ogoz a nord est di Saint-Saphorin del Lavaux. Questi possedimenti di origine antica comprendono pure le Domaine de l’Hôpital a Riex e le Domaine de Béranges a La Tour-de-Peilz.

    Mentre percorriamo la strada per queste località sul nostro lato destro scorgiamo le vestigia di Avenches, l’antica capitale degli Elvezi.

    / Davide Comoli

  • Champagne, la nascita di un mito

    Vino nella storia – Non tutto è dovuto a Dom Pierre Pérignon, ma senza di lui forse non esisterebbe il noto spumante

    Nello stesso periodo in cui nascevano i grandi crus bordolesi – tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo – nasceva anche lo Champagne, o così almeno narra la storia, sebbene sia accompagnata da molta confusione e altrettanta incerta leggenda, e sebbene non sia di certo condivisa da molti storici.

    Nel Medioevo, i vini della zona dell’odierna Champagne erano chiamati vins de Rivière o ancora vin d’Ay: si trattava soprattutto di vini bianchi, poiché i vini rossi che si producevano intorno a Reims venivano chiamati vins de la Montagne.

    Sarà Charles Estienne, che nel corso del XVI secolo, per differenziarli dai vini prodotti nel resto della Francia, li chiamerà vins de Champagne. I due principali vitigni presenti a quell’epoca erano il Govais che dominava i vigneti della «Montagne» (che sovrastavano i vigneti della Rivière, e dai quali si ricavava un vino rosso) e il Fromenteau di colore grigio rosato, con cui si producevano vini bianchi, che i contadini del luogo definivano sur la langue friand, a significare che erano già apprezzati quindi per la loro frizzantezza.

    A metà del XVII secolo, i vignerons della Rivière decisero di produrre un vin gris a partire da un nuovo vitigno di qualità superiore: il Pinot Nero. Il nuovo vitigno veniva vendemmiato mezz’ora dopo il levar del sole, vale a dire tra le 9 e le 10 h. Poi veniva pressato molto lentamente, cercando di non macchiare il succo della prima torchiatura, per ottenere un vino bianco dal colore vivace e che potesse durare a lungo; era comunque un vino che non doveva spumeggiare, se ciò fosse accaduto (come spesso succedeva) le botti dove veniva conservato scoppiavano generando una catastrofe.

    Nel 1668 Dom Pierre Pérignon ricopre la carica delle finanze del monastero benedettino di Hautvillers vicino a Epernay (Pierre Pérignon nacque nel 1639, lo stesso anno di Luigi XIV, ed entrambi, strana coincidenza, morirono nel 1715). Grazie soprattutto agli efficientissimi uffici stampa degli organismi di tutela dei vini francesi, questo benemerito frate benedettino, passa alla storia quale inventore del vino spumante, ma come tutti sappiamo questa non è che una storiellina nata dalle circostanze: in quel tempo, l’abbazia di Hautvillers possedeva una decina di ettari di vigne e percepiva le decime dai nobili di Ay e d’Avernay in uva. Come amministratore delle finanze – oltre al controllo dei bilanci dell’eremo, sia in moneta che in alimenti – Dom Pérignon aveva semplicemente il compito di vigilare sui beni più preziosi della comunità, vale a dire cantina e vigneto.

    Ma se Dom Pérignon non ha inventato né il dégorgement né la liqueur de tirage, né la prise de mousse e ancora meno i tappi di sughero, lasciamo a lui almeno il merito di un’impressionante attitudine nel provare e selezionare le vendemmie, con un’incredibile capacità sensoriale nel provare le uve provenienti dai diversi vigneti: senza sbagliare, riusciva a capire da che zona arrivavano, ed era quindi in grado di assemblare le uve provenienti dai diversi terroir per migliorare la qualità dei vini.

    In modo progressivo, egli decide di eliminare le uve bianche provenienti dal Pinot Beurot meglio conosciuto come Fromenteau e quelle dello Chasselas, perché troppo ricche di flavoni (pigmento che dà colore), le quali tingevano rapidamente i vini di giallo se non addirittura d’arancione, conseguenza non apprezzata. In compenso una perfetta limpidezza era ottenuta dalla veloce pressatura del Pinot Nero e l’immediata separazione delle bucce, da uve vendemmiate al mattino presto con uve fredde e umide di rugiada.

    Siamo ancora nell’ideale medioevale del «vino limpido come le lacrime».

    Dom Pérignon escluse da subito di mischiare le uve bianche con le uve nere che venivano consegnate dagli assoggettati a pagare le decime; le prime venivano subito rivendute. Vegliava poi sulle qualità delle uve vendemmiate: gli acini dovevano essere intatti per meglio preservare i loro aromi (chissà cosa penserebbe oggi il buon frate delle vendemmie meccaniche).

    Quindi controllava minuziosamente la separazione del succo che usciva da ogni pressatura, scartando quelli che giudicava troppo ricchi di acidità, e procedeva poi a far assemblare i liquidi estratti dalle singole parcelle.

    La fermentazione molto lenta che lasciava un residuo di zucchero veniva fatta nei tonneaux situati nelle cantine scavate nel 1673 nel terreno tipico della Champagne: craie (roccia calcarea contenente una sensibile quantità di argilla) dove viene assicurato l’invecchiamento del vino a temperatura costante; i travasi erano frequenti.

    Dopo il 1680, divenne più frequente l’imbottigliamento grazie alle bottiglie di provenienza inglese, che avevano il vetro più spesso e resistente, oltre a una forma a pera. In queste solide bottiglie dal collo chiuso con trucioli ricoperti di cuoio (e più tardi, verso il 1700, con sughero spagnolo legato con una cordicella, e in seguito con un filo di stagno), la potenziale effervescenza di questi vini poteva esprimersi meglio e soprattutto con meno perdite, poiché lo scoppio di una bottiglia causa meno danno che quella di una botte. Dom Pérignon raccomandava d’imbottigliare a marzo, momento più propizio a una leggera rifermentazione degli zuccheri residui.

    Dopo tanto lavoro si rese necessario far conoscere ai francesi il gusto di questa nuova tipologia di vino, ma tra il popolo e alla corte di re Sole si preferivano ancora i vini tranquilli, i vini della zona della Champagne venivano chiamati in modo quasi dispregiativo le vin diable o le vin saute-bouchon.

    Senza alcuna sorpresa, è a questo punto che tornarono utili gli amanti del vino inglese; già dal 1673 il filosofo francese Saint-Evremond, esiliato da Luigi XIV per aver scritto un poemetto contro Mazzarino, e fra l’altro fondatore a Parigi del bacchico Ordre de Coteaux, diede origine alla moda dello Sparkling Champain, il vino che lancia faville e spumeggia. I mercanti inglesi, visto il buon successo di questi vini bianchi, ne fecero arrivare decine di botti , aggiungendo al momento dell’imbottigliamento della melassa per garantire una ripresa della fermentazione e un’intensa liberazione di gas.

    Fu così che in Francia – a eccezione di Luigi XIV al quale i medici avevano prescritto del vino rosso – il popolo cominciò a incuriosirsi a questo tipo di vino. Il cambiamento di gusto francese si avrà sotto la Régence, con la moda dei petits soupers e delle serate galanti.

    Secondo il poeta satirico Bernard de La Monnoye «fare esplodere i tappi e innaffiare di schiuma le spalle nude della dame, è quello che vogliamo con priorità», come vien ben mostrato nel famoso quadro di Jean-François de Troy, Le Déjeuner d’huîtres sottotitolato: Le Saute-bouchon.

    / Davide Comoli

  • Culla del vero Oeil-de-Perdrix

    Bacco giramondo – Continua il viaggio elvetico tra i vigneti di Neuchâtel

    Il vigneto «neuchâtelois» si estende da Vaumarcus al lago di Bienne sino a Le Landeron. I suoi terreni coltivati a viti e orientati verso mezzogiorno o verso sud-ovest restano protetti – dai freddi venti provenienti dal nord e dalle fredde piogge che arrivano da ovest – grazie ai contrafforti del Giura. Una condizione ottimale che però non permette loro di sfuggire alle gelate primaverili e alla grandine. In compenso il benefico calore proveniente dal lago garantisce la maturazione delle uve, quasi fosse un tampone termico.

    È certo che la vigna qui esisteva prima dell’arrivo delle legioni di Roma (molti toponimi in zona ne confermano l’antica presenza), ma si potrebbe anche supporre che le popolazioni celtiche (III e II sec. a.C.) conoscessero già il suo frutto, visto che negli scavi del locale sito archeologico La Tène sono stati ritrovati dei vinaccioli negli agglomerati palafitticoli del lago. Quel che è certo è che l’avventura dei vini di questa zona incomincia nel 998 d.C., quando il «Signore» Rodolfo I di Neuchâtel dona delle vigne ai monaci dell’abbazia di Beauvais.

    Oggi un’incredibile quantità di suoli diversi forma il vigneto cantonale, sebbene si noti in tutti i terreni un’importante presenza di calcare: rocce sedimentarie e calcaree tra Boudry, Cortaillod e Auvernier; terreni sabbiosi di origine glaciale a Bevaix; e terreni ghiaiosi a Le Landeron. In tutto sono circa 40 km di vigna situati tra il lago e il Giura e interrotti solo per qualche chilometro dalla città di Neuchâtel prima di continuare sui pendii coltivati tra i 430 e i 600 metri d’altitudine. Con i suoi circa 600 ettari vitati, Neuchâtel è il sesto cantone viticolo svizzero.

    Ben inquadrato in un sistema di viticoltura di qualità, Neuchâtel limita il rendimento dei suoi vitigni a 900 g/mq per il Pinot Nero e 1,1 kg/mq per lo Chasselas. Da notare pure come Neuchâtel sia stato il pioniere e la figura modello che ha aperto la strada all’agricoltura Bio in Svizzera agli inizi degli anni Novanta; oggi più del 25% del vigneto del Cantone porta ufficialmente il marchio Bio.

    I circa 40 km di vigneti, che affondano le radici su suoli poveri di humus, ma ricchi di sali minerali, sono allevati per il 61% da vitigni rossi, mentre il 39% è destinato a vitigni bianchi. I vini prodotti nei suoi diciotto comuni viticoli – tra cui Auvernier, Boudry, Colombier, Saint-Blaise o Ville de Neuchâtel – portano tutti in etichetta (grazie a un decreto del 2007) il nome Neuchâtel.

    Il Pinot Nero è senza dubbio il vitigno più coltivato ed è quello ufficialmente autorizzato; la sua produzione è incoraggiata grazie al terreno e al clima molto simile ad alcune zone della Borgogna. In pochi anni si ottengono vini di razza e molto eleganti: lasciati in cantina per qualche anno, eccitano la curiosità come quello da noi provato a Cortaillod.

    A base di Pinot Nero troviamo pure degli Spumanti, ma certamente il vino più conosciuto è l’avvolgente Oeil-de-Perdrix, un rosato del quale i produttori di Neuchâtel, vittime di un eccesso di fiducia, non hanno saputo proteggere il nome; chi ama questo genere di vino sa però che il caratteristico Oeil-de-Perdrix è quello di Neuchâtel che, grazie alla morbidezza, ha fatto del suo colore un’arte. Prodotto da molto tempo, ma poco conosciuto è il Perdrix Blanchem, un blanc de noir, che abbiamo provato ad Auvernier: pieno di charme, oseremmo dire quasi sensuale, è l’ottimo compagno durante una merenda a base di formaggi della zona. Tra i rossi troviamo pure qualche ceppo di Gamaret, di Garanoir e di Merlot. I vini prodotti da vitigni a bacca bianca offrono una paletta di profumi e sapori molto particolari, grazie alla loro mineralità, dovuta al terreno calcareo onnipresente, e la mordente caratteristica per la presenza di gas carbonio.

    Abbiamo trovato i vini di Neuchâtel sparsi per il mondo (forse perché resistono bene al trasporto) nei migliori hotels.

    Il dominatore assoluto tra queste tipologie è lo Chasselas che copre circa il 36% del territorio; ne abbiamo provati alcuni all’enoteca Château de Boudry, dove si trova pure un museo del vino e della vigna. Curioso il Non Filtré, un Chasselas che viene presentato torbido alla terza settimana di gennaio, messo in bottiglia con le sue fecce: ricco di profumi, è molto amato e ad oggi più del 10% della produzione è usato per il commercio; incomincia a piacere anche in altri cantoni.

    Sei sono i vitigni autorizzati ad avere l’A.O.C. (Appellation d’Ori-gine Contrôlée), solo il Pinot Nero tra i rossi; tra i bianchi: lo Chasselas 216 ha; il Pinot Grigio 22 ha, che dona un vino fruttato e avvolgente; lo Chardonnay 19 ha, ampio e rotondo con note di frutta esotica; il Gewürztraminer 3,4 ha, fresco e aromatico; il Müller-Thurgau 3,5 ha, che è un po’ il bianco emblematico della Svizzera del nord; il Sauvignon 4,8 ha, dai notevoli profumi e freschezza. Troviamo pure qualche ettaro vitato a Doral e Pinot Bianco.

    Istituito nel 1985 dalla Federazione dei vignerons di Neuchâtel, l’etichetta «La Gerle», marchio di qualità, ricompensa gli Chasselas e Oeil-de-Perdrix che hanno ottenuto 18/20 nel punteggio di degustazione.

    Un Müller-Thurgau molto aromatico con note erbacee fa da accompagnamento sia come aperitivo, sia a un’«insalata campagnola»; il rosa salmonato e le incredibili nuances di un Oeil-de-Perdrix creano invece il perfetto connubio con una «omble chevalier» (salmerino alpino) profumata con timo e prezzemolo.

    / Davide Comoli

  • Dal French claret ai grandi crus bordolesi

    Bacco giramondo – Continua il viaggio elvetico tra i vigneti di Neuchâtel

    Tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del XVIII in Europa occidentale si verifica una vera rivoluzione del gusto in materia di vino. E, tanto per cambiare, incomincia tutto dall’Inghilterra. È appunto a metà del XVII secolo – dopo i moti civili tra re Carlo I e il Parlamento (1642), e la rivoluzione inglese, quando viene deposto re Giacomo (1688) – che l’aristocrazia britannica si consola assumendo una forma di snobismo con cui vuole distinguersi, non solo con i vestiti indossati, ma anche con i piaceri che può concedersi, compreso quello del bere: birra, Sack, vini bianchi dolci, Clairet, diventano bevande troppo comuni. Nasce da queste circostanze l’assoluto bisogno di un nuovo tipo di vino.

    A tale scopo, i viticoltori si ingegnano elevando di fatto i costi con innovazioni che modificheranno le caratteristiche dei vini noti fino a quel momento: si parla di diversa produzione, dell’introduzione delle bottiglie di vetro e quella dei tappi di sughero modellati nella forma voluta, nonché d’invecchiamento in cantine asciutte dentro la sabbia. Alla fine, i mercanti ottengono una tipologia di bordolesi chiamati vins noirs, vini di lunga fermentazione (più rari e più cari), che convincono la clientela inglese, per la durezza dei tannini che fa pensare a vini più alcolici rispetto ai famosi French claret.

    Il 10 aprile 1663 Samuel Pepys scrive sul proprio diario: «Usciti dalla Borsa con sir J. Cutler e Mr. Grant, siamo andati alla Royal Oake Taverne a Lumbard Street dove abbiamo trovato A. Broome, il poeta, un uomo allegro e intelligente credo, se non fosse un po’ troppo presuntuoso. Lì abbiamo bevuto un tipo di vino francese di nome Ho Bryan, dal sapore buono e particolare mai bevuto prima». Il vino in questione è quello che viene prodotto nella proprietà di Haut-Brion da Arnaud III de Pontac, primo presidente del Parlamento di Bordeaux, nella sua tenuta situata nella regione del Graves.

    Nel 1666 il de Pontac apre per il figlio a Londra una drogheria, un ristorante e una taverna chiamati «The Sign of Pontac’s Head», dove vengono presentati all’esigente élite dell’alta società britannica i vini della tenuta, venduti tre volte più cari dei vini provenienti dal sud della Spagna. È fatta!

    A differenza di altri vini importati, de Pontac produce il suo vino su un vigneto dalla superficie di 38 ettari, il terreno dell’Haut Brion costituito da una collina il cui suolo è stato drenato dalle ghiaie (graves) sulla sponda sinistra del fiume Garonna. I vitigni usati per la produzione del vino a quell’epoca sono: il Malbec (Noir de Pressac), e il Petit Verdot al quale erano associati i due Cabernet (Sauvignon – Franc) chiamati all’epoca «Grande e petite vidure». Questi nuovi vin noir sono certamente migliori dei Claret, troppo leggeri, acidi e poco stabili, di facile deperimento.

    Nonostante il successo dei vini della Graves nell’alta società londinese, lo scoppio della guerra tra Francia e Inghilterra (1660-1670), la proibizione d’importare qualsiasi merce sull’isola, e l’imposizione di tasse doganali (1678) molto pesanti sui vini francesi, portano a una crisi nel bordolese.

    Viene dunque abbandonata la produzione di vini dalla scarsa qualità, per investire nella produzione di vini d’alta gamma. Nel frattempo sopravviene il famoso inverno del 1709 che impone una totale ricostruzione dei vigneti, soprattutto nel Medoc e nelle Graves. Si preparano i terreni, bonificando le zone paludose con buona terra e ghiaia. È chiaro che solo le grandi famiglie proprietarie terriere possono investire denari in queste opere, troviamo così: i Pontac, i d’Avlède (Margaux), la famiglia Ségur (proprietario di Lafite, 50 ettari, e Latour, 36 ettari), considerata nel XVIII secolo come «il principe delle vigne». Cominciamo a trovare anche i nomi di ricchi commercianti bordolesi come Moytié a Saint-Julien, Rauzan a Pauillac, Kanon a Saint-Emilion, Fontenmoing a Pomerol e alcuni commercianti inglesi come Lynch, Barton, Johnstone e molti altri.

    A metà del XVII secolo alcuni mercanti olandesi prendono la cittadinanza di Bordeaux, in modo da poter beneficiare di esenzioni fiscali per il loro commercio. Oltre che dell’esportazione dei vini di Gaillac e Cahors, si occupano anche di esportare vini dolci, per questo le vendemmie vengono ritardate in modo da ottenere uve dal contenuto zuccherino più alto, usate anche per la distillazione.

    Già nel 1670 questa operazione è fatta a Sauternes e, a fine secolo, anche un po’ più a est, a Monbazillac. Gli olandesi intuiscono la potenzialità delle uve Sémillon che, lasciate in pianta più a lungo, possono raggiungere un alto grado zuccherino, perché attaccate da quella che veniva chiamata «pourriture noble», muffa nobile che, più tardi, sarà identificata come Botrytis cinerea; la dolcezza unica dei vini prodotti in questo modo, raggiungerà presto prezzi elevati tra gli amanti di questa tipologia di vini speciali.

    Nel 1713 con la pace di Utrecht, Filippo V re riconosciuto di Spagna deve cedere i Paesi Bassi, l’Inghilterra ottiene Gibilterra e alcuni territori francesi d’oltremare. Ristabilita la pace il commercio tra Francia e Inghilterra riprende con più regolarità e vigoria, il mondo di allora incomincia a conoscere i grandi crus bordolesi.

    / Davide Comoli

  • Il primo vino svizzero?

    Bacco giramondo – Affonda le radici nel canton Ginevra la più alta densità di vitigni impiantati in territorio elvetico

    Il vigneto ginevrino conta più di duemila anni di storia. Abitate dalla tribù celtica degli Allobrogi che vivevano sulla riva sinistra del Rodano, queste terre furono le prime a finire sotto il dominio romano durante la conquista della Gallia. Dominio che sicuramente portò vantaggi alla viticoltura sviluppatasi lungo il fiume.

    L’agricoltura, oggi, ricopre il 41,5% della superficie globale del canton Ginevra (282 kmq) e, sebbene il numero si modifichi di anno in anno, ben 1538 ettari (il 4%) – 122 dei quali sono parcelle situate in zona franca sul territorio francese – fanno di Ginevra il cantone con la più alta densità d’impianto, e il terzo territorio vitivinicolo svizzero.

    Nell’opera Le vin de nos coteaux (edita nel 1943 e pressoché introvabile), David Revaclier racconta quanto velocemente furono stabilite le relazioni commerciali tra i ginevrini e le popolazioni che vivevano a sud del Rodano, nelle città francesi di Lione e soprattutto Vienne (Côtes du Rhône), e come i vini del Midi della Francia raggiungessero per via fluviale «Condate», l’odierna Seyssel, sempre in Francia.

    Situato in modo ottimale tra le creste del Giura e le ripide scarpate del Salève, il vigneto ginevrino ostenta le sue parcelle vitate sui numerosi costoni divisi in tre regioni. Tre aree geografiche dai confini naturali ben definiti e molto differenti tra loro, sia sul piano del cosiddetto terroir, sia su quello climatico.

    La prima è situata nella Rive droite (che percorre Giura, lago Lemano e Rodano, fino alla frontiera francese). Conta 864 ettari e vanta anche la regione del Mandement, la quale, separata da Ginevra, all’epoca fu amministrata dai vescovi. Qui troviamo Satigny: forse a pochi noto, è in verità il più grosso comune viticolo svizzero grazie ai suoi ben 488 ettari (quasi la metà dell’intero canton Ticino vitato, che di ettari ne conta circa mille). In questa zona, il suolo contiene una percentuale superiore d’argilla che a volte raggiunge il 30% e aiuta il vino ad avere più struttura.

    La seconda regione vitivinicola si trova tra Arve e Rhône: conta 347 ettari ed è incastonata appunto fra i due corsi d’acqua. Questa zona è la più riparata dai venti; qui troviamo un suolo morenico, composto da residui ghiaiosi e di calcare, che influenza molto i sentori minerali dei vini. La terza regione, infine, è quella situata tra il fiume Arve e il lago (Entre Arve-et-Lac); i suoi terreni composti da residui lacustri, con suoli sabbiosi e ghiaiosi, donano ai vini una ricercata eleganza e li impregna di una buona purezza aromatica, caratteristiche che mettono in risalto la tipicità dei vari vitigni coltivati.

    Per tante diversità di terroirs, altrettante sono le differenze anche nei profumi dei vini prodotti: si va dai terreni sabbiosi a quelli argillosi sui dolci rilievi, oppure ancora si allevano vitigni sui costoni inclinati che beneficiano del sole, o sfruttano terricci come quelli color rossiccio di alcune zone della costa di Dardagny, area ereditata dall’ultimo periodo di glaciazione, quando la zona del Lemano era ricoperta da uno strato di ghiaccio di 200 metri di spessore. Ogni particolarità del terreno, ovviamente, concorre anche alla scelta del vitigno che sarà impiantato secondo le singole capacità di adattamento.

    Naturalmente anche il clima gioca un importante ruolo per la buona maturazione dell’uva, in questa zona più che altrove: qui, numerose sono le ore di sole di cui possono godere i vitigni grazie ai larghi spazi; importante è pure la vicinanza del lago che attenua i rigori delle gelate primaverili, senza dimenticare le cime del Giura che fanno da barriera ai freddi venti provenienti dall’Atlantico, e dunque in arrivo da ovest.

    Dopo aver subito nel passato diversi contraccolpi, i viticoltori ginevrini, di fatto, sanno affrontare molto bene le difficoltà che si presentano: hanno per esempio diversificato alcuni vitigni elaborando varianti esclusive e hanno modernizzato tutte le attrezzature, ciò che permette di produrre prodotti d’eccellente rapporto qualità/prezzo. È bene ricordare che Ginevra è stato pure il primo cantone a introdurre una denominazione con A.O.C. Premier Crus, comunali e cantonali. Parliamo ad esempio dell’Esprit de Genève, un vino prodotto da almeno un 50% di Gamay (che apporta freschezza e note speziate), da una parte di Gamaret (che contribuisce con i suoi tannini e conferisce struttura), e da un’altra parte di Garanoir (artefice di finezza, o raffinatezza). Per restarne totalmente incantati, consigliamo di assaggiarlo come accompagnamento di una fricassée de volaille, magari durante la visita di qualche vitigno dei tanti che compongono la ricca tavolozza di questo cantone, caratterizzato dal dinamismo dei suoi vignerons; oggi se ne contano più di 30.

    Tra i vitigni a bacca rossa, oltre ai tre sopracitati che compongono l’assemblaggio dell’Esprit de Genève, troviamo gli internazionali Cabernet SauvignonCabernet FrancMerlotPinot Nero. Ma più interessanti sono il Galotta (vitigno creato a Changins dall’incrocio di Ancelotta e Gamay); il Dornfelder (Helfesteiner + Heroldrebe); il Landot, ultimo sopravvissuto di quei vitigni creati per resistere alla filossera; senza dimenticare il Divico (Gamaret + Bronner). Quest’ultimo, immesso sul mercato nel 2013, sta ottenendo un grande successo, togliendo terreno al Syraz.

    È una fioritura di nuovi vini che ci incuriosiscono. Vinificati singolarmente o assemblati, abbiamo provato rossi fermi, rosati o spumantizzati come l’eccellente Gamay rosato che ci è stato offerto come brindisi di benvenuto.

    Tra i vitigni a bacca bianca, mantiene il posto maggioritario lo Chasselas. Seguono: lo Chardonnay fresco e delicato, vinificato effervescente, tranquillo o in barrique; i sensuali Pinot Bianco e il Pinot Grigio; il Sauvignon Blanc, vivace e fresco; l’armonico Sémillon; il fruttato Müller-Thurgau; il Moscato delicatamente aromatico; e l’Aligoté con la sua caratteristica acidità.

    Non dobbiamo infine dimenticare, seppur piccole, le produzioni di Gewürztraminer dal profumo di rose e passitè; il Kerner, che dona vini abbastanza longevi; il Findling (vino magnifico); e il Scheurebe, il cui profumo ricorda il pompelmo. E chiudiamo questa lunga carrellata con il Viognier e i suoi profumi di albicocca matura nella versione di vino fermo, che ci ricordano quelli dello stesso vitigno coltivato nel suo luogo d’origine, la Vallée du Rhône francese. Notevole pure la gamma di vini ottenuti con vendemmie tardive.

    / Davide Comoli

  • Erasmo di Rotterdam, vinum et corpusculum

    Vino nella storia – Dai testi dell’umanista olandese emerge una passione non indifferente per il nettare di Bacco

    Fu qualche anno fa che per caso, a Basilea, nel visitare l’antica cattedrale, ci trovammo di fronte alla pietra tombale sotto cui giacevano i resti mortali di Desiderius Erasmus Roterodamus, conosciuto come Erasmo di Rotterdam, umanista olandese (1466-1536).

    Di lui conoscevamo la sua opera più nota, l’Elogio della Follia, satira della teologia scolastica, dell’immoralità del clero e della Curia. Dall’alto di un podio, la follia passa in rassegna tutti i vizi incarnati in varie categorie di persone, non risparmiando né re né papi. Confessiamo che fino ad allora non eravamo mai andati troppo a fondo, ma spinti dalla curiosità e dalla scoperta nella cattedrale, decidemmo di saperne di più su questo personaggio e colmare la lacuna, e non nascondiamo la piacevole sorpresa nello scoprire nelle sue opere il peso dato al nettare di Bacco.

    Nel suo Diatriba del libero arbitrio (1524) scrive che l’uomo ispirato dalle sue meditazioni è in grado di modellare sé stesso, degenerare come un animale o essere una creatura degna di Dio. Ben lontano da una follia deleteria, nel momento in cui siamo in grado di padroneggiare il desiderio di smodate bevute, il vino potrebbe essere fonte di beneficio e piacere, ma anche di riflessione e insegnamento. E nell’Elogio della Follia, impreca contro gli ubriaconi che trovano il massimo del piacere nel bere, mentre nel La civiltà puerile si preoccupa d’illustrare ai giovani i pericoli derivanti dal vino e dalla birra.

    Figlio di un medico di Gouda, Erasmo resta orfano di entrambi i genitori, vittime della peste. Ordinato sacerdote nel 1492, compì numerosi viaggi in Italia e in Europa, dove conobbe tra l’altro François Rabelais e forse il suo più grande amico Tommaso Moro (Thomas More) l’autore del celebre libro Utopia. La dottrina di Erasmo, tesa a una ricerca di una religione spirituale e antidogmatica, preoccupata più della vita morale che delle pubbliche manifestazioni, fu avversata sia da Martin Lutero, che trovò in Erasmo un moderatore della sua dottrina, sia dalla Chiesa cattolica, ma in compenso trovò anche degli estimatori, sebbene molti di più furono i suoi denigratori.

    Torniamo però al tema che interessa a noi: «La birra di questo luogo – scrive Erasmo da Rotterdam ad André Ammonius – non mi piace per nulla e in quanto ai vini non mi soddisfano molto. Se tu potessi fare in modo che un otre di vino greco, il migliore possibile, mi fosse inviato qui, renderesti il tuo amico Erasmo molto felice; ma che sia un vino non troppo dolce! Non preoccuparti per il pagamento: i soldi ti saranno se tu vuoi anticipati. Sto morendo di sete, ti lascio immaginare».

    Avendo ricevuto il vino, l’umanista di Rotterdam ringrazia l’amico: «Mi hai reso due volte felice mio caro André, aggiungendo al delizioso vino uno scritto ancora più delizioso, ho dunque due ragioni per ringraziarti… e a dire il vero, ti chiedo se tu puoi inviarmi un contenitore un po’ più grande in modo che mi duri un po’ di più». A quanto pare a Erasmo questo genere di vino piaceva molto, perché un mese più tardi riscrive al caro amico: «Ti rimando la botticella che è già vuota da un po’ di tempo, il profumo del vino greco di cui le assicelle sono intrise mi ha fatto gioire, accetta questi versetti in cambio dell’eccellente vino».

    André Ammonius risiedeva nella capitale inglese quando Erasmo da Rotterdam, nel 1551, era professore di greco e teologia al Queens College di Londra; a quel tempo risalgono le lettere. Qui Erasmo era ospite di Tommaso Moro che, proprio in quel periodo e in quell’atmosfera festosa e un po’ strampalata, scrisse l’opera per cui ancora oggi è celebre. Ma quello che a noi interessa è il genere di vino di cui parla nella lettera all’amico.

    Sappiamo che nel Cinquecento i vini dolci occupano un posto di primo piano nelle consuetudini conviviali. Grazie ad Andrea Bacci e al suo monumentale De naturali vinorum historia, il più pregiato dei vini provenienti dalla Grecia che fece la fortuna di Venezia era la Malvasia, la quale prende il nome da Monemvasia, porto di transito del Peloponneso meridionale, chiamato dal Bacci Passito Cretico perché originario dell’isola di Creta (Candia), città con la quale Venezia ha intensi rapporti commerciali.

    Il Cretico veniva prodotto con uve fatte appassire sulla vite, oppure strappandone le foglie dopo aver attorcigliato il peduncolo o dopo aver disposto i grappoli su dei graticci cospargendoli di un sottile strato di gesso. E secondo il Bacci «Questi vini trasportati non soltanto in Italia e nelle Venezie, ma migliaia di botti trasportate in Gallia, in Germania e nelle più lontane località della Britannia, danno alla Repubblica Veneta un profitto mirabile a dirsi».

    Di natura gracile, ossessionato dal suo corpusculum mingherlino pieno di dolori, soprattutto ai reni, Erasmo è molto attento al regime alimentare, alle volte di estrema indigenza, «Ho a malapena di che vivere» scrive (Epistola 123), trova nel vino le proprietà nutritive e salutari che con l’aggiunta (come era in uso in quell’epoca) di erbe medicinali, diventa un vero e proprio farmaco, efficace nel prevenire i piccoli disturbi, ma anche malattie più gravi. Nel malinconico carmen De senectute composto nell’attraversamento dello Spluga, afferma: «Il vino e le altre bevande alcoliche sono le migliori medicine e i più gradevoli pasti». All’epoca di questo scritto l’autore aveva poco più di 40 anni.

    Nel 1514 Erasmo lascia l’Inghilterra e, accolto in modo deferente, raggiunge Basilea nell’estate del 1515. Tra i vortici della Riforma religiosa in atto, continua a viaggiare attraverso l’Europa con crescenti riconoscimenti per le sue opere da parte di sovrani e umanisti impegnati ad aprire la strada all’uomo libero e moderno. Di sicuro a Basilea avrà incontrato il dottore capo dell’ospedale della città nel 1526 Theophrastus Bombastus von Hohenheim, meglio conosciuto come Paracelso, medico, mago tormentato dall’occultismo, mente geniale, conoscitore senza eguali delle taverne di mezza Europa, con il quale avrà, immaginiamo, gareggiato in qualche giostra alcolica.

    Nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 1536, a 69 anni, Erasmo muore in seguito a dolorosa malattia, gotta, reumatismi, dissenteria. Secondo alcuni contemporanei, avrebbe lasciato questo mondo recitando giaculatorie, secondo altri «sine cruce, sine luce, sine Deo», dubbia la presenza di un sacerdote al capezzale.

    / Davide Comoli

  • Il regno dello Chasselas

    Bacco giramondo – La Côte, il Lavaux e lo Chablais, a partire da Changins, la miglior fucina di giovani enologi della Svizzera

    Con i suoi circa 4mila ettari vitati, il Canton Vaud rappresenta quasi un quarto della superficie viticola Svizzera.

    Da molti secoli, vigna e vino sono presenti nella vita sociale ed economica della Svizzera romanda. Le vigne allevate con continuità, su terrazzamenti tra le creste alpine e il lago Lemano tra Nyon e Montreux, contribuiscono non poco a creare paesaggi idilliaci e bucolici, lasciando l’ignaro viaggiatore a bocca aperta.

    La storia c’insegna comunque che furono soprattutto i monaci, nel Medioevo, a comprendere l’importanza di una sana gestione dei vigneti su queste terre. Rimandano a loro, di fatto, le denominazioni di alcuni terreni dissodati in quei tempi, dove ancora oggi vengono prodotti grandi vini: Clos des Moines, Clos des Abbayes, Clos des Abbesses, eccetera.

    Il vigneto vodese viene normalmente diviso in sei regioni viticole che per ordine d’importanza sono: la Côte (tra Nyon e Losanna), Lavaux (tra Losanna e Montreux), Chablais (tra Villeneuve e Bex), queste tre zone godono dell’influenza del lago Lemano. A nord del cantone troviamo Côtes de l’Orbe, Bonvillars (presso la riva ovest del lago di Neuchâtel) e Vully (sulla riva ovest del lago di Morat).

    Per ragioni di spazio c’interesseremo delle prime tre zone, sebbene tutte le regioni condividano la passione di tutti i viticoltori per il vitigno Chasselas, il quale, pur facendo qualche concessione in favore di vitigni rossi, resta l’assoluto ambasciatore dei vini del canton Vaud.

    Normalmente sono vini con poca acidità, con profumi e aromi ben definiti dati dai terroir d’origine (floreali in certi casi, fruttati o minerali in altri). Anche il Gamay sembra cedere terreno a favore del Pinot Nero, in progressione il Gamaret e il Garanoir.

    Per meglio conoscere gli aspetti della viticoltura del Canton Vaud, abbiamo pensato di approfondire le nostre conoscenze partendo da quella che noi consideriamo la miglior fucina di giovani enologi della Svizzera: stiamo parlando della scuola di Changins.

    La strada del vino si snoda da nord-ovest del lago Lemano su crinali dalle ondulate colline dove si alternano campi fruttati e vigne allevate sui dolci pendii, dove il clima temperato del lago crea in concomitanza di terreni leggeri una situazione ideale per la vigna. La strada ci porta ad attraversare incantevoli paesaggi tra fascinosi villaggi: Begnins, Luins, Vinzel, Bursinel, Tartegnin, Mont-sur-Rolle.

    Continuiamo il nostro viaggio – Fechy, Aubonne e Morges – concedendoci una piacevole sosta culinaria. I classici «filetti di persico» sono un perfetto abbinamento con il nostro Chasselas prodotto a Vinzel, dalle note floreali e minerali, che insieme sono molto armoniche, e qui non ci lasciamo sfuggire l’occasione per mettere tra i bagagli due bottiglie di Servagnin de Morges, prodotto da una selezione locale di Pinot Nero.

    Ci lasciamo Losanna alle spalle; inserito nel patrimonio mondiale dell’Unesco, il vigneto del Lavaux beneficia della temperatura più dolce della Svizzera, essendo esposto verso est con le vigne riparate da grandi muraglie. Vigne che sono coltivate su terrazzamenti che sembrano giardini sospesi sul bordo del lago, raggruppati nella parte inferiore delle rocce, a segnare la vittoria dell’uomo su una natura caotica, dove la meccanizzazione non esiste.

    È meraviglioso il paesaggio della Corniche che stiamo attraversando, i suoi pittoreschi villaggi: Lutry, Villette, Cully, dove sostiamo a gustare un Plant-Robert, selezione di qualità del Gamay. Sosta d’obbligo anche a Epesses e a Puidoux per acquistare i due grandi Crus: Calamin e Dezaley prodotti con uve Chasselas. La sosta ci permette (assolutamente imperdibile) di percorrere quello che è chiamato: «le chemin de la Dame» che unisce Epesses a Chexbres, per ammirare i vigneti a strapiombo sul lago: unici!

    Ci fermiamo per la notte tra Vevey e Montreux, il patron del ristorante ci propone un menu abbinato ai vari Chasselas del Lavaux. Non poteva di certo mancare alla fine una degustazione di formaggi abbinati a uno Chasselas prodotto a Cully, con uve colte con vendemmia tardiva, che dimostra la potenzialità di questo vitigno indiscusso protagonista della regione.

    Lasciamo Montreux di primo mattino e, costeggiando il Lemano, passiamo accanto al famoso Château de Chillon per raggiungere Villeneuve, trait d’union tra il bacino del Lemano e il Vallese. La regione dello Chablais è situata sulla sponda destra del Rodano, gode di un clima particolare che favorisce la maturazione delle uve, grazie al foehn che soffia da sud in autunno. Anche i terreni sono molto diversi, ricchi di smottamenti, gesso e calcare che obbliga le radici della vite ad andare in profondità alla ricerca dell’umidità necessaria. Questo influenza molto il gusto dei vini impregnandoli di amarognolo e donando loro un evidente gusto di pietra focaia. Peraltro, tale leggero sapore amarognolo è dato dalla «cargneule», terreni situati su una frana che pare possiedano virtù diuretiche.

    Attraversiamo Yvorne dove il vitigno re, manco a dirlo, è lo Chasselas; tappa d’obbligo ad Aigle. Qui visitiamo l’omonimo Château dove ogni anno si premiano i migliori Chasselas della Svizzera. È proprio in queste terre che viene prodotto il più celebre vino svizzero al mondo, quello con la lucertola sull’etichetta. Naturalmente degustiamo anche i vini della vicina Ollon. Attraversiamo St-Triphon e arriviamo a Bex, sul confine con il Vallese. Il terreno gessoso regala ai vitigni una linfa generosa; i rossi Pinot Nero, Gamay, Garanoir e Merlot, coprono l’80% della produzione e sono considerati, con i rossi di Aigle, i migliori della regione.

    / Davide Comoli

  • Il vino nell’Inghilterra di Shakespeare

    Il vino nella storia – Dopo la perdita della Guascogna nella Guerra dei 100 anni, gli inglesi andarono a rifornirsi in Spagna e Portogallo

    Durante il regno di Elisabetta I (1558-1603), regina lungimirante che aveva tra l’altro promulgato lo Statuto degli Artigiani, primo contratto nominativo e salariale dei lavoratori, il vino nell’Inghilterra di quel tempo era un bene accessibile a tutti e lo si poteva trovare in grande quantità.

    Ma quali erano i vini prediletti dagli Inglesi? La perdita della Guascogna passata alla Francia al termine della lunga guerra dei Cent’anni nel 1453, (agli Inglesi rimane solo Calais) e la crescente predilezione dei figli d’Albione per i vini dolci, portò tra il XV e il XVI secolo un notevole squilibrio delle importazioni a favore dei vini provenienti dalla Spagna e dal Portogallo. Si dice che nel lontano inverno del 1587 non ci fosse taverna inglese dove non si vendesse vino proveniente da Cadice. Quell’anno, con un fulmineo attacco, Francis Drake (1542-1596) era piombato come un falco nel porto andaluso di Cadice, cogliendo di sorpresa gli esterrefatti spagnoli; aveva messo a ferro e fuoco la città prima di fuggire con più di 2900 botti di Sack (antenato del moderno Sherry), trovate sulla banchina, pronte per essere stivate sulle navi dell’Invincibile Armada, infatti così era chiamata la flotta spagnola che s’apprestava, in quel periodo di conflitto tra Elisabetta I e Filippo II re di Spagna, ad invadere l’Inghilterra.

    Ma quell’invasione non avvenne mai, infatti culminò in un grosso disastro causato da una forte tempesta scatenatasi di fronte le coste normanne; fu un vero disastro, delle 420 navi spagnole solo 76 fecero ritorno in patria, correva l’anno 1588. Questo naturalmente portò una recessione del commercio fra i due paesi, ma senza alcun dubbio i secoli XVI e XVII portarono un grande incremento delle esportazioni di vino tra Spagna e Inghilterra.

    Un grande contributo alla conoscenza dei nomi dei vini che venivano allora bevuti nelle taverne londinesi emerge chiaramente dalla letteratura inglese di quel periodo e in particolare dalle opere teatrali del drammaturgo e poeta William Shakespeare (1564-1616).

    Nelle sue «sicure» 37 opere, il vino sorregge l’intelligenza e il coraggio, è considerato sorgente di conoscenza e sapere, è spesso associato al sangue e al fuoco ed il suo potere è rapido, è inoltre fonte di loquacità e suscita allegria. Alle volte il vino è usato male da personaggi non molto positivi come Lady Macbeth o Iago nell’Otello, oppure Claudio nell’Amleto, ma non è il vino che possiede caratteristiche infauste.

    Al posto d’onore tra i vini importati dalla Spagna, c’era appunto il Sack proveniente da Sanlúcar alla foce del Guadalquivir, dove gli inglesi avevano creato una piccola base commerciale, era da lì che il Sack prodotto nella vicina Jerez de la Frontera veniva imbarcato per l’Inghilterra. Oltre a questo vino secco, ambrato e alle volte addolcito con il miele, venivano importati il Charneco proveniente da Colares in Portogallo nonché il Bastardo sempre portoghese e il Malmsey (Malvasia) proveniente dalle Canarie, descritto da Mistress Quickly in Le allegre comari di Windsor come «un vino meravigliosamente penetrante che profuma il sangue in un baleno».

    Nelle opere del grande drammaturgo, il bevitore per eccellenza è Sir John Falstaff, per questo personaggio il vino è ciò che rende il cervello tempestivo in ogni situazione, riempie il cuore di coraggio e dà un senso alla conoscenza delle cose e nell’Enrico IV dice: «Il sapere non è che un semplice mucchio d’oro tenuto da un diavolo finché una coppa di Sack non lo inaugura e gli dà vita e impiego».

    Ma a parer nostro la miglior definizione di questo vino la dà alla Garter Inn (locanda della Giarettiera) intorno alla quale ruota la commedia Le allegre comari di Windsor, ecco ciò che dice Falstaff: «Un buon bicchiere di vin di Spagna è sempre a doppio effetto: primo che mi sale al cervello, e lì prosciuga tutti i vapori, acri e grevi, della scemenza, e me lo rende appercettivo, pronto, sagace, vivo, forgiativo, pieno d’aereo fuoco e di estri dilettevoli: i quali, consegnati alla voce della lingua che gli dà l’aíre, diventano battute di spirito eccellenti. L’altro effetto del nostro prodigioso vin di Spagna è di scaldare il sangue: il quale prima infreddolito e stagno, lasciava pallidissimo il fegato: segno questo di meschinità e vigliaccheria. Riscaldato dal vino invece, il sangue prende la foga dall’interno alla periferia; illumina la faccia che come un fanale di segnalazione trasmette a tutto il resto del piccolo reame – l’uomo – l’ordine di armarsi; e allora la balda borghesia degli spiritelli interiori mi si schierano intorno al loro bravo capitano – il cuore –; il quale, gonfiato e lievitato da questo gran codazzo compie prodigi di prodezza; e tutto a gloria di quel vin di Spagna».

    E dopo aver citato le gagliarde bevute di intere cantine di Sack, che hanno fatto del Principe Righetto un uomo valoroso, Falstaff conclude dicendo: «Se avessi un migliaio di figli il primo principio di buona umanità che, a uno a uno, vorrei ficcare a loro in testa, sarebbe quello di rifiutare le pozioni insulse per attaccarsi forte al vin di Spagna». L’immagine positiva di cui godeva il vino nelle opere di Shakespeare sotto il regno di Elisabetta I, assunse tinte fosche alla sua morte. Gli avvenimenti storici che sconvolsero il regno con il suo successore Giacomo I (figlio di M. Stuarda), portarono a drastici provvedimenti, aumentando tra l’altro il prezzo d’importazione del vino con la conseguente diminuzione del consumo.

    / Davide Comoli