Curiosità Archivi - Pagina 11 di 13 - Vinarte
  • I grandi flagelli

    Il vino nella storia – Dall’oidio al black rot, passando per la Phylloxera vastatrix

    Molti studiosi di ampelografia considerano il periodo anteriore al 1850 come un’epoca d’oro per la coltura della vite. Fu l’arrivo dei parassiti provenienti dalle Americhe a provocare un grosso problema e sconvolgere così il modo di curare e coltivare la vite in Europa: nel 1845 l’oidio, nel 1863 la fillossera, nel 1878 la peronospora e nel 1883 il black rot.

    Tutto cominciò con lo scambio di materiale vegetale, all’inizio in una sola direzione, quando nel 1519 l’America chiese alla Spagna l’invio sistematico di barbatelle di Vitis vinifera. Il Nuovo Mondo aveva fatto conoscere all’Europa tanti utilissimi vegetali, ma di fronte alle immense distese di terre ancora vergini, il primo pensiero andò alla vite.

    Molto importante fu la presenza degli ordini religiosi cattolici spagnoli, per i quali il vino, non solo rappresentava uno strumento liturgico, ma anche una consuetudine alimentare.

    Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, i botanici europei iniziarono l’importazione di viti americane, soprattutto per impiantarle nei giardini botanici, ove gli ampelografi sarebbero stati in grado di studiarli. I Jardin du Luxembourg a Parigi, nel 1817, potevano vantare ben 23 tipologie di viti americane, mentre alcuni ibridi, come il Clinton e l’Isabella, stavano entrando in produzione nel nostro continente.

    Proprio nei giardini botanici e nelle serre dove si coltivava la vite, apparvero sulle uve da tavola le prime avvisaglie di un malessere che non poteva sfuggire agli occhi degli esperti giardinieri che avevano cura di esse.

    Nelle serre di Margate in Inghilterra, nel 1845 il signor Tucker, giardiniere di un ricco nobile, osservò sulle viti delle strane macchie che lo insospettirono al punto di richiedere l’aiuto di un naturalista. Questo, dopo un attento esame, scoprì che si trattava di un fungo, l’oidio, al quale, trattandosi di una specie nuova, gli diede il nome di Oidium tuckeri per ricordare l’acuto spirito d’osservazione del giardiniere che aveva consentito un veloce isolamento della malattia.

    Fu ancora un altro giardiniere inglese, certo Kyle, che dopo varie esperienze, scoprì nello zolfo un ottimo rimedio contro l’oidio.

    Ma un’altra terribile infezione micotica stava arrivando: la Peronospora, così chiamata per la forma lanceolata delle sue spore. La famiglia delle Peronosporacee conta ben 75 specie, ma la più terribile si rivelò subito quella che attaccava la vite e che fu chiamata Plasmopara viticola. Il suo micelio si sviluppa nelle parti verdi della vite e produce delle protuberanze dette austori con cui si nutre a spese della pianta. I sali di rame non risolsero in modo completo il problema, che tuttavia sembrò perdere importanza di fronte a un nuovo e ben più grave flagello, la Fillossera.

    Nel 1863, ancora in Inghilterra, ad Hammersmith nei pressi di Londra, il professor Westwood, celebre entomologo, notò alcune galle su foglie di vite, ma dopo un più accurato controllo alle parti ipogee, scoprì che lo stesso parassita era presente anche sulle radici.

    Nel frattempo, quasi contemporaneamente alla prima segnalazione di Westwood, in una vigna nei pressi di Arles, venne segnalato da un veterinario, tale dottor Delorme, lo stato di sofferenza dei ceppi di vite. Di questo fatto fu informato il Comitato Agricolo di Aix en Provence. Fu l’inizio di studi accurati ai quali parteciparono i botanici e gli entomologi più famosi dell’epoca, perché la malattia stava invadendo velocemente tutti i vigneti della Francia.

    Gli studiosi cominciarono subito a prospettare l’origine americana dell’afide, anche se ancora c’erano degli scettici, fra i quali gli stessi naturalisti che avevano descritto l’insetto dandogli il nome di Rizaphis vastatrix.

    Il nome di Rizaphis, su proposta dell’entomologo Signoret, fu mutato in Philloxera, termine di uso comune: intanto si era accertato che lo stesso insetto parassitava le radici delle viti europee e le foglie delle viti americane; acuta osservazione dalla quale fu poi possibile trarre il rimedio del portainnesto di viti americane, dotate di radici resistenti al flagello.

    Intanto la Fillossera, si era estesa ai vigneti di Bordeaux e in Portogallo, da dove venivano segnalati forti distruzioni al patrimonio viticolo. In breve furono coinvolti i vigneti della Grecia, Ungheria e Austria; alla Spagna che si credeva immune, nel 1877 creò danni assai estesi. In Italia vi era ovviamente una tensione molto forte e tutte le Stazioni Entomologiche furono allertate. Il presidente del Comizio Agrario di Como segnalò per primo dei problemi sul territorio italiano, precisamente nel comune di Valmadrera. Si stava avvicinando la vendemmia e le viti deperivano velocemente.

    Furono inviati campioni di materiale vegetale alla Stazione Entomologica di Firenze, che confermò la diagnosi: anche per l’Italia era suonata l’ora della tragedia. Valmadrera è a due passi dai nostri confini; ci volle poco: nel 1893 la fillossera arriva in Ticino. Per fronteggiare il parassita e la drammatica situazione che si era venuta a creare, lo Stato crea il servizio antifillosserico e la Cattedra ambulante di agricoltura.

    Nel 1902 vengono adottate le seguenti disposizioni: 1. sostituzione delle viti americane con le nostrane; 2. scelta dei migliori vitigni nostrani; 3. sperimentazione di vitigni resistenti alla fillossera; 4. promovimento delle Cantine Sociali; 5. sperimentazioni diverse. Nel 1905 unitamente ad altre varietà s’iniziò la sperimentazione del vitigno Merlot.

    Chambolle-Musigny
    Alle due estremità, Bonnes Mares a nord, Musigny a sud, troviamo quello che la Borgogna può produrre di meglio: vini tutti che sembrano merletti di seta e che vengono riconosciuti per il solo nome dei loro climat. Dal 1878 il piccolo villaggio di Chambolle ha ricevuto l’autorizzazione d’aggiungere al suo nome quello del suo più prestigioso climat, Musigny, un vigneto di 10 ha, divisorio dal mitico Clos de Vougeot e separato da tre parcelle. I pendii vitati sono esposti a sud-est, un’ottima posizione per le vigne che al levar del sole, vedono l’umidità notturna assorbita dai primi raggi del sole. Il vigneto è costituito da decine di parcelle che producono vini diversi, dato il terreno marno-calcareo composto da scisti argillosi ricchi di ferro e ghiaia. Le zone della Côte de Nuits (Borgogna) sono l’eccellenza del Pinot Nero. Il nostro Chambolle-Musigny, con i suoi delicati profumi di lampone e cassis, è l’ideale compagno gastronomico per carni rosse, petto d’anatra, ed eccezionale con l’Epoisses, tipico formaggio della Borgogna, ma soprattutto è il regalo ideale per la prossima festa del papà.

  • È l’Ora del Vermut

    Vino nella storia – Non solo un vino, ma anche un rituale mondano che mescolava al banco del bar tutte le classi sociali.

    Fu alla fine del XVIII secolo che si verificarono a Torino una serie di situazioni che resero possibile la nascita del Vermut come lo conosciamo noi oggi. In primis, tra i motivi che facilitarono la creazione, ci sentiamo di mettere la grande disponibilità delle spezie necessarie alla sua produzione, che arrivavano dalla vicina Genova, in quegli anni, ancora sotto il dominio di Napoleone (nel 1815 sarà annessa al Regno di Sardegna e dei Savoia, di cui Torino era la capitale).

    Come secondo fattore per importanza, è la presenza nel capoluogo piemontese del vitigno Moscato, fortemente aromatico e ricco di zuccheri, vera chiave del successo del Vermut, la cui produzione aumentò con l’affermarsi per l’appunto di questo vitigno, prima come vino da meditazione e in seguito come spumante.

    A parlare di Moscato, ci torna in mente la lettura dello scritto di Arnaldo di Villanova, che nel suo: Liber de Vinis descrive la distillazione del vino come un miracolo, e la sua intuizione di fortificare il vino Moscato, vitigno molto coltivato nell’area di Montpellier, nella cui università insegnava il medico, alchimista catalano (1240-1311).

    Il terzo fattore fu l’ingegno dell’artefice del primo Vermut, Antonio Benedetto Carpano. A dire il vero, si è dibattuto e ancora si dibatte, se sia stato davvero Carpano a inventare il Vermut. Sicuramente fu colui che ne industrializzò il processo, introducendo importanti innovazioni alla ricetta, rendendo così possibile la conquista del mondo.

    Carpano era di origini biellesi, nacque a Bioglio nel 1765. Lavorava come garzone nella liquoreria rivendita vino Marendazzo, aperta nel 1780 in piazza delle Fiere (oggi piazza Castello). Vuole una leggenda, che proprio sotto questa piazza si trovino le Grotte Alchemiche, quelle dove si dice operassero il meglio degli alchimisti, qualche nome? Paracelso e Cagliostro. Questa rivendita di vini fu successivamente convertita in un bar aperto 24 ore su 24, per soddisfare la clientela in fatto di Vermut. Il locale era situato in un luogo strategico, poco lontano dai palazzi del potere savoiardo di Palazzo Reale e Palazzo Madama. Sulla stessa piazza, in seguito, sarebbe sorto il Caffè Mulassano, che ancora porta sulle vetrine i loghi Carpano, con cui faceva accompagnare il famoso tramezzino, da lui inventato all’inizio del novecento, con il classico Punt e Mes.

    In quel periodo, fermenti risorgimentali infiammavano Torino e qui, Carpano decise di cercare fortuna. Come ogni pasticcere dell’epoca, Carpano produceva tutte le bagne alcoliche per i ripieni dei cioccolatini e per i dolci. Poco più che ventenne, iniziò a elaborare un prodotto a base di Moscato – che a Torino si trovava in grande quantità – seguendo i dettami dell’infusione di frutta, erbe e spezie, e applicando i precetti appresi nella tradizione dei monasteri della Valsesia, dove egli risiedeva.

    Il primo Vermut fu elaborato nel 1786, ed ebbe un immediato successo. La liquoreria divenne il luogo più frequentato della Torino di allora. Le ragioni del successo furono semplici: ispirandosi ad una preparazione medica e adattandola all’uso voluttuario, migliorò il vino di allora, poco adatto al fine gusto di nobili e dame, rendendolo assolutamente piacevole con l’uso dello zucchero e di spezie dolci.

    Il nome sembra sia stato dato dallo stesso Carpano in omaggio alla sua passione per Goethe, che proprio in quell’anno intraprese il suo viaggio in Italia. Infatti, Wermutkraut è il termine che indica l’Assenzio maggiore. In realtà la ragione potrebbe essere ben più sottile. Da sempre Casa Savoia, si era affannata nel dimostrare che la casata discendesse direttamente da Re Ottone II di Sassonia. Per fare ciò, si avvalsero di storiografi che alla fine trovarono le prove che la famiglia discendesse addirittura da Vitichindo, il difensore dei diritti Sassoni contro Carlo Magno.

    Il Vermut era presente a corte e faceva parte integrante dell’economia dello Stato Sabaudo. Giovanni Vialardi, cuoco di corte di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, scrive nel 1854 il suo Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria, riportando una ricetta di Vermut piuttosto complessa. Molte sono le erbe aromatiche presenti, le principali sono: l’assenzio, genzianella, quassio, china, centaurea, scorza di cedro e sambuco. La macerazione, come scrive l’autore, avviene nel vino Moscato, a cui segue un’accurata filtrazione. Il suo uso a corte era, così si legge, in abbinamento alle ostriche gratinate, uno dei cavalli di battaglia del Vialardi.

    Un elemento fondamentale per il successo del Vermut, fu l’investimento sulle vie di comunicazione. Nel 1853, la ferrovia Torino-Genova, permetteva di raggiungere il capoluogo ligure in quattro ore mentre nel 1819 erano necessarie 26 ore di carrozza.

    Il traforo del Frejus nel 1871 e quello del San Gottardo del 1882, furono investimenti incredibili per l’export di questo prodotto nei paesi sparsi nel mondo. Le fatture di spedizioni ancora visibili presso molti produttori attestano questo successo. Fu Cora nel 1838, seguito a breve da Cinzano, Gancia e Martini, a spedire il Vermut prima in sud America e poi negli Stati Uniti.

    Fino al 1915 era in auge dalle sei alle sette di sera l’«Ora del Vermut», un rituale mondano che mescolava al banco del bar tutte le classi sociali. Per le signorine della Torino benestante, essere portate dalla mamma all’Ora del Vermut, rappresentava una sorta di debutto in società, dove apprendere i primi meccanismi del corteggiamento.

    Champagne J. Charpentier brut
    Subito dopo la leggera esplosione che segue la sua apertura, lo Champagne incomincia a crepitare, e continua anche dopo essere stato versato nella flûte. È la sua effervescenza che lo fa mormorare e fremere. Le piccole bollicine salgono veloci e leggere verso il bordo, in colonne o a grappoli e appaiono ai nostri occhi come una pioggia di stelle nella notte di San Lorenzo.

    San Valentino è alle porte, lo Champagne, «noblesse oblige», richiama romantici scambi di promesse. Da tempo, infatti, quell’inesprimibile delizioso annebbiamento, quel voluttuoso stordimento, delle facoltà procurato dalle sue complici bollicine, costituiscono piacevoli alibi dove poter tentare approcci ed effusioni amorose.

    Quindi, il nostro consiglio è quello di abbassare le luci, spegnere il telefono e mettere un CD di musica romantica, aprire una bottiglia del nostro ultimo arrivo, lo Champagne J. Charpentier, un brut prodotto a Villers sous Châtillon, nel cuore della regione dello Champagne, e godersi la cenetta a lume di candela.

    / Davide Comoli  

  • Il Jura e i suoi vini

    Bacco Giramondo – Anche questa regione francese può vantare specialità di ottimo pregio, forse meno conosciute di quelle di altre zone vinicole.

    Il Jura è una regione situata tra la Svizzera e la Borgogna, caratterizzata da un rilievo formato da rocce calcaree. Le vigne occupano parcelle protette dai venti, a un’altezza che varia tra i 250-500 m s.m. Piccolo per essere grande, ma grande per la sua eccezionale diversità, il vigneto Jurassiano si estende per una lunghezza di 80 km, diviso in quattro zone: le alte montagne, la costa del Revermont, gli altipiani e la pianura.

    I vini del Jura, prodotti con vitigni autoctoni, vengono raramente citati tra i grandi vini di Francia, eccezion fatta per il leggendario Vin Jaune.
    I vignerons locali spesso lavorano parcelle discoste tra di loro, alcune rivolte ad ovest o a sud-ovest, a volte rivolte a sud. I suoli sono prevalentemente formati da marne blu, grigie e nere, quelli più a nord, a volte, da abbaglianti calcari e scisti. Il clima è ricco di contrasti: gli inverni sono freddi, le estati calde e gli autunni soleggiati.

    Nel 1936 i vini del Jura ottennero le prime A.O.C. francesi (a Arbois, il nome di questo luogo è di chiare origini celtiche: le parole «AR» e «BOIS» significano infatti «terra fertile». Molto rinomati sono i vini rossi, eleganti e luminosi di questa A.O.C. Arbois è una bella piccola e vecchia città, dove tra l’altro, in una piccola vigna presso la città, Louis Pasteur compì i suoi esperimenti sui lieviti, scrivendo un trattato d’enologia sui vini del luogo.

    Il nome di questa zona vitivinicola situata nella Franche-Comté è A.O.C. l’Étoile, una denominazione legata al ritrovamento nel suo territorio di piccoli fossili (moltissimi) chiamati «penta crines», che sembrano stelle a cinque pentacoli e danno origine al terreno calcareo della zona. I vigneti che circondano la città di Lons-le Saunier, luogo natale di Rouget de Lisle, il compositore della «Marsigliese», danno origine all’A.O.C. Côtes de Jura, che conta 72 villaggi: vanno da nord a sud su terreni molto diversi. In alto troviamo del calcare con sedimenti organici, sui contrafforti marne pietrose e infine nelle terre basse dell’argilla quasi in purezza. L’A.O.C. Château-Chalon, questo piccolo vigneto di rinomanza mondiale, conta quattro comuni ai piedi della falesia di Bajocien, all’interno di un perimetro ben delimitato. Château-Chalon è costruito sul granito e quindi impossibile avere delle cantine sotterranee (si scende al massimo di un paio di metri): sono quindi tutte alla mercé degli sbalzi di temperatura, che giocano un ruolo importante nell’apparizione del lievito «flor», tipico dei Vins Jaunes.

    Il Vin Jaune è uno dei vini più longevi al mondo. Il suo intenso colore giallo dorato gli ha fatto meritare il nome di «Oro del Jura». Prodotto esclusivamente con le uve del Savagnin, rivela le sue eccezionali qualità aromatiche dopo una lunga e misteriosa metamorfosi. Il Vin Jaune nasce da Château-Chalon, ma è ugualmente prodotto nelle A.O.C. che abbiamo citato sopra.

    Una volta finita la fermentazione, viene conservato per un minimo di sei anni e tre mesi in piccole botti, senza alcun intervento dell’uomo. Questo procedimento, che rispetta l’evaporazione naturale del vino, provoca la creazione di una sottile pellicola di lieviti in superficie. Sono questi lieviti che con pazienza nutrono il famoso Vin Jaune, gli danno aromi complessi di noci, nocciole e mandorle.

    Alla fine del suo invecchiamento, questo nettare è messo nelle «clavelin», bottiglie da 62 cl: è il volume che resta da un litro di Savagnin dopo l’invecchiamento. Questo vino possente migliora con il tempo: è l’ottimo compagno del celebre Poulet au Vin Jaune, ma non disdegna un vecchio Comtè stagionato.

    Altro nettare, dolce e voluttuoso, è il Vin de Paille. Vino dolce naturale è prodotto con antiche tecniche dai più bei grappoli di Chardonnay, Savagnin, Poulsand e Trousseau selezionati. I grappoli vengono in seguito messi su dei graticci di paglia d’avena per circa tre mesi. Dopo questa disidratazione, i chicchi ricchi di zucchero vengono pressati. Il mosto ottenuto fermenta sino ad arrivare ad un grado alcolico tra i 14,5° ed i 17°, dopodiché verrà messo in botte per almeno altri tre anni. Si avrà così dopo l’invecchiamento un vino con profumi di miele, caramello, frutta candita, che viene usato anche come fortificante naturale per le sue virtù energetiche. Da provare sul foie gras o sulla torta di noci.

    Elaborati da cinque differenti vitigni, i vini del Jura posseggono una straordinaria diversità gustativa e olfattiva: lo Chardonnay, il Savagnin, il Poulsand, il Pinot Nero e il Trousseau, si esprimono in maniera molto differente a dipendenza del terreno e del microclima che li vede maturare.

    Lo Chardonnay è originario della Borgogna ma viene coltivato da lunghissimo tempo nel Jura, tanto da diventarne un po’ «l’enfant du pays».Grazie alle grandi caratteristiche d’adattamento è il vitigno più coltivato.

    Il Savagnin, ha un ruolo dominante: questo vitigno chiamato in loco Nature è imparentato con il Traminer e la sua coltivazione ricopre il 15% della superficie vitata. Il rendimento è molto flebile, circa 30-35 ettolitri a ettaro e la vendemmia viene prolungata sino alla fine di novembre/dicembre. È il vitigno principe per il Vin Jaune.

    Il Poulsand (rosso), antico vitigno autoctono (già citato da Plinio), ama i terreni marnosi e argillosi. È il secondo vitigno per produzione: ha un colore leggero che lo fa assomigliare ad un rosato (rosso pastello). È un vino da tutto pasto, da bere con piatti di salumeria locale, tra i quali figura la salsiccia di Morteau. Il Trousseau (rosso), di corpo e tannico, è un vino elegante, da abbinare ai piatti di selvaggina. Il Pinot Nero, viene spesso maritato con gli altri due, ma grazie al suo buon potenziale d’invecchiamento, viene spesso vinificato in purezza.

    Non possiamo lasciare il Jura senza citare il Macvin, che è l’equivalente delle nostre mistelle. È prodotto con due terzi di mosto (bianco o rosso) e un terzo di Marc (grappa). Deve restare 18 mesi in botte e contiene un alto residuo zuccherino. Ottimo come aperitivo, ma vi invito a provarlo anche su un dolce al cioccolato.

    Bonarda Vivace Il Bosco
    Il freddo invita a sedersi davanti ad una tavola imbandita, e la cucina d’inverno offre una ricca gamma di suggerimenti con una serie di piatti succulenti, i quali necessitano di vini in grado di sgrassare un po’ la nostra bocca. La Bonarda, antico vitigno piemontese, è ricco di sinonimie e false omonimie, delle quali la più frequente è quella della Croatina.

    Può essere vinificata in purezza, ma generalmente è utilizzata in mescolanza con delle altre uve, quali il Barbera, apportando vivacità e colore, attenuando l’eventuale asprezza e tannicità. Di un colore rosso rubino violaceo, di una piacevolezza non comune, al naso percepiamo sentori di marasca, portati quasi allo stato di confettura, lampone e fragola; in bocca grande freschezza grazie alla sua briosità che t’invoglia subito a bere un altro sorso. Perfetta con un tagliere di salumi, preparazioni in cui l’oca è l’ingrediente principe, ma soprattutto sulla famosissima «Cazzoeula».

    /Davide Comoli

  • Bacco alle esposizioni universali

    Il vino nella storia. Molti i premi assegnati alla qualità dei prodotti francesi e italiani che, nelle manifestazioni del passato, sono stati portati a conoscenza del grande pubblico.

    Dalle grandi fiere commerciali che si tenevano in Europa già nel tardo Medioevo, dove si vendevano i più diversi tipi di mercanzia, sono in seguito nate le esposizioni universali. La prima mostra di questo tipo si tenne in Inghilterra nel 1756. Nel 1824 ci furono le prime fiere di Philadelphia e di New York. Fu nella seconda metà dell’Ottocento che si delinearono tre tipologie di mostre: la prima fu industriale, dedicata a una tipologia specifica di un Paese, tale fu l’esposizione di Berlino del 1877, dove si presentavano i prodotti in cuoio. Un secondo tipo di mostra, molto diffuso in USA era dedicato alla commemorazione di un avvenimento storico. Il terzo tipo, l’esposizione universale, aveva invece obiettivi internazionali. Era, quest’ultima, sponsorizzata da un governo nazionale e presentava una grande varietà di prodotti. Nel 1851 per questa occasione a Londra fu costruito il famoso Crystal Palace.

    Nel 1855 a Parigi si tenne, per volere di Napoleone III, la sua prima esposizione universale presso gli Champs Élysées. Fu proprio in questa occasione che la Camera di Commercio di Bordeaux incaricò la Chambre des courtiers de commerce della Borsa di Bordeaux, di redigere una lista di tutti i crus dei grandi vini rossi e bianchi di quel dipartimento. In questa lista figuravano 58 nomi di crus classés per i vini rossi e 21 per i vini bianchi. Per i rossi si segnalavano particolarmente quelli dell’Alto Médoc e per i bianchi quelli della zona del Sauternes. I crus rossi vennero suddivisi in cinque classi di qualità e prezzo, mentre i bianchi furono ripartiti in due classi, precedute da un unico premier crus, che fu Haut Brion, a cui fecero compagnia i tre grandi del Médoc ossia: Chateau Lafite, Margaux e Latour. Questa classifica, ritenuta da alcuni un po’ parziale, si mostrò decisamente azzeccata e segnò un importante momento per la storia del vino francese.

    Meno conosciuta, ma forse la più importante di quel periodo, fu la fiera di Vienna del 1873. Più di sette milioni (cifra incredibile anche ai nostri giorni) di persone visitarono i padiglioni eretti nel Prater, il famoso parco viennese, dove furono esposti 26mila prodotti diversi. L’anno dopo l’Unità d’Italia, correva il 1862, i vini italiani per la prima volta parteciparono a un’esposizione internazionale e nel 1867 fu la volta di Parigi ad accogliere e a risvegliare un certo interesse da parte del mercato internazionale per i vini della Penisola. Qualche anno dopo, era il 1873, a Vienna, i vini italiani dimostrarono con i fatti di aver raggiunto un notevole livello qualitativo e fioccarono molti riconoscimenti.

    I premi più importanti nell’ambito dei grandi vini rossi furono assegnati al Piemonte e alla Toscana. Barolo, Nebbiolo, Barbera furono classificati tra i Perfetto, lo stesso riconoscimento fu dato per la Toscana al Chianti del barone Bettino Ricasoli. Ad altri vini toscani come: il Vin Santo, il Pomino, l’Artimino, il Carmignano e il celebrato Montepulciano furono assegnati diplomi di stima. Per i vini bianchi sia secchi sia dolci, la parte del leone andò alle regioni del meridione e in modo speciale alla Sicilia e alla Campania. Per quest’ultima furono premiati il Capri ed il Lacryma Christi. La Sicilia ebbe davvero un considerevole numero di riconoscimenti, soprattutto con il Marsala Ingham e Florio. Se questi furono i top delle classifiche del Giurì internazionale di Vienna, si segnalarono altri vini italiani come: il Nasco e la Vernaccia per la Sardegna, il Sassella per la Lombardia, il Valpolicella per il Veneto, il Picolit e la Ribolla da Udine e Gorizia. Ebbero menzione i vini di Conegliano, lo «sciropposo» Trebbiano e il Sangiovese di Cesena e Forlì e l’Aleatico di Bari.

    Il punto ancora debole dell’enologia italiana era identificato nella produzione di spumanti, una tipologia di vini che si sarebbe affermata con successo negli anni successivi. Sul finire del 1800, Carlo Gancia a Canelli (AT), si segnala per la spumantizzazione del Moscato Bianco, un vino che ottenne subito un grande successo sui mercati internazionali, sino a diventare il vino aromatico spumante più diffuso nel mondo. Già sul finire del 1700, il Moscato Bianco si era distinto come elemento fondamentale per la produzione di un altro vino che fece epoca, il Vermouth. Il vero «Vermouth di Torino», il migliore, il più pregiato, doveva essere preparato a partire dal Moscato di Canelli. Sul finire dell’Ottocento, al culmine dell’epoca Liberty, erano già realtà affermate diverse storiche case produttrici. Per la preparazione di questo «vino aromatizzato» ogni ditta puntava sulla combinazione di diversi ingredienti, che consentivano di ottenere un’ottima armonia fra il vino base e i diversi ingredienti aromatici. Per ottenere profumi, aromi e sapori, si utilizzava in modo particolare l’assenzio. Da notare che Vermouth è il nome tedesco dell’assenzio. Altre sostanze utilizzate erano l’achillea, il dittamo, la centaurea minore, il cardo santo, il camedrio, la salvia, il sambuco e insieme a queste piante officinali, la cannella, l’issopo, la radice di angelica, di galanga, di genziana e la buccia d’arancia. Il fenomeno Vermouth con la sua ampiezza fu senza dubbio uno dei pilastri dell’industrializzazione enologica piemontese.


    Fendant Châtroz

    Il Fendant (vitigno Chasselas) rappresenta più del 30 per cento del vigneto Vallesano. Il suo nome deriverebbe dalla particolarità dei suoi acini maturi, dove buccia e polpa si fondono insieme sotto la pressione delle dita senza che il succo defluisca. Vino simbolo del Vallese, il Fendant è per eccellenza il vino d’aperitivo e dell’accoglienza. Molto sensibile all’impronta del territorio, il Fendant ci lusinga con i suoi sottili aromi come quello dello Châtroz, proveniente da vigne terrazzate a ovest di Sion, che godono di un clima meridionale e ben ventilato, i ceppi crescono su terreni calcarei, regalandoci un vino ricco di note minerali, dal gusto morbido, che nelle grandi annate, magari un po’ invecchiato, ci dona note di miele e noci. Accompagna molto bene i piatti della tradizione Vallesana, carne secca, crauti e in questo mese, dove si sta volentieri davanti al camino acceso, vi invitiamo a ripristinare il caquelon per le vostre fondue, la raclette e tutti i piatti a base di formaggio.

     

    / Davide Comoli

  • I vini delle Côtes du Rhône

    Bacco giramondo – Poche sono le regioni di Francia che possiedono una tradizione vitivinicola così importante come quella della Valle del Rodano.

    Furono i Focesi, arrivati dalla Grecia, che dopo aver fondato la città di Marsiglia (nel 600 a.C.), a portare l’arte della potatura sui ceppi di vite selvatica che abbondavano nella regione. E nel I sec. a.C. le popolazioni di Celti Allobrogi, che vivevano nella parte nord del fiume Rodano, ottennero il permesso dai loro alleati Romani e il diritto di coltivare la vigna. Furono creati così i primi vigneti nei pressi di Vienne (71 a.C.) che presto divennero famosi anche a Roma.

    Durante il Medioevo, il vigneto della Valle del Rodano conobbe un periodo difficile, causa la potenza dei conti di Borgogna, che volevano essere gli unici fornitori dei ricchi mercati parigini e del nord Europa. Infatti dal XIV al XVI sec. i Borgognoni impedirono la libera circolazione dei vini del Rodano, instaurando diritti doganali molto alti e impedendo il diritto di navigazione sulla Saona, che era l’unica via di trasporto. È comunque nel 1316 che il secondo Papa di Avignone (Giovanni XXII), crea il famoso vigneto di Châteauneuf-du-Pape.

    Nei 200 km che separano Vienne da Avignone, il fiume Rodano scorre modellando gole e vallate. Da Vienne a Valence, le vigne coprono il lato destro del fiume, toccando dipartimenti delle Côtes du Rhône, della Loira, dell’Ardèche. Sulla sponda sinistra le vigne occupano le scoscese rive intorno a Tain l’Hermitage, caratterizzate da un suolo granitico e da un clima continentale.

    Da Livron a Montélimar, le vigne cedono il posto ad altre coltivazioni, per poi allargarsi di nuovo nei dipartimenti dell’Ardèche e Gard, sulla sinistra nel basso Drôme e il sud della Vaucluse. Qui le vigne crescono su terreni di origine calcarea, ricoperti da materiale alluvionale, il clima è molto secco e caldo.

    La scelta dei vitigni (ben 21 possono entrare nella composizione, non tutti insieme, della A.O.C. Côtes du Rhône) non è fatta a caso. Le condizioni climatiche e la composizione del suolo condizionano il loro impianto. Ogni vitigno apporta le sue qualità e associato agli altri si ottengono vini molto armonici.

    Grenache Noir, di origine spagnola, è il vitigno rosso principe dopo la distruzione del vigneto del Rodano da parte della filossera nel XIX sec.: resiste bene al vento (il famoso Mistral è un fattore da prendere in considerazione) e alla mancanza d’acqua; la Grenache è la base per i rossi delle Côtes meridionale e per certi vini rosati molto fruttati; il Syrah unico vitigno rosso nelle Appellations Locales (Crus) delle Côtes du Rhône settentrionali, grazie alla sua ricchezza aromatica e la sua intensa colorazione, viene usato sempre di più anche nelle Côtes meridionali.

    Ogni volta che viaggiamo in questi luoghi, cerchiamo sempre di trovare del tempo per sostare, magari verso sera, accanto alla piccola cappella che si trova in cima alla collina dell’Hermitage, alla fine di una strada sconnessa. Confessiamo che non è anelito religioso che ci spinge fin lassù, benché il luogo porti alla meditazione. Il vigneto della «Chapelle» non è solo uno dei più rinomati, ma anche uno dei meglio esposti che noi conosciamo. La vista sinuosa del fiume sottostante è spettacolare e il Syrah (Hermitage) è uno di quei vini da non perdere nella vita.

    Mourvèdre è un vitigno molto esigente di luce e calore, soprattutto nel periodo di maturazione, è coltivato nelle zone meridionali. Ha un regolare bisogno d’acqua ed è sensibile al vento. Possiede eccellenti tannini e un particolare potere antiossidante: vinificato in rosato prolunga la freschezza ed esalta i profumi.

    Tra i vitigni principali bianchi ricordiamo: Grenache Blanc che ci dà vini robusti con poca acidità; Clairette Blanc usata nello Châteauneuf-du-Pape vinificato in bianco, ama i suoli pietrosi, magri, secchi e caldi; Marsanne, coltivato a settentrione delle Côtes du Rhône, su terreni poco fertili: i suoi aromi floreali e di nocciole si sviluppano con l’invecchiamento, molto usato negli assemblaggi; Roussane, vitigno delicato e di grande finezza, dona vini eleganti, fini e complessi che sviluppano profumi floreali di caprifoglio e iris; Bourboulenc, coltivato solo nel settore meridionale, dona dei vini da bersi giovani, leggeri di alcol; Viognier (da provare il Château Grillet) ci dà dei vini caldi di alcol, morbidi che da giovani hanno profumi di muschio, pesche, ma soprattutto albicocche.

    Sul fiume di Drôme che sfocia un po’ a sud di Valence, troviamo la città di Die. È il centro di una piccola regione viticola nella quale viene prodotto con i vitigni Clairette e Muscat à petits grains la Clairette de Die Tradition: è uno spumante gradevole, risultato da una trasformazione naturale che comporta una seconda rifermentazione in bottiglia (méthode Ancestrale). Le Côtes du Rhône meridionali producono anche due vini dolci naturali: il più celebre è senza dubbio il Muscat di Beaumes-de-Venise (21% di alcol). A Rasteau si produce invece un Vin Doux Naturel, a base di Grenache con uve provenienti da viti centenarie: anche questo molto caldo di alcol, da provare con il cioccolato fondente.

    Come detto, molti altri vitigni sono autorizzati nelle A.O.C. Côtes du Rhône. Essi possono essere utilizzati in proporzioni variabili al fine di arricchire di struttura, aromi, tannini, acidità e colore i vari assemblaggi. Citiamo tra gli altri i rossi: Carignan, Cinsault, Courtoise, Muscardin, Vaccarese, Tenret, Calitor, Gamay, Pinot Noir, tra i bianchi il Picpoul bianco e rosso, Ugni Blanc, Mouzac, la Grenache Gris e la Clairette Rose, riservati per l’elaborazione di vini rosati.

    Provate un Châteauneuf-du-Pape rosso: può infatti provenire dall’assemblaggio di ben 13 vitigni diversi, ognuno dei quali apporta al vino una delle sue peculiarità.

    Casa Coste Piane
    Anno nuovo, bere qualcosa di nuovo, questo è il consiglio che ci permettiamo di proporvi: il Casa Coste Piane è un Prosecco (vitigno Glera), prodotto in uno splendido lembo della Marca Trevigiana, in piena armonia con la natura che la circonda.

    Loris Follador, il produttore, sente un rapporto profondo con ciò che lo circonda e che lo porta a rifiutare totalmente l’utilizzo della chimica, addirittura rifiuta l’uso del trattore nel vigneto per non comprimere il terreno. Per lui non esistono concimazione e diserbi, i tagli dell’erba sono fatti con la falce e arricchisce il terreno con il rovescio, utilizzando preparati biodinamici, rendendo i ceppi più attivi nel ricevere dalla terra le sue sostanze e l’energia dal cielo.

    Non viene usato nessun lievito attivante o enzima, ma fermenta in modo naturale in bottiglia «Sur Lie». Questo Prosecco ci emoziona per la sottile ricchezza olfattiva, note floreali, trovano nella polpa della frutta il deciso richiamo degli acini dell’uva. È un vino da bere (e assolutamente da provare) a tutto pasto, ottimo aperitivo e per uno spuntino ru-stico.

     

     

    /Davide Comoli

  • La nascita della microbiologia

    Vino nella storia. Louis Pasteur, dalla sterilizzazione dell’alcol al latte pastorizzato.

    A convincere Louis Pasteur (1822-1895) ad occuparsi della malattia del vino francese che guastava i pregiati prodotti d’Oltralpe, mutandone il sapore rendendoli amari o insipidi, fu l’imperatore Napoleone III, attraverso il suo aiuto di campo Idelphonse Favé, che gli scrisse: «L’imperatore è fermamente convinto che sarebbe di grandissima importanza volgere la vostra attenzione in questa direzione… » Oggi, dopo più di un secolo dalla sua scomparsa, la vita di Pasteur va letta con cautela. Non va dimenticato che fino alla metà degli anni Settanta, i documenti disponibili sull’attività personale di Pasteur e in modo particolare i suoi «Cahiers de laboratoire», conservati presso la Biblioteca nazionale francese a Parigi, non erano disponibili.

    Nel 1858, infatti, l’allora 55enne Pasteur diede disposizioni precise ai propri familiari, ordinando loro di conservare gelosamente le sue ricerche, senza mai renderle pubbliche, neppure dopo la sua morte. Pasteur, professava un senso dell’ordine quasi militare e l’occuparsi dello studio delle malattie infettive umane lo portò a scoprire importanti principi di asepsi. Nella sua famosa Memoria sulla fermentazione alcolica (1860) egli riuscì a dimostrare la vitalità del lievito, a coltivarlo e riconoscerlo come responsabile della fermentazione. Il passo dai lieviti ai batteri fu breve e avvenne quasi per caso. Grazie a ciò Pasteur (con altri) pose le basi per una disciplina scientifica: la biologia. M a torniamo sui nostri passi. Pasteur si sentì obbligato ad accettare; ammirava la coppia imperiale, ma soprattutto aveva un grande amor patrio ereditato dal padre ex soldato di Napoleone e vissuto nel mito dell’Imperatore. «Patriottismo innanzitutto» erano le parole spesso ripetute dal genitore. Fu così che Pasteur si sentì spinto con orgoglio a percorrere questa nuova strada senza alcun aiuto finanziario: «Mi sia concesso usare il mio modesto compenso di membro dell’Accademia» disse allo stupito Favé.

    Come già era successo nel passato, lo scienziato diventò il paladino a salvaguardia degli interessi economici della madrepatria, che nell’industria del vino aveva uno dei pilastri più solidi e rinomati della sua economia. In quel periodo (1850), infatti, la Francia contava una superficie vinicola di ben due milioni di ettari, e il consumo sempre più diffuso della bevanda sacra a Bacco aveva portato i contadini a incrementare la produzione, senza però avere delle basi per poter capire come produrre vini di buona qualità. Visitando alcuni vinificatori, Pasteur ben presto comprese il misero stato in cui versava la produzione vinicola: «Non c’è singolo vinaio in Francia, ricco o povero, il cui vino, almeno in parte non abbia sofferto di un’alterazione più o meno grave», scrisse.

    Avendo le idee molto chiare, comprese subito che i responsabili dei danni erano i microbi, per cui si mise a indagare sull’allora complicato processo tra fermentazione e zuccheri e soprattutto sulle caratteristiche organolettiche dei vini. Per meglio condurre le sue ricerche, acquistò una piccola vigna vicino ad Arbois e incominciò a produrre vino in maniera molto scientifica fino ad arrivare a scrivere la famosissima frase: «Il vino può essere considerato la bevanda più salutare e più igienica». È certo che durante le sue ricerche, Pasteur non sdegnava qualche buon bicchiere di vino. Si accorse subito che il vino era colpito da diverse malattie. La prima identificata fu l’acetificazione, dovuta a un fungo micoderma responsabile della fermentazione all’aria; la seconda, l’alterazione per cui il vino assumeva un aspetto oleoso, e anche in questo caso Pasteur identificò la causa in un fungo. C’era poi il vino che sapeva di vecchio e assumeva un gusto amaro, e ancora una volta il responsabile fu identificato in un parassita. Ovunque cercasse, la causa era riconducibile a esseri microscopici.

    Occorreva quindi trovare il modo di evitare queste contaminazioni di microbi, per cui bisognava studiare il ruolo che aveva l’aria sui vini. L’esperienza dei contadini dimostrava che l’aria era un nemico del vino, da ciò Pasteur studiò il rapporto tra ossigeno e fermentazione. Provò a imbottigliare, privandolo completamente dell’aria, un suo vino di Arbois, e scoprì che il vino rimaneva giovane anche dopo un anno. Sottrarre l’aria al vino poteva essere dunque un modo per conservarlo anche se era un sistema poco pratico per risolvere il problema della sua commercializzazione su lunghe distanze. L’esperienza gli suggerì due vie diverse per vincere la nefasta azione dei microbi. La prima fu quella di raffreddare il vino, la seconda, di scaldarlo. Il contributo di Pasteur fu proprio quello di aver individuato nel calore l’arma per sconfiggere i germi, e poter avere dunque vini senza alterazioni e più longevi. Pasteur stabilì i punti saldi del sistema: scaldare il vino in assenza d’ossigeno per pochi minuti tra i 60 e i 100 gradi centigradi.

    In seguito si assunse la paternità chiamandolo con poca modestia «pastorizzazione». Ciò che scatenò ira e critiche dei suoi avversari, i quali affermavano che la paternità del metodo andava a Nicolas Appert, l’inventore delle conserve, e ad Alfred de Lamotte, il quale aveva proposto prima di Pasteur, il calore per la conservazione del vino. Lo stesso scienziato chiese che fosse istituita una commissione per stabilire primo, la sua paternità e, secondo, la validità del suo metodo. Il successo fu completo e il suo metodo venne adottato in molti Stati, con grande soddisfazione dei produttori. Alla fine del 1800, questo metodo fu quasi del tutto abbandonato nella produzione del vino, perché un parassita proveniente dalle Americhe aveva incominciato ad apparire nei vigneti d’Europa, e contro questa piaga si dovette ricorrere ad altre armi. In ogni caso, quando al mattino beviamo a colazione il nostro latte pastorizzato, senza correre il rischio d’ingerire microbi patogeni grazie al procedimento di sterilizzazione inventato da Pasteur, facciamogli un pensierino, anche se in realtà egli non si è mai occupato di latte.

    La Galeisa (Moscato)
    Panettone, pandolce, pandoro, panpepato, rappresentano festosi simboli del dolce Natale. Con i classici biscotti, a questi dolci s’affida l’onere di chiudere i pranzi dei giorni di festa. L’Azienda Agricola «Caudrina» sulle colline di Castiglione Tinella (CN), produce un Moscato d’Asti dalla gradazione alcolica particolarmente bassa e piacevolmente dolce.

    Con il suo colore paglierino sfumato e il suo fine perlage, i suoi profumi di uva al muschio, frutta bianca come le pesche e le pere, questo vino ci ammalia immediatamente per la sua impareggiabile piacevolezza. Gli aromi tipici del Moscato sono mantenuti integri e freschi dalla sapiente vinificazione della famiglia Dogliotti.

    Ottimo a fine pasto con i dolci sopracitati, con lo strudel di mele, crostate di frutta dolce, dolci alla crema. Va sempre servito tra i 7/8 gradi e può essere un’alternativa agli aperitivi semi-alcolici oggi molto in voga.

     

    / Davide Comoli

  • I vitigni di Andalusia e Canarie

    Bacco giramondo – I vini di Jerez, Malaga, Huelva e Cordoba sono unici, e portano al mondo dei vini spagnoli qualcosa di particolare.

    Circa 3000 anni or sono i navigatori Fenici fondarono l’attuale Cadice e acclimatarono i primi ceppi di vite, ma furono in seguito i Greci a incominciare veramente a occuparsi di viticoltura e a introdurre la «potatura» delle vigne.

    A dispetto delle idee che si hanno sul clima a sud della Spagna, completamente errate, in questa regione piove molto in primavera e in inverno, soprattutto lungo la costa. È soprattutto in prossimità del mare e del monte Grazalema, vicino a Cadice, che troviamo la regione più bagnata di tutta la Spagna. Un altro record di questa regione è appannaggio di Jerez e Sanlúcar de Barrameda, dove più di tremila ore annue di sole fanno di questa regione la più (alle volte) soleggiata al mondo.

    L’Andalusia è un mondo viticolo a parte, conosciuta superficialmente anche dagli stessi spagnoli, possiamo solo dire che i vini di Jerez, Malaga, Huelva e Cordoba sono unici, e portano al mondo dei vini spagnoli qualcosa di particolare.

    I vini delle quattro D.O. sopracitate non sono uguali, anche se li possiamo mettere nella stessa categoria, sono vini che possiedono un alto grado alcolico ottenuto o con la fermentazione naturale o acquisito attraverso l’aggiunta di alcol.

    In questo modo spesso vengono usati come aperitivo, ma anche a fine pasto; altri come i Finos e i Manzanilla, invece, accompagnano molto bene le specialità andaluse, mettendole in evidenza: i frutti di mare grigliati e fritti, le famose tapas e non dimentichiamo i famosi prosciutti spagnoli.

    Purtroppo i dolci vini prodotti a Malaga e Montilla-Moriles non godono dell’attenzione che meritano. Tuttavia va detto che nel 1850 la provincia di Malaga era addirittura la seconda regione viticola spagnola. Oggi la superficie viticola si è molto ridotta, causa la speculazione edilizia causata dal turismo di massa. Due sono le tipologie di vino di Malaga che vengono prodotte: il Dulce natural o più semplicemente Malaga deve contenere almeno 300 grammi di zucchero residuo e 13% vol. d’alcol svolto. I vitigni con cui è prodotto sono quelli del Pedro Ximénez con delle piccole percentuali di Moscatel.

    Il Malaga classico non è costituito dal semplice mosto (spesso, aromatico, concentrato), ma di una concentrazione di mosto (arrope) e vino prodotto con uve seccate al sole (vino tierno) con un procedimento che ogni produttore cela gelosamente; si sa però che essi aggiungono ai loro vini una piccola percentuale di alcol etilico fino a portarli a 15% vol.

    Le molteplici indicazioni che appaiono sulle etichette del vino di Malaga sono dovute a un mercante tedesco. In effetti furono i tedeschi a dominare per un lungo tempo il commercio di questa tipologia di vino. Potete quindi trovare: il Malaga seco, il Dulce, il Pálido, l’Oscuro, Añejo, il Demi-sec e il Lágrima, che designa il succo che cola dal mosto (il migliore!).

    Il vino di Malaga diventò famoso alle nostre latitudini nel 1492, quando al soglio di S. Pietro fu eletto (il molto discusso) cardinale Rodrigo Borgia con il nome di Alessandro VI. Ettolitri di vino di Malaga, luogo d’origine del pontefice, furono serviti nelle (poco cattoliche) stanze vaticane. Dei vini di Montilla-Moriles e di Jerez, parleremo a parte prossimamente nella rubrica Vino nella storia.

    Le vigne delle Isole Canarie, 11’400 ettari vitati, presentarono numerose particolarità. I rendimenti sono ancora minori che sul continente, così come sono atipici i sistemi di coltivazione.

    Sulle sette isole, la tradizione vinicola risale solo al XV secolo, dopo la conquista spagnola. I primi vitigni furono portati dai nuovi venuti e sono i vitigni tradizionali spagnoli, ma troviamo tracce anche di vitigni portoghesi. In quel periodo, il gusto britannico impose la coltivazione di vini dolci e pesanti, prodotti con i vitigni Malvasia e Moscatel. Questi vini erano molto ricercati nelle principali corti europee, il «Canary sack» era spedito in tutta Europa via mare. A contribuire alla sua fama fu la celebre opera di William Shakespeare, l’Enrico IV dove Falstaff è soprannominato sir John Canaries, in ragione del forte consumo proveniente dalle suddette isole.

    Nel 1980, la grande massa di turisti aumentò la domanda di vino. Per contrastare il massiccio requisito di vino a buon mercato proveniente dal continente spagnolo, nel 1992-1996 sono state create delle D.O., così da potersi inserire anche in un’altra parte di mercato: grazie alla loro particolare eleganza ed espressività, questi ultimi vini sono venduti a prezzi un po’ più alti. Trentatré sono i vitigni protetti nelle isole, dei quali 19 a bacca bianca e 14 a bacca rossa.

    In generale i vini bianchi hanno più personalità dei rossi, citiamo ad esempio il Vino del Tea prodotto a nord di La Palma, invecchiato in botti di pino; e sono assolutamente da non perdere i vini di Lanzarote, nota per i suoi caratteristici vigneti ad alberello, coltivati in piccole depressioni del terreno per proteggerli dal calore e dal vento (da provare, unica al mondo la Malvasia Bodega El Grifo). E infine non perdete i vini rosati, che non sono vinelli popolari, ma ottimi compagni con le zuppe di pesce.

    Château Doisy-Daëne
    Barsac è situata sulla sponda sinistra della Garonna, a nord-ovest di Sauternes, separate dal piccolo torrente Ciron.
    L’autunno porta delle nebbie mattutine che vengono disperse da un forte soleggiamento pomeridiano, clima dunque molto favorevole allo sviluppo della Botrytis cinerea, il famoso fungo (muffa nobile), che permette di produrre i grandi vini bianchi liquorosi, rinomati per la loro complessità.

    Doisy-Daëne è prodotto con uve Semillon in maggioranza, Sauvignon Blanc e Muscadelle, che maturano su un suolo argillo-calcareo ricco di ghiaia. È un prodotto fine ed elegante che, nel colore, con l’andar del tempo, evoca le tinte dell’ambra.

    Al naso è un’esplosione di profumi (vale la pena soffermarsi a goderne), pesca, frutti esotici, miele, albicocche secche, marmellata d’arance e brioches fresche. Il bouquet intenso di questo vino ve lo ritroverete in bocca con un finale fresco e lungo, può invecchiare più di vent’anni.

    Classico l’abbinamento con il fegato d’oca e la frutta secca che si porta in tavola il giorno di Natale, la famosa Tarte Tatin e i grandi formaggi erborinati a partire dal Roquefort.

    /Davide Comoli 

  • Le Accademie al servizio della viticoltura

    Vino nella storia – Alcune istituzioni della cultura si sono occupate anche di enologia, in modo molto serio.

    A Firenze ha sede la storica Accademia dei Georgofili, istituzione fondata nel 1753 e conosciuta in campo internazionale come uno degli organismi più prestigiosi per lo studio delle scienze e della loro applicazione in agricoltura. La viticoltura e tutto ciò che a questo ramo dell’agricoltura è legato, fu oggetto di molti studi da parte dell’Accademia nel corso dei secoli.

    Si cercò innanzitutto di mettere ordine fra le pratiche tradizionalmente attuate, a partire dalla potatura, al tipo di tutori da usare, alla concimazione, alle varie patologie della vite, in modo da stabilirne l’efficacia, di incoraggiare possibili innovazioni con scelte ponderate. Per esempio in Toscana, alla fine del ’700 le operazioni di potatura delle viti, pur avendo condizioni climatiche simili, si effettuavano in stagioni diverse. C’era chi potava in primavera, chi in autunno, altri ancora preferivano l’inverno. Nel 1799, l’Accademia mise al lavoro gli esperti ai quali si poneva questo quesito: «determinare con l’aiuto della ragione e dei fatti se per questa operazione sia preferibile una stagione all’altra».

    In quell’epoca era piuttosto diffusa l’abitudine di potare subito dopo la vendemmia, essendo i contadini piuttosto liberi da altri grossi lavori. Questo modus operandi, venne respinto dai Georgofili che suggerirono invece di eseguire questa operazione poco prima dell’inverno o all’inizio della primavera vale a dire in periodi in cui la fase vegetativa della pianta era rallentata.

    Un altro quesito piuttosto importante fu proposto nel 1820. Questa volta gli esperti furono chiamati a dare una risposta sul sistema di allevamento della vite. La domanda formulata era questa: «considerata la differenza dei terreni, del clima e da altre varie situazioni, era da preferirsi l’appoggio del palo o dei pioppi (sistema allora molto in uso in Toscana)?».

    Fra le ricerche la premiata fu quella presentata da S.B. Guarducci. Dopo tre anni di ricerche l’autore si dichiarava: «favorevole ai vigneti coltivati al pioppo per il raccolto più abbondante, il risparmio nell’acquisto dei pali, il minore impiego di manodopera, i danni più lievi per eventuali gelate primaverili, nebbie e piogge prolungate».

    Molti furono all’inizio dell’800 da parte dell’Accademia gli studi condotti su quale fossero i migliori sistemi per concimare le viti. Furono messi in evidenza l’importanza degli urati (sale e esteri dell’acido urico) e di elementi come le ceneri di pampini, vinacce e tralci che lasciavano potassio nel terreno.

    I dibattiti inerenti ai progressi e miglioramenti della viticoltura si estesero anche a fondamentali questioni riguardanti le qualità dei vini. Un certo A. Perrin, proprietario terriero a Valdarno Superiore, scriveva in un articolo la sua insoddisfazione sull’andamento della viticoltura toscana e ne individuava le cause principali: «cattiva scelta dei vitigni, eccessivo numero di varietà coltivate, viti tenute troppo alte da terra e da ultimo una scelta sbagliata dei luoghi d’impianto». A parer suo le varietà migliori erano: Sangiovese, Cannaiolo e Maruga.

    Nel Cannaiolo individuava il vitigno con cui si potevano uguagliare i vini di Bordeaux e Borgogna grazie alla sua potenzialità. Un altro uso che rimproverava era quello di usare il terreno e produrre insieme olio, grano e vino. «Diverse erano le esigenze di coltivazione»: diceva il Perrin. Ad esempio le arature profonde, necessarie per la coltivazione del grano, erano deleterie per le radici della vite. Inoltre, ognuna di queste coltivazioni esigeva cure particolari a tempo e debito e alle volte le esigenze dell’una o dell’altra coltivazione si sovrapponevano, ed il contadino si vedeva costretto a trascurare qualcosa. La conseguenza di questo stato di cose faceva sì che dalle grandi coltivazioni di vini della pianura si riempissero i tini di vini cattivi e nello stesso tempo non ci fosse sufficiente produzione di grano. Il Perrin concludeva il suo articolo con questa affermazione: «solo nel piano il grano, solo in collina le viti».

    Nel 1842, Cosimo Ridolfi, allora presidente dell’Accademia dei Georgofili, compose una raccolta di 55 regole che considerava molto importanti per la viticoltura, nella stesura di questi principi fu aiutato dall’agronomo Don Jacopo Ricci. Le regole incitano a: «quanto è più utile coltivar bene che molto». I consigli di Ridolfi invitavano ad un’opera di selezione dei vitigni che doveva essere molto oculata, da operare contrassegnando le viti che reggevano meglio le uve nelle annate nebbiose e quelle che meglio resistevano al freddo: «per togliere sempre da queste i magliuoli (talee della vite, ndr)» scriveva. Si doveva vendemmiare al momento della perfetta maturazione. La vinificazione doveva essere accurata, effettuata in cantine con precise caratteristiche, di esposizione, profondità, umidità e luminosità. I procedimenti volti a migliorare la qualità del vino non dovevano far dimenticare che era prima di tutto necessario curare la vite e la scelta del vitigno.

    Quando: l’Oidium tuckery (oidio) iniziò a propagandarsi e ad infestare le viti, l’Accademia dei Georgofili diventò un centro di studi e di dati su questa malattia della vite. Nel 1851 Cosimo Ridolfi presentò una tempestiva sintesi dei risultati dei primi lavori, pur non essendo stata individuata con certezza la causa della malattia. Ma delle forti epidemie e virosi che colpirono la vite nel 1800 e che hanno influenzato l’evoluzione della viticoltura europea parleremo nei prossimi numeri della rubrica.

    Vin da ca’ Sfursat
    Ottenuto dai migliori grappoli di Chiavennasca 70% minimo (Nebbiolo) coltivate nelle vigne parallele al crinale alpino, prevalentemente sul lato destro del fiume Adda, le uve vengono lasciate ad appassire per 3 mesi su appositi graticci in locali ben areati nelle cantine di Casa Plozza a Tirano. Qui l’uva perde ca. ¼ del suo peso originario, dopo la vinificazione il vino riposa per ben 5 anni in botti di castagno di 50 hl e in barrique di secondo passaggio.

    Lo Sfursat è un vino di grande struttura, dall’elevato tenore alcolico (14° minimo), le fragranze di fiori (rose appassite), di erbe, tipiche del Nebbiolo, sono più che evidenti in questo vino dal colore tra il rubino e l’arancio tipico di certi crepuscoli, che con l’età ha sviluppato sentori di mandorla, nocciola ed accentuata morbidezza che lo rende ideale con la selvaggina (cervo in particolare), servito con la polenta (assolutamente da non perdere la celebre polenta taragna), piatto completo, ma da non disdegnare se accompagna delle salsicce fresche bollite o preziosi formaggi d’alpe stagionati.

    /Davide Comoli

  • La Mancha e i suoi vini

    Bacco Giramondo – Continua il viaggio in terra iberica per conoscere le varietà enologiche più pregiate di una regione dalla grande tradizione.

    La regione centrale della Castiglia – La Mancha (o Nuova Castiglia), è la più vasta regione viticola a livello mondiale. Raggruppa 8 D.O.: Méntrida, Mondéjar, Madrid, La Mancha, Manchuela, Ribera del Jùcar, Valdepeñas e Almansa. Queste zone producono un’impressionante quantità di vino da tavola, infatti più della metà dei vini comuni spagnoli sono qui prodotti, si parla di circa (secondo gli anni) 15-20 milioni di ettolitri.

    La Mancha, con l’eccezione di qualche vino degno di essere rimarcato, prodotto con i vitigni a bacca rossa Tempranillo e Cencibel, che coprono a malapena un quarto dell’immenso territorio vitato (500’000 km!) è caratterizzata dalla coltivazione di un vitigno bianco locale, l’Airén Blanco, che guarda caso è anche il vitigno a bacca bianca più coltivato al mondo. La ragione è data dalla resistenza di questo vitigno a condizioni estreme. Infatti questa regione si trova su di un altopiano con un clima secco e caldo in estate e molto freddo in inverno. Anche il suo inserimento nel quadro ampelografico della regione se vogliamo non è di antica data: fu infatti per le ragioni sopracitate messo a dimora dopo la distruzione totale del vigneto locale da parte dell’attacco fillosserico, in modo da salvare il territorio dalla desertificazione, ma in ogni caso l’Airén produce vini abbastanza mediocri. I pochi rossi di spessore che abbiamo provato sono poco freschi d’acidità, caldi di alcool e dove vengono percepiti in modo rimarchevole i sentori minerali dati dal terreno.

    La D.O. Ribera del Jùcar produce, con i suoi 700 m s/m e con suoli pietrosi, dei rossi equilibrati con i vitigni locali, ma sempre di più legati all’aiuto del Merlot e del Cabernet Sauvignon. La maggior parte dei 4’000 ettari vitati della regione di Mondéjar è invece formata da vigneti dove prospera un vitigno bianco locale, il Malvar Bianco.

    La Valdepeñas occupa la parte meridionale della Mancha, la D.O. copre quasi 500 km di vigne, la città che dà il nome alla regione, occupa il centro di una larga valle, sul fondo della quale si elevano i primi contrafforti della Sierra Morena. In castigliano val de peñas significa «valle delle rocce».

    I vini di questa zona hanno conosciuto il loro momento di gloria alla fine del XIX sec., quando il mercato del vino aveva incominciato a guadagnare importanza a Madrid e le due città furono collegate da una ferrovia che quotidianamente trasportava 3’000 otri di vino nella capitale. Oggi le «bodegas» si sono modernizzate, ma si trovano ancora le gigantesche «tinajas» di cemento, usate per stoccare il vino. La maggior parte dei rossi prodotti con il vitigno Cencibel, che matura molto bene sotto l’impietoso sole della Mancha del sud, viene elevato in barriques di legno americano e, grazie al clima, i millesimi sono di qualità abbastanza stabili e le varie «Crianzas», le «Reservas» e le «Gran Reservas» sono richieste anche all’estero, mentre i vini giovani vengono venduti nei numerosi caffè e tapas di Madrid.

    Nella regione del Levante, Valencia con i suoi 17’000 ettari, produce quasi esclusivamente vini bianchi di bassa qualità con i vitigni Moscatel e Merseguera. Sono vini che devono essere bevuti giovani; tra loro si contraddistinguono alcuni vini liquorosi, sempre prodotti con i vitigni sopracitati, pochi i rossi prodotti con il Bobal ed il Monastrell. Ad ovest della sottozona Moscatel de Valencia troviamo, con i suoi 40’000 ettari vitati, la D.O. Utiel-Requena. Il vitigno dominante è il Bobal e piccole quantità di Macabeo (bianco). Qui i viticoltori pensano di più alla quantità che alla qualità. Le gelate arrivano presto in queste zone, quindi si vendemmia anticipatamente: non bisogna meravigliarsi se i rossi prodotti dal Bobal con uve povere di tannini, non possono essere tenute a lungo nelle barriques.

    La D.O. Alicante è concentrata sui vitigni Moscatel e Monastrell, dai quali si ottengono vini rosati e rossi da bere giovani. Interessante è la produzione del Vino Licor Moscatel e del Fondillón, una specie di Porto, ottenuto con Monastrell e Garnacha, da provare con il Ponche dolce (uova sbattute, riso, latte caldo, zucchero e cannella).

    La regione autonoma della Murcia è poco piovosa e caldissima, confinante con il Levante. Qui troviamo 3 zone che negli ultimi anni si sono fatte ben conoscere: Bullas, Jumilla e Yecla. Siamo nel regno del vitigno Monastrell, conosciuto in Francia con il nome di Mourvèdre, coltivato su più di 100’000 ettari in Spagna. Molti amano i vini prodotti con questo vitigno dagli acini piccoli e la buccia spessa, dai forti tannini e un gusto un po’ rustico che troviamo nei vini giovani prodotti il più delle volte con la macerazione carbonica, ben tollerata dal Monastrell.

    La zona di Jumilla è in grandissima crescita. Qui i molti vigneti risalgono ad epoca prefilossera. Dalla fine degli anni 80 si sono installate in questa zona un paio di grosse aziende francesi che hanno incominciato a produrre dei rossi con le uve che crescono su suoli aridi e calcarei. In effetti hanno ottenuto risultati sorprendenti con il Monastrell vendemmiato in anticipo e grazie alla perfetta maturità delle uve determinata dal sole che qui regna ed impera. Si hanno così dei vini fini, eleganti, dai profumi di frutta rossa ben percettibili. Anche lo Syrah, portato dalla Côtes du Rhône, si è acclimatato con successo sui pianori spelacchiati e ripidi.

    Ottimi sono gli assemblaggi del Monastrell con il Cabernet Sauvignon e il Merlot.

    Yecla è la sola regione viticola spagnola confinata in un solo comune. Intorno alla città 20’000 ettari sono vignati con vecchi ceppi indigeni. Troviamo ancora dei ceppi a «pied franc», cioè risparmiati dalla filossera. Il clima molto secco, il suolo molto povero e le montagne che lo separano dalla costa e dal nord ha infatti impedito l’invasione di questo parassita. Questo permette ai ceppi di Garnacha e Monastrell di sviluppare le loro caratteristiche meglio che sui ceppi innestati.

    Nobile Montepulciano Carpineto Riserva
    Il vino Nobile Montepulciano è prodotto con il 70 per cento minimo di Sangiovese (qui in loco chiamato «Prugnolo Gentile») e in quantità minore di Canaiolo Nero.

    I vini prodotti in questo piccolo comune sono apprezzati da lungo tempo. Erano amati da A. Dumas che ricorda questo vino nel suo Conte di Montecristo, da Voltaire che lo fa lodare nel suo Candide e da Thomas Jefferson che lo introdusse alla Casa Bianca.

    Il termine «Nobile» fu aggiunto a questo vino nel XVII secolo per indicare l’eccezionale qualità del prodotto, ritenuto adatto ai «nobili» che potevano pagare un prezzo più alto. La menzione «Riserva» che troviamo sull’etichetta, viene attribuita ai vini che siano stati sottoposti ad un invecchiamento, compreso l’eventuale affinamento, non inferiore ai due anni.

    Dal colore granata più o meno accentuato e dagli intensi profumi di viola mammola, con tannini vellutati, pieno e generoso, questo vino eccelle sulla classica «Fiorentina», con i piatti a base di cinghiale e soprattutto con gli «stracotti», dove vi ritroverete a far la «scarpetta».

    /Davide Comoli

  • Storia dell’ampelografia

    Il vino nella storia – Una conoscenza tramandata e arricchita tra baroni e conti.

    Il panorama ampelografico della prima metà dell’Ottocento fu segnato da una grande complessità e da molta confusione. In quel periodo era molto difficile destreggiarsi fra i vitigni, i loro nomi, i molti sinonimi locali e i termini dialettali; c’era insomma una grande incertezza che rendeva difficile capire quali fossero i più adattabili alle condizioni pedoclimatiche, quali fossero i più adatti alla vinificazione e quale fosse la loro produttività.

    Fu nel corso dell’800 che, in Europa, ampi studi sulla materia portarono contributi molto importanti all’ampelografia, la disciplina che descrive e classifica i diversi vitigni.

    Non possiamo per spazio citare tutti gli autori di opere sul tema, ma possiamo segnalare le principali opere con i rispettivi responsabili: in Francia, il conte Pierre Odart diede il suo contributo con la Ampélographie Universelle del 1849; Jules Guyot, a partire dal 1861 iniziò a pubblicare gli Etudes des vignobles de France; Victor Pulliat con Mille variétés de vigne, nel 1869, e Le Vignoble scritto a quattro mani con Alphonse Mas nel 1875.

    In Germania due grandi autori di riferimento furono Johann Metzger, il barone Lamber von Bahu e J.L. Stoltz con la sua Ampélographie Rhénane pubblicata nel 1852. Anche in Spagna troviamo grandi trattati sull’argomento; il contributo che ebbe un grande peso in quel periodo fu quello di Simon de Rojas Clemente y Rubio, direttore del Real Jardin botánico di Madrid. Tra le tante opere non va dimenticata però anche quella di un ticinese d.o.c., la gustosa Monografia di don Pietro Vegezzi edita a Lugano, pubblicato dalla tipografia Ajani e Berra nel lontano 1886.

    L’Italia non fu da meno e gli autorevoli studiosi di ampelografia furono molti. Nel 1825 a Milano fu pubblicato il lavoro di Giuseppe Acerbi, contenente anche monografie di altri autori, dal titolo «Dalle viti italiane o sia materia per servire alla classificazione, monografia e sinonimia, preceduti dal tentativo d’una classificazione geoponica delle viti».

    L’Acerbi, professore di botanica e agronomia a Milano, pubblicò anche un apprezzato catalogo con la descrizione e classificazione di una collezione di ceppi di vite che aveva impiantato a Castel Goffredo (in provincia di Mantova).

    In quegli stessi anni, il conte Giorgio Gallesio di Finalborgo (Savona), grande studioso di pomologia e ampelografia, stava realizzando il suo sogno, con l’obiettivo di creare la «Pomona italiana» ovvero «il trattato degli alberi fruttiferi contenente la descrizione delle migliori varietà di frutta coltivati in Italia, con la loro sinonimia e la loro coltura». Si trattò di una grande impresa editoriale che iniziò a Pisa nel 1817 e prese buona parte della vita del conte. Nel 1839, alla morte di Gallesio, l’opera era ancora lontana dall’essere completata. L’estrema cura con cui fu realizzata, l’edizione e le stupende tavole in folio a colori, la resero molto costosa, riservata essenzialmente all’élite. Nella Pomona si trovano raffigurati e descritti anche i loro sinonimi come: Albarola, Barbarossa, Barbera, Bizzarria, Brachetto, Canajola, Canetto, Claretta di Nizza, Colorino, Grovino, Dolcetto, Fuella, Lacrima, Liatica, Marzemina, Moscadella nera, Nebbiolo Canavesano, Piccolito, Pignola, Rossana, Rossese, Salamanna, Sangioveto, Trebbiano, Fiorentino, Vermentino, Vite di tre raccolte l’anno.

    Un contemporaneo di Gallesio fu Giuseppe Giacinto Moris che, nel 1837, pubblicò la Flora Sardoa seu Historia Plantarum con la descrizione di molti vitigni sardi. Anche il marchese Leopoldo Incisa della Rocchetta, nella tenuta di Rocchetta Tanaro (Asti), si dedicò a studiare e collezionare vitigni locali e stranieri. La sua collezione ampelografica era interrata su tre zone: una sul colle di Montebruna, la seconda sul colle del Bricco, la terza in un vaso sino alla fruttificazione.

    Nel 1852 creò un vivaio allo scopo di fornire «barbatelle di buona qualità» ai viticoltori. Le barbatelle venivano consegnate «prospere» e con radici di due anni. Tutte le varietà presenti nel vivaio erano tenute anche in vaso, a disposizione degli studiosi di viticoltura che avessero voluto studiarle.

    Nel 1862 L. Incisa della Rocchetta, pubblicò il suo primo catalogo relativo a 105 varietà di uve. Di ogni tipo descrisse denominazione, caratteri, uso delle uve, terreno ed esposizioni in cui meglio prosperano le rispettive ceppaie. Fra le uve straniere citava: Tokay rosso e bianco, Teinturier, Bordò nero e bianco, Borgogna bianco, Cendrine, Douce Noir, Morillon Noir, Brachetto del Nizzardo, Malaga. C’era in questo catalogo una buona presenza di vitigni siciliani, sardi e in minor misura varietà toscane e dell’Italia meridionale. Il suo secondo catalogo fu pubblicato nel 1869 e contava 375 varietà delle quali molte erano straniere, cioè provenienti da Francia, Svizzera, Spagna, Ungheria, Crimea, Dalmazia, Germania, Cipro, Algeria.

    Leopoldo Incisa era in corrispondenza con l’ibridatore francese Henri Bouchet e l’ampelografo Victor Pulliat, ma pure con il barone Antonio Mendola di Favara (Agrigento). Anche quest’ultimo personaggio creò una ricca collezione di vitigni provenienti dal Sudafrica e dall’Estremo Oriente. Il barone si dedicò anche agli studi su come ottenere nuovi vitigni attraverso la moltiplicazione per seme, purtroppo molti dei suoi scritti sono andati perduti.

    Certamente uno tra i più autorevoli ampelografi del 1800 fu il conte Giuseppe di Rovasenda, che fece arrivare vitigni da tutto il mondo. La sua collezione di vitigni, con 4mila ceppaie, fu considerata la più ricca d’Europa. Il suo: Saggio di ampelografia universale fu pubblicato a Torino nel 1877 e poco dopo venne tradotto in francese da Caralis e Viala. Nel marzo del 1887, il conte Rovasenda venne chiamato a presiedere la prima Commissione centrale ampelografica istituita con Regio decreto.

    Sant’Anna Dolcetto
    Il Dolcetto è il vino ideale per tutti i giorni e tutti i pasti. Il fatto di denominarsi Dolcetto deriva dalla particolare sensazione gradevolmente e intensamente dolce dell’uva che, avendo un limitato tenore acido, appare appunto molto dolce.

    Dolcetta l’uva, dunque, secco il vino come il Sant’Anna DOC, prodotto su due ettari con uve provenienti da viti con oltre 40 anni d’età, sulle colline intorno a Monforte d’Alba.

    Prodotto con il sistema biologico, questo vino simbolo del bere quotidiano delle famiglie contadine di questa zona del Piemonte, dopo una fermentazione naturale con macerazione sulle bucce, riposa per dieci mesi in acciaio e poi in bottiglia per altri due.

    Le uve curate con il massimo rispetto dell’equilibrio ambientale, bandendo tutti i trattamenti chimici e meccanici, ci donano un vino versatile, schietto e semplice, nel colore c’è una prevalenza di fucsia su un profondo rosso rubino, profumi eleganti che possono includere fragranze di bacche rosse mature. È, come dicevamo, un vino d’abbinare ai piatti semplici della cucina tradizionale, ma soprattutto è speciale con i risotti e in particolare con preparazioni di pollame e coniglio.

    / Davide Comoli