Curiosità Archivi - Pagina 10 di 13 - Vinarte
  • Lungo le rotte del vino

    Bacco Giramondo – Un viaggio attraverso il Mediterraneo, seguendo le navi dei coraggiosi mercanti che lo solcavano con il loro carico prezioso – Prima parte

    Parlando di vino, dalle sue origini alla sua evoluzione, della sua conquista di territori, di popoli, non possiamo tralasciare di raccontare oltre che di mercanti, anche di trasporto, di commercio, di porti, ma soprattutto di navi e contenitori.

    Spesso quelle che abbiamo trovato frugando nelle nostre memorie e nelle nostre ricerche, sono cronache fantasiose o incomplete, che narrano di consumi specifici e trasporti via mare tra alcuni popoli antichi abitatori delle coste del Mediterraneo.

    Abbiamo quindi attinto a scritti che si rifanno ad alcuni autori greci e latini classici, tra cui Strabone, Erodoto, Varrone, Plinio e Columella, cercando di redigere una storia del vino e del suo commercio la più credibile possibile, ripercorrendo qualche migliaio di pagine di celebri opere, anche attuali.

    Sono pagine che indicano nel Mediterraneo la culla indiscutibile del commercio e dello scambio tra i popoli, spesso rivali o nemici, protagonisti in modo e tempi diversi della lunga storia del commercio vinicolo.Imbarchiamoci dunque su questa nave e con la fantasia salpiamo attraverso questo mare che ha avuto il merito di diffondere, anche con l’aiuto del vino, la cultura tra i popoli che abitavano le sue sponde.

    Il connubio vino-mare, lo si può desumere con evidenza, oltre che sulle storie di Delo e Rodi, come vedremo in seguito, per il fatto che nel porto di Ostia (Roma) è stato ritrovato un numero elevatissimo di anfore per il trasporto del vino importato dalle Gallie, e in altri periodi, dalla Betica (Spagna), che veniva immagazzinato o ricoverato provvisoriamente nelle numerose dispense portuali.

    Parlando di «patrie» del vino, l’Egitto (contrariamente a quanto affermato da qualcuno), non è mai stato un Paese di grandi tradizioni vinicole. Poche vigne, rare le pratiche di vinificazione; sarà soltanto con l’avvento commerciale con altri Paesi del Mediterraneo, tra cui alcuni colonizzati o occupati per un certo periodo dagli eserciti egizi, che i sudditi dei faraoni apprenderanno nuove cognizioni sulla vitivinicoltura, scoprendo anche vini migliori dei vinelli prodotti lungo il Nilo.

    Bisognerebbe puntigliosamente descrivere quali orribili misture venivano introdotte nelle anfore ritrovate nei sepolcri della Valle dei Re, per assicurare al vino una innaturale longevità. Infatti, i ricchi sudditi dei faraoni, se intenditori di vino, cercarono d’importare vino dalla Siria, da Cipro, da Creta dalla Terra di Canaan e più tardi dalla Grecia. Il vino degli Egizi, non doveva quindi essere quel grande nettare descritto come presunto tale, tanto che i dominatori greci e romani, giunti in epoche posteriori, non amavano molto i «vinelli» prodotti in Egitto. Quando questi «imperialisti» si trovarono «esuli» in questa terra, si facevano inviare vino dalla Grecia dai porti dell’Egeo, ma soprattutto Falerno, Cecubo e Mamertino dalla Penisola italica.

    I primi cenni credibili di scambio commerciale nell’area mediterranea nei quali il vino gioca un ruolo determinante, si trovano in documentazioni inerenti all’isola di Creta.Nel 1956 fu infatti ritrovato al Cairo un documento risalente al Regno Medio egizio, nel quale viene evidenziato il fatto che molte navi egizie facevano spola con i porti di Keftiu (l’antico nome di Creta).

    Gli Egizi scambiavano i loro prodotti (gioielli, uova di struzzo e avorio) con legname e soprattutto con il vino, che se non prodotto tutto a Creta, veniva immagazzinato nelle capaci dispense portuali dell’isola, le quali servivano pure come base per i traffici merci che transitavano per la direttrice commerciale che univa le sponde del Mediterraneo e la Siria con la Babilonia, passando per Mari.

    I vini importati venivano «rinfrescati» e resi più «potabili» dal ghiaccio che in grande quantità era conservato nel profondo delle grotte. Tutto questo è confermato dal gran numero di anfore vinarie ritrovate (naturalmente vuote) che risalgono al 1360 a.C. circa.Le «strade del vino» che a Oriente raggiungevano il cuore della Mesopotamia, oltre che terrestri, erano rappresentate dalle vie d’acqua, di mare e di fiume per determinati tratti, vie solcate dai primi vascelli mercantili e dalle barche a fondo piatto.

    Sul finire del II millennio, l’Egitto conobbe il periodo più buio della sua storia, a causa dei ripetuti attacchi da parte dei «Popoli del Mare» che spesso si univano ai Predoni di terra e agli invasori libici. Il vino importato che stava per diventare un bene disponibile ad ampi strati della popolazione e che proveniva dalle coste della Siria, del Libano e dai porti dell’Egeo, ma soprattutto da Creta, lentamente scomparve dalla dieta quotidiana.

    Per ritrovare il vino protagonista, bisognerà attendere alcuni secoli. Sarà intorno al 650 a.C., con l’avvento della XX Dinastia Saitica, grazie al faraone Psamtek I di Sais, che a tutti gli strati sociali della popolazione verrà offerta la possibilità di bere vino. Il vino entrerà a tal punto nella dieta quotidiana, che si arriverà addirittura a snobbare la bevanda sacra a Cerere (definita in modo approssimativo birra), che spesso era solo una misera tisana a base di cereali, ottenuta il più delle volte con acqua di dubbia e mediocre qualità.

    Ma per meglio comprendere il ruolo del commercio del vino nelle varie epoche e presso le varie civiltà, è necessario approfondire la funzione di questa bevanda nella quotidianità e nell’alimentazione. Vi invitiamo quindi a seguirci nel prosieguo di questa nostra storia.

    Capovolto

    Il Verdicchio di Jesi ha la sua zona d’eccellenza nella Vallesina, situata a nord-ovest di Jesi. Il «Capovolto» è prodotto con coltura biologica a Cupramontana, villaggio collinare degradante verso il mare Adriatico, da cui riceve le fresche brezze marine.

    Le coltivazioni di tipo biologica o biodinamica permettono di ottenere un vino dal colore paglierino intenso, con sfumature di oro verde. Al naso riusciamo a percepire le espressioni più fini e sensuali di questo vitigno, floreale con sentori di pesca e mandorla, mentre al palato la sensazione salina e fresca ne valorizza la persistenza gustativa.

    Questo è un vino da tutto pasto, ideale per questo periodo estivo con pietanze a base di verdure e uova. È perfetto su un menu marinaro e si sposa in modo particolare con brodetti e zuppe di pesce, con grigliate e fritture, da provare assolutamente con l’orata al cartoccio. Deve sempre essere servito fresco, ad una temperatura di 8-10° C.

     

    /Davide Comoli

  • L’Alsazia in cantina

    Bacco Giramondo. I principali vitigni coltivati sono Riesling, Gewürtztraminer, Pinot Gris, Pinot Blanc, Muscat e Sylvaner

    Non si può parlare d’Alsazia senza parlare dei suoi vigneti. Principale ricchezza agricola, i vigneti alsaziani sono anche una grande attrazione turistica e culturale. Da nord a sud i vigneti si estendono su circa 120 km e coprono una superficie vitata di circa 140mila ettari, da Marlenheim, nel Basso Reno fino a Thann, nell’Alto Reno. I vigneti formano una banda quasi continua e non superano quasi mai i 4,5 metri di larghezza. Raggruppati intorno a piccole città o villaggi, in passato ricchi di storia, i vigneti sono installati nel versante vallonato delle colline intorno al massiccio dei Vosgi, che riparano il territorio dai venti e dalle piogge provenienti dall’Atlantico, creando una barriera. Già le popolazioni celtiche, che popolavano questi luoghi, sapevano produrre vino con le viti selvatiche che numerose si trovavano nelle foreste del Reno. Ciononostante, fu solo nei primi secoli della nostra era, dopo la conquista da parte di Roma, che si cominciò a parlare di coltura della vite. Nel V sec., l’invasione da parte degli Alemanni portò al declino della viticoltura. Fu la cristianizzazione, portata dai re Merovingi e Carolingi e l’impulso dato dai monasteri, che permise alla viticoltura di rinascere e avere un’importanza sempre crescente nell’economia alsaziana. Documenti antecedenti al 900 d.C. attestano già più di 150 località dove si coltivava la vigna. Il XVI sec. vede l’apogeo della viticoltura: ne sono testimoni i superbi edifici che s’incontrano nei numerosi villaggi che si attraversano. Nello stesso periodo nascono le prime corporazioni di artigiani comprese quelle inerenti alla viticoltura, che fanno prosperare un gran numero di famiglie. La guerra dei Trent’anni, nel XVII sec., riduce a ferro e fuoco la regione e bisognerà attendere il XIX sec. per ritrovare una certa prosperità. In seguito, la concorrenza dei vini e del Midi della Francia, la filossera, le altre malattie parassitarie e non da ultimo l’annessione dell’Alsazia alla Germania dal 1871 al 1918, perpetuarono sino al 1948, le difficoltà per il vigneto alsaziano. Cinquanta milioni di anni or sono, i Vosgi e la Foresta Nera formavano un solo insieme montagnoso. Durante le Ere Primaria e Secondaria, questo massiccio subì una successione di avvenimenti tettonici: erosioni, immersioni, depositi sedimentari, corrugamenti. Nel Terziario, dal cedimento di questo massiccio, nacque una larga pianura nel mezzo della quale scorre il Reno. Nel Quaternario, il fiume spande nella piana enormi quantità di ghiaia, che è quella che ai giorni nostri ci dà modo di spiegare il perché della grande diversità di suoli del vigneto alsaziano. Gli strati accumulati nel corso dei secoli sono ben visibili. La maggior parte dei comuni vinicoli presentano diverse composizioni di terreni. Con l’amico Pierre Gassman, noto produttore locale, abbiamo visitato ben 21 tipi di suoli diversi: solo nel piccolo villaggio di Rorschwihr vengono prodotti 12 crus di grande diversità. Il clima dell’Alsazia è fresco e temperato, gli inverni sono sovente rigorosi e le estati piuttosto calde. Come già scritto, i Vosgi rappresentano un ostacolo all’influenza umida che arriva dall’Atlantico. Ma esistono anche molti microclimi locali che nascono dalle sinuosità dei rilievi e che giocano un ruolo preponderante nelle vendemmie con vigne esposte a sud e a sud-est. Le piogge variano enormemente dalla cresta dei Vosgi alla pianura. Per la viticoltura esse sono piuttosto flebili e regolari: dai 500 ai 650 mm per anno, il che costituisce garanzia di qualità. Grazie a una maturazione lenta e prolungata, favorita appunto dal clima, le costituenti aromatiche delle uve si esprimono pienamente. Fino al XVI sec., non si trovano tracce scritte dei nomi dei vitigni, è solo nel 1551 che il botanico Hieronymus Bock Tragus, menziona in un trattato esposto nella biblioteca di Strasburgo, i vitigni Riesling, Muscat e Traminer. Anche le etichette in Alsazia sono molto facili da leggere, la prima informazione che troviamo è il nome del vitigno (vino), la seconda quella del proprietario del vigneto e sovente, soprattutto quando si tratta di Grand Cru, il nome del vigneto o del villaggio dove il vino è prodotto. I principali vitigni coltivati sono: Riesling, è il vitigno più elegante coltivato in Alsazia, con cui si producono vini bianchi grandiosi, molto longevi e così pure degli eccellenti vini bianchi prodotti con vendemmie tardive. Gewürtztraminer, la superficie vitata di questo vitigno aumenta in continuazione e copre quasi un quarto del vigneto Alsaziano, in grandi annate produce vini di grande aromaticità, speziatura, ampi e generosi, si producono anche vini con vendemmie tardive. Il Pinot Gris, vitigno presente già nel XVI sec. sotto il nome di Tokay d’Alsace, ma dal 1984 dopo una querelle da parte del governo Ungherese, questa denominazione è stata proibita dall’Unione Europea, rimpiazzata semplicemente da Pinot Gris. Pinot Blanc, il vitigno sta conoscendo un periodo un po’ oscuro, è usato soprattutto per produrre i Crémant (vini spumanti). Muscat, questo vitigno aromatico è presente in due versioni, il Muscat d’Alsace e il Muscat Ottonel, è da preferire il primo vinificato secco, dai piacevoli sentori di uva molto intensi e usato come aperitivo. Sylvaner, vitigno coltivato nelle zone meno prestigiose del Bas-Rhin, il vino prodotto è fresco e semplice, ma coltivato su terreni eccezionali, può essere paragonato ai grandi Riesling. Pinot Nero, è il solo vitigno rosso coltivato, si producono vini poco colorati, ma quando le rese in vigna sono basse e l’annata è buona, i vini possono essere eccellenti. Da abbinare al fegato d’oca o a un Münster un po’ stagionato, consigliamo di provare una Sélection de Grains Nobles, questi vini sono prodotti solo da uve attaccate dalla Muffa Nobile, raccolte in tre fasi diverse e solo in annate molto calde.

    Buttafuoco
    Sulla destra orografica del fiume Po, incastonate tra le province di Alessandria e Piacenza si trovano le colline dell’Oltrepò Pavese, un’arenaria vecchia di 3mila anni che ha la forma di un grappolo d’uva; fatto che la dice lunga su questo comprensorio formato da suoli argillosi e calcarei. L’Oltrepò Pavese ha una straordinaria capacità produttiva, e più del 70% del vino della Lombardia proviene da questa zona. Il vitigno più coltivato in Oltrepò è la Barbera, seguito dalla Croatina e l’Uva Rara che guarda caso sono i vitigni alla base del vino che presentiamo oggi, il Buttafuoco. Specialità di Canneto Pavese, questo vino prende il nome dal colore molto acceso, in dialetto «bùta come el foueg». Non v’è dubbio che Carlo Porta (il grande poeta dialettale milanese) volesse riferirsi a questo vino nel suo Brindes de Meneghin all’Ostaria. È un vino semplice, dall’odore vinoso, intenso e fruttato, dal gusto asciutto e di corpo, talvolta vivace. Da servire in estate tra i 14-16° C, ideale nelle serate estive su minestroni freddi o tiepidi, su taglieri di salumi anche cotti e su piatti di carne semplici della tradizione contadina.

     

    / Davide Comoli

  • Balconi estivi: cosa scegliere?

    Mondoverde – Dai gerani alle surfinie passando dalle dipladenie

    Fino a una decina di anni fa, su ogni davanzale e parapetto primeggiavano le balconette cariche di gerani (Pelargonium). Originari del continente africano, amanti di sole, calore e terreni soffici ben drenati e ricchi di sostanza organica, comparivano nel loro massimo splendore da aprile fino a ottobre.

    Il problema si è presentato con l’arrivo della farfallina Cacyreus Marshalli (nota anche con il nome Licenide dei gerani), un piccolo insetto parassita anch’esso di origine africana, che senza competitori naturali ha preso il sopravvento causando piccoli fori nello stelo e rovinando sia le foglie sia i boccioli fiorali.

    Il rimedio a un così vorace lepidottero è rappresentato da insetticidi specifici, da irrorare sulle piante ogni 15-20 giorni. In alternativa ci si può avvalere di preparati biologici da distribuire con la stessa frequenza.In questo modo si potrà ancora godere delle splendide fioriture di gerani parigini, ovvero quelli ricadenti, dai colori accesi che spaziano dal bianco al rosa fino al salmone o dei gerani zonali, dal portamento eretto, con foglie tondeggianti e profumate.

    Appena acquistati, vi consiglio di trapiantarli in un vaso più ampio, con terra universale soffice e già concimata; basterà bagnarli 3-4 volte alla settimana lasciando asciugare il terreno tra una volta e la successiva; mentre è importante porli in pieno sole e concimarli nuovamente una volta al mese con concime liquido o ogni tre mesi se con quello granulare. Per ottenere esemplari veramente invidiabili, è bene orientarsi sui gerani zonali, scegliendo tonalità particolari di colore e coltivandoli in ampi vasi, magari di terracotta per ottenere ancora di più l’aspetto di pianta mediterranea. Altrettanto funzionale potrebbe essere cercare nei vivai piante di geranio imperiale o macranta (Pelargonium macranthum o P. grandiflorum).

    Si presentano come piccoli cespugli che se adeguatamente coltivati e riparati nel corso degli anni, possono arrivare all’altezza di un metro e un diametro simile. I fiori sono grandi e vistosi, con colori vellutati come cioccolato, porpora e rosso cardinalizio.In vivai ben forniti si possono trovare anche alcuni esemplari di gerani odorosi, ovvero quelli che puntano sulla pigmentazione e profumazione delle foglie (menta, limone, cioccolato, peperoncino, malva e molti altri aromi).

    Io preferisco adornare il mio balcone con fioriere miste, ospitanti gerani e altre piante estive dalle esigenze simili, come surfinie, dipladenie, verbene cascanti e begonie dragon.Le surfinie, piante cascanti dagli steli e dalle foglie leggermente pelose, si riempiono di campanelle bianche, lilla o viola per tutta l’estate, raggiungendo il massimo sviluppo in luglio. Bagnate con una certa frequenza e ben concimate, andrebbero tagliate per la metà della loro lunghezza a fine luglio, eliminando così tutte le foglie ormai esauste e stimolando la pianta a ringiovanire tutto il suo apparato aereo, ciò che le permetterebbe di produrre nuovi fiori in poche settimane.

    Se la ricerca si dovesse spostare invece su quelle piante che richiedono poca manutenzione, cioè che non devono essere bagnate con troppa frequenza, allora orientatevi sulle dipladenie, praticamente perenni se si avrà l’accortezza di ricoverarle in una scala tiepida in inverno e tenerle leggermente bagnate ogni 15 giorni. In primavere le dipladenie si presentano con foglie verde lucido portate su steli lunghi, che si riempiranno di fiori a campanula grande color bianco, rosa e anche giallo. Originarie dell’America centro-meridionale, necessitano di una esposizione continua per tutta l’estate in pieno sole, ma protette dal vento. Grazie al loro vigore possono stupire, diventando delle piccole rampicanti, a patto di collocarle accanto a una ringhiera o a uno steccato.

    La fioritura di queste piante continua fino a fine novembre, senza mai interrompersi, non necessitano di potatura, ma solo di una buona concimazione a inizio stagione e un po’ di attenzione nel non rompere gli steli per evitare la fuoriuscita del lattice biancastro e appiccicoso ricco di linfa. Rimanendo sulla tonalità del rosa acceso, troviamo un’altra pianta altrettanto appariscente: la begonia «Red Dragon», adatta alla coltivazione sia in vaso sia in piena terra, raggiungendo l’altezza di 40-50 centimetri e un’ampiezza che supera i 60 centimetri di diametro. Le foglie lucide, asimmetriche e verde scuro sono portate su fusti carnosi, che ospitano lunghi peduncoli ricchi di fiori dai colori carichi e luminosi. Amante del pieno sole, si sviluppa molto bene anche a mezz’ombra, dove i lunghi rami prostrati creeranno nuvole di colore.
    /Anita Negretti

    By Ott, Côtes de Provence
    Luglio vuol dire vacanze, sole e vini rosati. Quando si parla di vini rosati tra esperti del settore, subito il pensiero vola in Provenza, dove l’85 per cento dei vini elaborati è di questa tipologia: non per niente il 7 per cento dei vini rosati consumati sul pianeta provengono da questa regione. Il Domaine Ott è famoso per i suoi rosati prodotti con una coltivazione «bio organica» che da oltre 120 anni produce vini dalle caratteristiche uniche. Il By Ott è prodotto con vitigni rossi, la Grenache che dona eleganti note di frutti rossi, il Cinsault che regala finezza e freschezza ai rosati, il Syrah che dà equilibrio nei tagli e la Mourvèdre che regala complessità e note speziate, e dunque ottenuto con una corta macerazione dei suddetti. I rosati che provengono dalle Côtes de Provence, come il nostro By Ott, hanno un colore rosa con leggeri riflessi ambrati, freschi, aromatici e leggermente speziati, sono vini conviviali, con cui accogliere i vostri amici per un aperitivo, potranno pure accompagnare piacevoli «amuse-bouche» e siccome non sono troppo pesanti, con eleganza evitano, come spesso accade, che un aperitivo rovini le entrate che seguono. È ottimo per piatti estivi come l’insalata Nizzarda, la Caprese, la famosa Chèvre chaud, la Paella, ed è inseparabile compagno della Bouillabaisse.
    /Davide Comoli 

     

  • Da Bergerac a Monbazillac e Cahors

    Bacco Giramondo – I vini del sud-ovest francese – Seconda parte

    Il nostro viaggio nel sud-ovest della Francia ci porta a Bergerac, una città piena di storia e di charme, sulle ondulate colline che sono il naturale prolungamento del St. Émilion: la frontiera tra Bergerac e Bordeaux è puramente amministrativa. Il clima è simile a quello girondino, l’influenza atlantica rende gli inverni dolci con moderate piogge. Bisogna però stare all’erta per il pericolo di gelate primaverili, piuttosto frequenti, e non vanno sottovalutate nemmeno le violente grandinate.

    I suoli sono un misto d’argillo-calcare-ciottoloso. Qui la vigna è coltivata dall’epoca della conquista romana e la viticoltura fu senz’altro l’attività principale dei monasteri in epoca medioevale. Fu solo dopo la guerra dei Cento anni che gli olandesi, alla ricerca di vini dolci per i mercati del nord, diedero inizio alla produzione di vini bianchi liquorosi, che ancora oggi rivaleggiano con i più blasonati bianchi liquorosi di Bordeaux. Anche il vino di Monbazillac, il bianco più conosciuto della Dordogna, ha bisogno come i Sauternes della «Botrytis cinerea» per la sua produzione. Normalmente l’elaborazione di questo vino richiede il 73% di Semillon, 15% di Sauvignon Blanc e 12% di Muscadelle. Pressappoco le stesse proporzioni con una maggioranza di Semillon, le ritroviamo nei vini di Saussignac.

    I vini rossi più quotati della Dordogna sono senz’altro quelli di Pécharmant, più strutturati dei rossi di Bergerac, il terreno di questa zona è ideale per il Malbec, il Cabernet e il Merlot. Con le uve delle migliori annate si possono produrre vini che abbisognano di un lungo soggiorno in cantina, in modo da ammorbidire i tannini ed elegantizzare il bouquet dei profumi.

    Duras è una piccola città dominata da uno splendido castello che guarda verso l’ovest i vigneti del Bordolese.La zona produce dei rossi speziati e dei rosati; i vitigni sono principalmente quelli del Bordeaux, ma comprendono pure i vitigni locali interessanti come il Fer, Gamay, Syraz, Malbec e l’autoctono Abouriou. Solo una parte dei 1800 ettari è piantato a vitigni bianchi, gli stessi che troviamo nelle Graves (Semillion, Sauvignon, Muscadelle), in più l’Ugni Blanc e l’autoctono Ondenc, molto raro.

    I vini rossi prodotti a Cahors sono considerati tra i migliori di Francia (lo confermiamo), e provengono dalla valle del fiume Lot e sono vini da bere dopo anni di riposo in cantina, magari con selvaggina. I vini di questa vallata conobbero momenti felici durante il dominio inglese sulla Guascogna (1300 circa). Attraverso il fiume Lot che si getta nella Garonna nei pressi di Aiguillon, i barili di vino potevano essere trasportati sino a Bordeaux per poi raggiungere l’Inghilterra. Nonostante le manovre sporche dei viticoltori Bordolesi (per questa ragione a Cahors non si coltiva il Cabernet, vitigno bordolese per eccellenza), nel 1720 il vino di Cahors raggiunse il suo apogeo. Il successo del black wine non aveva freno e in quel periodo intorno alla città c’erano più di 40mila ettari vitati, cifra enorme per quei tempi.

    Fu la filossera di fine 800 a distruggere il vigneto di Cahors, e la cosa più grave fu che i viticoltori di quel tempo commisero l’errore di rimpiazzare il vitigno principe, il Cot, chiamato anche Malbec o Auxerrois (e con almeno 150 nomi diversi in Francia) con vitigni più precoci e produttivi per sopravvivere, e alla fine della Prima Guerra Mondiale il grande Vin Noir cadde nell’oblio. Fu solo nel 1947 che qualcuno cominciò di nuovo a coltivare il Cot. Dieci anni più tardi si assistette alla rinascita del vino di Cahors, dagli aromi intensi di frutti rossi, liquirizia, spezie, dai tannini nobili e grande struttura, che gli permettono una grande longevità.

    La regione a sud di Cahors (dipartimenti du Tarn, Tarn-et-Garonne e Lot-et-Garonne), danno origini a due A.O.C., Gaillac e Fronton. La giacitura di questi vigneti è la somma di diversi fattori, in primis l’influenza climatica: il Mediterraneo non troppo distante, porta calore e vento secco; l’Atlantico porta le piogge; il Massiccio centrale, inverni freddi e gelate primaverili. Anche i fiumi hanno la loro parte: non solo danno i nomi ai dipartimenti, ma generano una moltitudine di microclimi. Infine l’influenza del suolo è molto differente da zona a zona.

    Gaillac è il vigneto più antico del sud-ovest. Già sotto l’imperatore Domiziano (96 d.c.) si coltivava la vite. Gaillac possiede moltissimi e diversi vitigni. Questo spiega la grande diversità di stile nei vini: oltre ai bianchi bordolesi già citati, qui troviamo il Mouzac, che fornisce bianchi più o meno secchi, il Loin de l’Oeil in purezza o con il Sauvignon Blanc.

    Tra i rossi troviamo vini prodotti principalmente con il vitigno Duras, seguito dal Fer Servadou, chiamato in loco Braucol e i soliti Cabernet, Syraz e il Gamay, con il quale si producono discreti «primeurs». Curiosi gli spumanti chiamati «Perlé», elaborati con il méthode gaillacoise o méthode rurale in altre regioni. Una volta s’interrompeva la fermentazione immergendo le botti nell’acqua ghiacciata, oggi invece si usano dei moderni refrigeratori. Provatelo con le Crêpes-Suzette.

    Sul pianoro tra Tarn e la Garonna, la piccola regione di Fronton produce vini rossi e un po’ di rosati. La composizione del suolo delimita la zona. Troviamo un misto di suoli rossi, composti da ghiaia con una forte percentuale di ferro, mischiato ad argilla. Questo suolo è ideale per la coltivazione della Negrette, che produce un vino fruttato e debole di tannini: invecchia rapidamente, ecco perché nella composizione dei vini entrano per almeno il 30% i Cabernet Franc e Sauvignon, da bersi con il classico Magret de canard.

    Arneis (Cascina Chicco)
    Vitigno autoctono del Roero, l’Arneis matura sulle colline lungo la sponda sinistra del fiume Tanaro, dove la viticoltura è praticata da secoli. Fino a qualche decennio fa i filari dell’Arneis si alternavano a quelli del Nebbiolo, perché il profumo e la dolcezza di questo vitigno bianco attirava gli insetti e gli uccelli, risparmiando le uve rosse più importanti.

    Il successo di questo vino è dunque abbastanza recente, raggiungendo un alto grado di popolarità negli anni Ottanta, quando grazie alla lungimiranza di alcuni produttori, tra i quali i fratelli Faccenda (Cascina Chicco), viene prodotto un vino bianco secco, che incontra subito il gusto della gente.

    L’Arneis predilige i terreni leggermente sabbiosi, di colore giallo paglierino, ricorda al naso la cera d’api, fiori bianchi e miele d’acacia, molto persistente e fresco in bocca, lo consigliamo su piatti a base di uova e di pesce, ottimo su antipasti vari come il «vitello tonnato» e sui formaggi a pasta molle.

     

    / Davide Comoli

  • Una storia frizzante

    Enologia – Come sono nati i vini con le bollicine? Nel primo articolo di una serie dedicata a questa caratteristica preziosa ripercorriamo un gustoso itinerario nel passato

    L’origine delle bollicine nel vino, per centinaia di secoli fu considerata misteriosa. Fu Pasteur (1822-1895) con le sue ricerche sui meccanismi fermentativi a far chiarezza, spiegando che le bollicine non provengono altro che dalla fermentazione operata dai lieviti, che trasformano gli zuccheri contenuti nel vino in alcol e anidride carbonica, in modo che il gas che si forma all’interno, emergendo dal vino dà le bollicine. I vini più antichi con le bollicine (oggi si chiamerebbero frizzanti), provenivano da una sola fermentazione spontanea o controllata dagli zuccheri di mosti o vini dolci, svolta in anfore di terracotta chiuse ermeticamente.

    È invece di questi ultimi secoli l’ottenimento di vini spumanti o frizzanti, ottenuti con due fermentazioni, di cui la seconda (rifermentazione) ha lo scopo di produrre le bollicine. L’introduzione ci pare sufficiente per sollecitare alcune domande: chi ha scoperto il fenomeno dei vini spumanti? Quando e come la attuavano i nostri antenati? Con che cosa? Prima di cominciare il viaggio nel tempo, ringrazio il dott. Mario Fregoni, docente di viticoltura all’Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza, che con i suoi scritti ci ha fornito molte indicazioni. Le citazioni in epoca romana sui vini spumanti sono ampie e si devono a Virgilio, Properzio, Lucano e Columella. Ma se vogliamo tornare un po’ più indietro nel tempo, molti di noi ricorderanno i versi di Omero, quando descrive lo scudo di Achille (scolpito da Vulcano) nel XVIII libro dell’Iliade. Il vate greco descrive il momento in cui i contadini intenti all’aratura venivano rifocillati da: «un uomo che giva in volta, e lor ponea nelle man un nappo spumante di dolcissimo bacco».

    Non è di certo una semplice espressione poetica, per la semplice ragione che il vino in natura ha sempre prodotto bollicine senza l’intervento dell’uomo.Negli scritti di Lucano (39-65 d.C.), troviamo questa frase: «Indomitum Meroe cogens spumare Falernum». A quell’epoca si otteneva uno spumante dal famoso vino Falerno, con l’aggiunta di mosto di uve appassite di una varietà chiamata Meroe, originaria dell’Etiopia.Uno spumante di questo tipo (ma le uve erano quelle dell’odierno Catarratto), fu servito al popolo romano da Cesare, in onore della presentazione di Cleopatra. Questo ci mostra come i romani conoscessero il modo per creare le: «bullulae».

    Anche Columella (I sec. d.C.), descrive la tradizione della produzione del «defrutum» o della «sapa», mosti concentrati con ebollizione (per evaporazione dell’acqua) sino al 50% o addirittura ad 1/3. Questi mosti concentrati venivano aggiunti al mosto in fermentazione per aumentare il grado alcolico oppure per ottenere una rifermentazione.

    Saliens, Spumans, Titillans, Spumescens, questi erano i termini con i quali indicavano i vini frizzanti o spumanti.I vini spumanti dell’epoca, erano pure divisi in due categorie, gli Aigleucos e gli Acinatici. I primi erano prodotti dal mosto, la cui fermentazione veniva impedita o meglio ritardata, immergendo le anfore vinarie in acque fredde, alfine di avere vino frizzante per più lungo tempo. A Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua fredda. L’Acinatico, era invece prodotto con mosto di uve appassite, è il caso del Falerno citato sopra. Troviamo questo vino descritto da Cassiodoro (490-585 d.C.), che ben conosceva gli acinatici del Veronese (l’attuale Recioto) e il Torchiato di Fregona (passito del Trevigiano).

    Nel buio del Medioevo, è la famosa Scuola Salernitana a citare dei vini con le bollicine. Nel Regimen Sanitatis, si consiglia un moderato uso di vini frizzanti. Siamo agli inizi del 1100, e nella stessa epoca troviamo degli scritti sui vini frizzanti della Toscana. Nel 1544 i Benedettini di Saint-Hilaire a Limoux (Languedoc), certificarono la loro Blanquette, vino prodotto (allora) con il solo Mauzac. Il prodotto subiva una rifermentazione in bottiglia, chiamato: méthode Ancestrale.

    Nel Rinascimento si continuò a mantenere il gas nelle botti, cercando di tenerle chiuse il più possibile e a bassa temperatura durante la fermentazione. Per ottenere la rifermentazione, si poneva il vino sulle vinacce fresche, oppure si «tagliava» con il mosto nuovo, o si faceva appassire l’uva e dalla sua pigiatura si otteneva un mosto zuccherino capace di far rifermentare sia il vino giovane che quello vecchio.

    Grande consumatore di vini frizzanti fu il Papa più enofilo di tutti i tempi, Paolo III Farnese (1468-1549), che oltre a conoscere tutti vini italiani, amava in modo particolare quelli vivaci di Castell’Arquato (PC).Fra i nomi medioevali usati per i vini frizzanti si rammentano quelli di: «mordaci, piccanti, raspanti e razzenti».

    Oeil de Perdrix (Les Petits Crêtes)
    Orientati a sud est, i vigneti neocastellani beneficiano di un clima favorevole, un po’ più fresco di quello dei vigneti delle rive del Lemano. I terrazzi sulle sponde del lago fanno di Neuchâtel il quarto cantone romando per superfice vinicola.Les Petits Crêtes, matura tra Boudry e Cortaillod, su terreni molto antichi, composti da molasse e calcare, qui esclusivamente dal Pinot Nero si ricava «l’Oeil de Perdrix».Furono i viticoltori neocastellani a scegliere per primi il nome evocatore «occhio di pernice», per il loro Pinot Nero vinificato in rosato: purtroppo, vittime di un eccesso di fiducia, supposero di essere i soli ad utilizzare questo poetico nome. Ma gli amanti di questo genere di vino, non si lasciano certo trarre in inganno da altri vini che portano lo stesso nome: il vero Oeil de Perdrix resta un prodotto caratteristico del territorio neocastellano. L’armonia aromatica, data dai profumi di fiori e di frutta e la sua grande finezza, fanno di questo prodotto l’ideale accompagnamento per: paella, quiche lorraine, carpaccio di manzo, ma per noi è esaltante su preparazioni di pollo o vitello in salsa curry.

     

     

    / Davide Comoli 

  • I vini del sud-ovest della Francia

    Bacco giramondo – Prima parte – Dall’antica provincia della Guascogna, sul limite del dipartimento della Gironda al nord, fino alla frontiera spagnola a sud

    Malgrado la diversità di stili di produzione e vitigni che ci sono nel sud-ovest della Francia, i vini hanno delle caratteristiche in comune. La regione di cui parliamo in questo articolo corrisponde pressappoco all’antica provincia della Guascogna, cioè dal limite del dipartimento della Gironda al nord, fino alla frontiera spagnola a sud.

    In questa zona, i vigneti sono sovente impiantati lungo il corso dei fiumi che si gettano nell’estuario della Gironda: Bergerac sulla Dordogna, Cahors sulla Lot, Gaillac su Tarn e Fronton, Buzet e Marmandais sulla Garonna. Verso est, a monte del Massiccio Centrale, i vigneti diventano più rari, mentre a sud ai piedi dei Pirenei, le regioni vitivinicole hanno identità più marcate. Descriverle in un solo articolo diventa impresa ardua, ecco perché divideremo in due parti la descrizione di questa regione.

    Fin da tempi molto lontani, l’influenza della vicina Bordeaux si è fatta sentire sullo sviluppo viticolo della regione. I vini venivano commercializzati in enormi quantità da parte dei negozianti bordolesi, fino a che nel 1911 la frontiera geografica del vigneto di Bordeaux, fu limitato al solo dipartimento della Gironda. La filossera e l’arresto del commercio con Bordeaux colpirono duramente l’attività vitivinicola del sud-ovest. Oggi, pure con qualche patema d’animo, le nuove generazioni di viticoltori hanno saputo far rinascere la reputazione di questi vini, inserendo nelle vigne, insieme ai vecchi ceppi locali, i vitigni della vicina Bordeaux che contribuiscono a dare qualità.

    Questa tavolozza di vitigni (unici) danno un carattere particolare ai vini di queste zone. Il Gaillac fornisce vini bianchi secchi e leggeri, naturali ma anche frizzanti; a Monbazillac, bianchi, dolci e morbidi; mentre sono rossi corposi quelli di Bergerac; strutturati e possenti quelli invece di Madiran e di Cahors. Il clima di questa regione possiede molti punti in comune con quello della vicina (più famosa) Bordeaux, e infatti la maggior parte degli Haut-Pays, nome dato dagli olandesi nel XVI sec., gode di un clima atlantico che si attenua nelle vicinanze del Massiccio Centrale per l’influenza continentale.

    La parte sud della regione è dominata dai vini dei Pirenei, di cui fanno parte i vini di Madiran, il Jurançon e l’Irouleguy. Il miglior vigneto è senza dubbio quello di Madiran: il vino prodotto con il vitigno Tannat è diventato infatti una delle stelle dell’enologia francese. Furono i (soliti) romani a impiantare le vigne in queste zone , che nel XII secolo, quando erano sotto la dominazione inglese, conobbero una grande ascesa. I loro vini venivano trasportati sino a Bayonne, su barche lungo il fiume Adour con destinazione nord Europa. Ma come scritto prima, il vero rilancio lo si deve nel 1985 ad Alain Brumont, che riuscì a produrre con il non facile vitigno Tannat, il celeberrimo Château-Montus, assolutamente da provare una volta nella vita, con un cinghialetto in umido.

    Molti viticoltori della zona seguirono i suoi insegnamenti, uno fra tutti fu Patrick Ducournau (l’inventore della micro-ossigenazione dei vini). Il dinamismo che si è sviluppato a Madiran, ha contagiato anche la zona di Pacherenc-du-Vic-Bilh (le colline Charmantes), questa A.O.C. ingloba quattro villaggi con trecento ettari vitati, in un terreno composto da ghiaia e argilla, ideale per il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Malbec. Uscita dal suo torpore, questa zona ha incominciato a produrre vini bianchi da vendemmia tardiva, notevoli, con le uve del Manseng, Corbù, Sémillon, Sauvignon e un vitigno che ha incominciato ad apparire anche alle nostre latitudini l’Arrufiac, autoctono della zona: provatelo su un dolce al caffè.

    Molto vicine, si trovano Les Côtes di Saint-Mont, dove vengono coltivati e vinificati da una cooperativa vini prodotti con vitigni locali, che danno rossi speziati, molto strutturati e vini bianchi aromatici, interessanti. Interessante anche il vino bianco che troviamo nell’A.O.C. Mont de Marsan, prodotto con un vitigno locale chiamato Baroque, che unito al Manseng, ci offre un prodotto complesso e fresco d’acidità.

    Il piccolo comune di Bellocq conta quasi il 90 per cento delle vigne dell’A.O.C. Béarn (210 ettari), qui si producono dei rossi corposi con il Tannat e dei piacevoli rosati con il Cabernet Franc, ma il solo vino veramente importante è il Jurançon. Le vigne a 300-400 m d’altitudine sono piantate sulle scoscese coste Pirenaiche. Anche in zona, la primavera è piovosa, ma la regione beneficia di autunni abbastanza soleggiati, e con l’aiuto di un vento caldo che scende dai Pirenei, i viticoltori possono attendere sino a novembre e a volte dicembre per vendemmiare. In effetti il Petit Manseng dà il meglio di sé con le vendemmie tardive, e molte volte soprattutto in annate non ottimali anche il Gros Manseng e il Corbù concorrono alla produzione di questo vino equilibrato ed elegante, da abbinare al foie gras d’oca, a una torta di noci o se preferite al celebre formaggio Roquefort.

    Appena dopo Pau, quasi in cima ai Paesi Baschi, troviamo la piccola (200 ettari) A.O.C. d’Irouleguy confinante con la Spagna, nella piccola vallata della Cize. Qui si producono eleganti vini rossi, profumati rosati e qualche rimarcabile vino bianco.

    Dôle des Monts Gilliard
    La Dôle è il vino rosso vallesano più conosciuto anche fuori dai confini nazionali. La Dôle des Monts è uno degli emblemi della famiglia Gilliard a Sion, maison fondata nel lontano 1885. Questo vino è frutto del matrimonio tra Pinot Nero e Gamay. Anche se alle volte possono essere aggiunte piccole percentuali di vitigni rossi della regione, resta il fatto che il 51 per cento deve essere assolutamente Pinot Nero.

    Ogni anno un decreto cantonale fissa la percentuale minima di zuccheri nel mosto. La Dôle è un vino molto armonico; le uve del Pinot Nero contribuiscono al suo temperamento e profumo che ben si equilibra con il gusto fruttato del Gamay. Come la maggior parte dei vini vallesani, la Dôle si può bere giovane, ma guadagna se gustata dopo qualche anno.

    È un vino ideale per ogni pasto, tuttavia – come consigliava la compianta Marianne Kaltenbach – è ottimo sul famoso Geschnetzeltes alla zurighese e con l’Ossobuco di vitello o maiale, anche se noi l’amiamo con il pollo arrosto.

     

    / Davide Comoli

  • Il Metodo Biologico Dinamico

    Il vino nella storia – Detto anche biodinamico, questo modo di lavorare la terra e coltivare prese spunto da alcuni agricoltori polacchi, alla conferenza di Koberwitz nel 1924

    Tra gli anni Sessanta e Settanta, un gruppo di persone, vignerons, agricoltori, orticoltori e altri, senza che si conoscessero per forza, ebbero un’idea comune: quella di lavorare la terra e coltivare le piante (legumi, cereali, vigne, ecc.), senza ingrassi chimici né erbicidi o insetticidi di sintesi, ciò con lo scopo di poter raccogliere e offrire dei prodotti di qualità esenti da residui nocivi.

    L’idea del metodo di coltivazione biodinamico a dire il vero venne già più di trent’anni prima a Rudolf Steiner: spirito universale, influenzato dal genio di Goethe. Correva l’anno 1924 quando rispondendo alle domande di alcuni agricoltori durante una conferenza a Koberwitz in Slesia (Polonia), nacque il metodo biologico dinamico.

    Il metodo fu poi messo a punto da uno dei suoi discepoli, il dottor Ehrenfried Pfeiffer, che negli anni Cinquanta sperimentò lui stesso in molti Paesi e creò, seguendo le direttive di Steiner, un laboratorio biochimico a Dornach.

    La preoccupazione per la salute umana e per l’ecologia ha rafforzato negli ultimi tempi la ricerca dei prodotti biologici. Questo tipo di agricoltura propone il raggiungimento di obiettivi di carattere ambientale come la salvaguardia del territorio e lo sfruttamento meno intensivo dei terreni, usando metodi naturali per la lotta ai parassiti.

    A interessare anche noi del mondo del vino al fenomeno Bio, sono le decine di bottiglie marchiate con questo brand che ormai si trovano sugli scaffali un po’ ovunque.

    Come viene prodotto un vino biologico? Qual è la differenza tra questi e un vino tradizionale?

    Già nella sua De Naturalis Historia, Plinio sottolineava «che i frutti fermentano spontaneamente», quindi la vinificazione non è nient’altro che cercare di perfezionare questo processo naturale.

    L’obiettivo dell’agricoltura biologica vuole mantenere, finanche esaltare questa produzione «naturale», non utilizzando prodotti chimici di sintesi per la concimazione e la difesa dai parassiti. Per cui la concimazione viene effettuata con l’uso di concimi organici (letame), mentre per la difesa delle colture si interviene con tecniche di coltivazioni preventive e per l’appunto con trattamenti di origine naturale. Quindi niente metabisolfito, carboni attivi, antiossidanti, ecc. La viticoltura biologica dipende dalla maturazione dell’uva e della sua qualità al momento della vendemmia.

    I vini biologici hanno per anni vissuto sperimentazioni da parte dei produttori, con l’interesse per la loro crescita varie ricerche hanno portato a migliorare la produzione con prodotti naturali che contrastano quella effettuata coi prodotti chimici, cioè hanno portato a migliorare la vinificazione tradizionale.

    Anche se rimangono ancora delle incertezze sulle leggi europee – che portano, soprattutto da parte dei consumatori, un po’ di perplessità in merito alle etichette dei vini biologici – oggi possiamo degustare ottimi prodotti che rispettano la natura e l’uomo.

    Sul modo in cui deve essere prodotto un vino biologico o biodinamico (i quali hanno molti punti in comune) le idee sono chiare. Entrambi devono seguire alcune «linee guida» come: la vendemmia deve essere fatta manualmente; le uve devono essere poste in piccole cassette e vinificate il più rapidamente possibile, onde evitare fermentazioni anticipate; alle uve viene applicata una diraspatura e pigiatura soffice, utilizzando presse pneumatiche orizzontali; l’avvio della fermentazione deve essere prodotta con un pied de cuve senza utilizzare additivi e coadiuvanti tecnologici; il mosto deve essere ossigenato tramite follatura; l’uso della SO2 (anidride solforosa) deve essere attento (20 mg/l al massimo) abbinato all’uso di gas inerti quali azoto e anidride carbonica.

    Nel frattempo il vino «biodinamico» sta assumendo un ruolo di grande rilievo nel mondo viticolo. Dalla filosofia agricola che fa tesoro degli insegnamenti di Rudolf Steiner e prima ancora di Wolfgang Goethe, il francese Nicolas Joly viticoltore della Loira e produttore del famoso Coulée de Serrant ha ideato un metodo che ha rivoluzionato il mondo del vino.

    Queste le sue regole di produzione: la vinificazione viene fatta in correlazione con particolari configurazioni planetarie; il confezionamento, con imballi riciclabili e in cantina; le vasche sono raffreddate; le sostanze immesse sono: il bianco d’uovo Demeter o biologico; la Bentonite è certificata priva d’impurità; carbone vegetale per i vini frizzanti; uso solo di anidride carbonica e azoto; stabilizzazione a freddo; filtrazione con filtri a cellulosa e terre diatomee.

    Inoltre il biodinamico usa piccole quantità di proporzioni naturali specifiche basate su sinergie tra regno animale e vegetale. Anche noi fummo sorpresi nell’apprendere che alcuni grammi per ettaro di queste preparazioni dinamizzate nell’acqua possono avere effetti importanti. In pratica, nella biodinamica vengono usate la capacità energetica della terra e delle piante, aiutandole a ricevere meglio le forze della vita.

    In questo genere d’agricoltura non viene usato nessun trattamento che non sia naturale, si lascia quindi che la natura faccia il suo lavoro. Eppure, ad esempio, passando 100 grammi per ettaro di una preparazione di feci di mucca che è stata sotto terra per tutto l’inverno in un corno di mucca dinamizzato per un’ora, si riescono ad avere degli effetti di fertilità superiori all’uso del solito letame. Queste preparazioni vengono passate più volte all’anno.

    È da pochi giorni che i deputati del Cantone di Neuchâtel hanno approvato una mozione (65 favorevoli, 35 contrari), che chiede al più presto un piano di conversione delle proprietà agricole e viticole del Cantone in coltura biologica.

    Ma attenzione, la maggior parte del gusto dei vini tradizionali è ottenuto con lieviti aromatici, ciò che non succede nei vini biologici, per cui non vi resta che provarli. Secondo noi, questi vini preparati con tecniche e criteri particolari, vi conquisteranno per la loro bontà e soprattutto la loro tipicità.

    Falanghina – Feudi S. Gregorio
    La Falanghina è un antico vitigno che forse costituiva la base del famoso «Falerno». Troviamo la prima citazione di questo vitigno tra le varietà coltivate nei dintorni di Napoli nel 1825 (Acerbi). Il nome Falanghina sembra derivi dal fatto che la vite, a portamento espanso, veniva legata a pali di sostegno detti falanga, perciò Falanghina «vite sorretta da pali».

    Feudi di San Gregorio di Sorbo Serpico (AV) è un modello di studio aziendale analizzato in diverse Università, in quanto si tratta di una delle aziende meglio strutturate del sud Italia, con circa 250 ettari vitati.

    La Falanghina è un vitigno di enorme potenziale, dal colore giallo paglierino intenso e luminoso, al naso scopriamo toni di frutta gialla tropicale, alle quali s’intrecciano profumi di nocciole e delicate spezie. In bocca è molto piacevole e intrigante, ma anche molto fresco. Lo consigliamo con del salmone fresco o lievemente affumicato, appena scottato, ma anche con pesce spada o tonno e sformati di verdure.

    / Davide Comoli

  • La Languedoc-Roussillon

    Bacco giramondo – Nel quattordicesimo secolo la superficie vitata superò i 480mila ettari trasformando questa regione francese nel più grande vigneto del mondo

    Le due antiche province del Roussillon e della Languedoc sono spesso associate in una sola espressione, pensando che siano una cosa sola. Eppure la differenza c’è, ad esempio i legami storici del Roussillon con la vicina Spagna continuano a influenzare la sua produzione vitivinicola. Il suo clima è senza dubbio il più caldo della Francia e i suoi vini sono alle volte i più generosi e corpulenti.

    Il vigneto del Roussillon si trova tra i bordi del mare a est, i Pirenei a sud e le montagne delle Corbières a nord. A guardarla dall’alto, questa regione sembra un immenso anfiteatro che circonda la fertile pianura intorno alla città di Perpignano. Vallate fluviali scivolano in questo paesaggio, segnate dal tortuoso passaggio dell’Agly e dei suoi affluenti. Celebre da molto tempo, la produzione dei Vins Doux Naturel.Le vigne della Languedoc conobbero invece il loro primo apogeo sotto la conquista romana, allorché migliaia di anfore colme di vino della provincia della «Gallia Narborensis», dall’eccellente reputazione, venivano inviate a Roma.

    Alla caduta dell’Impero, anche la viticoltura subì un declino che durò sino al XVII secolo, quando furono migliorate grazie al ministro di Luigi XIV, J. B. Colbert (1619-1683), le strutture industriali e soprattutto la costruzione del porto di Sète e il Canal du Midi, senza dimenticare le nuove vie di comunicazione. Fu in quell’epoca che si assistette a una forte domanda di acquavite, soprattutto da parte dell’esercito e della marina, compresa quella inglese. Nacque così un distillato chiamato 666, dall’alta gradazione alcolica.

    In questo modo gran parte del raccolto veniva distillato, i vitigni usati erano l’Aramon e il Carignan, dal forte rendimento, ma anche Mourvèdre e Grenache, per una migliore qualità. Il mercato del vino conobbe una determinante evoluzione nel XIV secolo, con la grande industrializzazione delle grandi città del nord della Francia, che portò un nuovo genere di popolazione, e di conseguenza nuove abitudini alimentari, dove il vino era parte integrante nella dura vita quotidiana. Grazie alle strade ferrate, il trasporto del vino fu assicurato per queste regioni. Il commercio vinicolo era così lucrativo che la viticoltura soppiantò tutte le altre attività. E infatti la superficie vitata superò i 480mila ettari, cifra enorme per l’epoca (ma anche per i giorni nostri), che portò la Languedoc-Roussillon a essere il più grande vigneto del mondo.Confrontati con l’invasione filosserica e la crisi economica, tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale, i viticoltori locali puntarono su una produzione di massa, che ebbe conseguenze nefaste sulla qualità dei vini, la quale fece loro modificare negli anni Settanta la concezione di viticoltura.

    Fu però solo nel 1980, dopo una crisi nel settore vinicolo, che fu creato da parte di alcuni viticoltori il marchio: «Vin de Pays d’Oc», un vino a carattere regionale e di qualità, dove la legge lascia molta libertà nella scelta dei vitigni, ma è duro far capire ai molti viticoltori, ancorati al concetto di produzione di massa, quale sia la via da seguire.Ai vini rossi ottenuti dai vitigni tradizionali oggi si stanno gradualmente sostituendo vini più eleganti, ottenuti da vitigni internazionali.Il vigneto della Languedoc-Roussillon è dominato dai vitigni a bacca nera e i vini rossi rappresentano l’80% della produzione. Il vitigno principe è il Carignan, seguito dalla Grenache, Cinsaut, Mourvèdre e Syraz, recenti impianti di Merlot e Cabernet Sauvignon, permettono di ottenere dei vini più morbidi. Tra i bianchi troviamo dei vini prodotti con Roussane, Marsanne, Rolle, Viognier e Chardonnay, quest’ultimo elevato in barrique per attenuare i decisi sentori minerali dati dalla composizione calcareo-scistosa del terreno.Il Languedoc-Roussillon è però famoso per i suoi «Vins doux Naturels», una dicitura che può portare un po’ di confusione: in effetti se lo zucchero è l’elemento naturale di questi vini, il metodo di elaborazione necessita l’intervento dell’uomo, con l’aggiunta di alcol, (da 5 a 10%) per garantirne la dolcezza. Questa aggiunta arresta la fermentazione, dissolve alcuni componenti (colloidi e mucillagini) e mantiene un tasso di zucchero più o meno elevato e molti aromi. La tradizione vuole che questo metodo sia stato inventato da Arnaldo de Villanova, medico e alchimista catalano (1240-1311).Più della metà di questi vini arrivano da Rivesaltes: già di moda negli anni Trenta, sono stati i primi ad accedere alla A.O.C. nel 1936. Ci sono tre tipi di Rivesaltes, bianco o doré, rosso e rosato. I rossi sono a base di Grenache, Macabeo e Malvasia. Il Rivesaltes rosso, dopo la vinificazione viene messo sia in grandi botti di rovere sia in damigiane non impagliate (bonbonnes) da 30 l. Lasciato per circa 30 mesi all’aperto, il vino subisce tutte le variazioni della temperatura estiva e invernale, acquisendo un sentore ossidato chiamato: «rancio».

    A Rivesaltes si produce anche un Moscato con i vitigni Moscato d’Alessandria e il Muscat à petit grains, dai profumi di limone e miele, invecchiando i profumi si trasformano in un gusto di arance amare. Il Moscato di Frontignan proviene dall’omonima città presso Sète, il vino deve avere almeno 15% vol., dei quali dal 5 al 10% acquisiti con il «mutage». Ricordiamo ancora i Moscati di Lunel, di Mireval e quello di Saint-Jean-de-Minervois, prodotto con uve sovramature.Curioso è il sapere che nelle vigne è proibito piantare alberi da frutto, pena la perdita dell’A.O.C., e infatti l’ombra degli alberi impedirebbe la piena maturazione delle uve.Non possiamo chiudere senza citare i vini di Banyuls, prodotti vicino al confine spagnolo con i vitigni Grenache e Macabeo. In questi vini il fenomeno della ossido-riduzione gioca un ruolo fondamentale, molto colorati, ricchi di tannini, con un fuoco d’artificio di profumi che spaziano dalla frutta secca, al caffè, al miele, questo vino si sposa meravigliosamente con tutte le combinazioni del cioccolato, ma ve lo consigliamo con un’anatra laccata alla cantonese.

    Cantina Terlan – Müller Thurgau
    Il Müller Thurgau, è stato ottenuto da un incrocio tra Riesling Renano e Madeleine Royal, dal Professor Hermann Müller di Thurgau. Nel 1939 fu introdotto in Italia dove si diffuse rapidamente, grazie alla sua precocità di maturazione e all’elevata e costante produttività accompagnata da una leggera aromaticità.
    Il Müller Thurgau, della Cantina Terlan (BZ), matura su lieviti in recipienti d’acciaio. La terra sulla quale viene coltivato questo vitigno è composta soprattutto da quarzi e sasso antico, che trattengono il calore del giorno.
    Il vino che abbiamo degustato offre ottimi spunti di piacevolezza.
    Di colore giallo tenue con riflessi verdognoli, al naso fa emergere il frutto giallo, albicocca in particolare, ma anche erbe di montagna e leggeri ricordi sia vegetali sia minerali. Al palato è fresco ed elegante, piacevolissimo con una lunga fase retro gustativa. È ottimo come aperitivo, ma vista la stagione, lo consigliamo vivamente con tortini o frittate di verdura, tempura di verdure e con formaggi di latte vaccino giovane.
    / Davide Comoli

  • Nel 1850 la tecnologia entra in cantina

    Vino nella storia – Durante il XIX secolo molte innovazioni hanno modificato la pratica della viticoltura e della vinificazione

    Alla fine del 1800 la viticoltura e l’enologia ricevettero un forte slancio. Si pubblicarono articoli, si fondarono Stazioni enologiche sperimentali e Scuole di enologia, e non da ultimo furono dati alle stampe molti volumi inerenti a queste materie. Nel 1875 fu pubblicato a Casale Monferrato il primo settimanale nazionale di viticoltura ed enologia: «Il Giornale Vinicolo Italiano». E ancora nel febbraio dello stesso anno, si tenne a Torino il primo Congresso enologico: fu l’occasione per un confronto di opinioni sul futuro dell’enologia, sia da un punto di vista tecnico sia da quello commerciale.

    Il Congresso sostenne una precisa divisione del lavoro. Si auspicava una separazione dei ruoli e una forte specializzazione. I vignaioli dovevano occuparsi delle vigne e vendere le uve a vinificatori professionisti, che a loro volta dovevano essere organizzati in importanti aziende dirette da enologi competenti, affiancati da esperti di mercato. Inoltre, in futuro, si sarebbero studiati i gusti dei consumatori stranieri, in modo tale da poter fornire prodotti atti a soddisfarli.

    Anche il settore della tecnologia enologica registrò in quel periodo un forte impulso, a partire dalla pigiatura e pressatura delle uve. Già nel 1823 l’ingegnere Ignazio Lomeni aveva presentato all’Istituto di Scienze di Milano un prototipo di macchina per la pigiatura, la quale, attraverso due cilindri di legno scanalati che la componevano, non lasciava passare acini non pigiati né schiacciava in modo indiscriminato i vinaccioli e i raspi insieme agli acini.

    In quel periodo, si stava infatti affermando nella vinificazione in rosso la diraspatura.

    Interessante, si dice, fu il dibattito sulla macerazione, svolta in contenitori di legno o in muratura, a tino coperto o scoperto, a vinaccia sommersa e sul contatto tra mosto e parti solide, temperatura e rimontaggio.

    Si procedette a sperimentare coadiuvanti per l’illimpidimento e la stabilizzazione, perché il mercato continuava a richiedere una maggiore quantità di vino in bottiglia per i quali stabilità e limpidezza erano di primaria importanza.

    Anche la filtrazione vede, a fine 1800, una significativa evoluzione passando ai filtri di carta o cellulosa come i filtri di Siegel, Krauss o l’Albach. Nel 1881 a Conegliano, in una mostra di meccanica enologica, fu presentato «un misuratore di vino» e due anni dopo lo stesso inventore, Giuseppe Garolla, presentò la celeberrima pompa irroratrice, innovativa per la lotta antiperonosporica che porta il suo nome. Grandissimo successo riscosse anche la sua pigiatrice-diraspatrice, alla quale seguirono l’enofollatore e un nuovo torchio continuo.

    L’avanzata tecnologica portò anche studi innovativi sulla produzione dei vini spumanti. All’ideazione di apparecchi che servissero a realizzare questa tipologia di vini, si applicarono personaggi famosi nel mondo enologico come il francese Charmat, Antonio Carpenè e Federico Martinotti.

    Le prime autoclavi, realizzate in acciaio smaltato e ghisa per la fermentazione degli spumanti, furono introdotte solo nel 1920, dopo la Prima Guerra Mondiale. Questo recipiente portava una grande novità: la rifermentazione del vino non in un recipiente piccolo come una bottiglia, ma in un grande recipiente (250 l circa) chiuso, a tenuta di pressione. Anche la storia dei recipienti da vino e dei loro materiali subì nuove svolte. A metà del 1800 nuovi materiali entrarono in cantina: intorno al 1860 il cemento cominciò ad affermarsi.

    Nel 1883 Giacomo Borsani brevettò un sistema di rivestimento interno delle vasche di cemento con lastre di vetro. Per quasi cent’anni il cemento diventò il principale materiale con cui erano realizzate le grandi vasche per il vino.

    Queste restarono in auge fino alla fine degli anni Sessanta, quando pur senza scomparire da molte cantine, cedettero il posto a un innovativo materiale, l’acciaio inossidabile, che cominciò a trovare molte utilizzazioni in cantina; sino ai grandi serbatoi delle autobotti adibite al trasporto dei vini.

    All’inizio del XX secolo, come già era stato preconizzato da Jules Guyot, si ebbe un passaggio dalle viti alberate a forme di pergole, alberelli a ventagli e a contro spalliere. La necessità di ricorrere al portinnesto e l’esigenza di difesa anticrittogamica e di una minima meccanizzazione spinsero verso l’allevamento in filari, con forme in grado di adattarsi, grazie a piccoli cambiamenti, a vitigni e situazioni diverse.

    Malbec-Terrazas de los Andes

    Senza dubbio originario del sud-ovest della Francia, il Malbec è il vitigno dominante a Cahors, ma è in Argentina che ormai è considerato il più coltivato, soprattutto nei vigneti terrazzati delle Ande, a un’altitudine che varia dai 700 ai 1100 m sul livello del mare, sopra la città di Mendoza.

    È uno spettacolo pittoresco quello che appare ai nostri occhi alle spalle di vigneti coltivati a Malbec, dove si stagliano coperte di neve le cime del Cordón de Plata e del Tupungato. Vinificato in purezza, il Malbec argentino ci regala un ventaglio di profumi caldi e avvolgenti, confetture di bacche rosse e nere, note affumicate, liquirizia, molto speziato, legato all’uso delle barriques.

    In bocca, il frutto maturo e l’alto contenuto alcolico contribuiscono a regalarci sensazioni morbide che addolciscono i tannini di cui è ricco il vitigno. Questo vino possente e generoso, può essere consumato (a differenza del Malbec di Cahors) abbastanza giovane. Lo consigliamo quindi in questa settimana che precede i riti di Pasqua, con i piatti tipici di questo periodo, capretto e agnello.

    / Davide Comoli 

  • I vini della Savoia

    Bacco giramondo – Dalle sponde del lago Lemano all’Alta Savoia per finire nella valle del fiume Isère

    I vini del paese degli Allobrogi (la Savoia) furono celebrati da due autori latini: Plinio il Giovane (ca. 62 d.C.-114 d.C.) e Columella (I sec. d.C.). Anche il principe dei gourmet dell’antica Roma, Lucullo (106-57 a.C.) in un suo banchetto fece servire i vini di questa regione. Non per niente i vigneron savoyardi sono fieri di questi titoli che la storia conferisce ai loro vini. A conferma di questo, nel museo archeologico di Aix-les-Bains, potrete trovare un’iscrizione risalente al II sec. a.C., che prova il legame tra la viticoltura e la presenza di Roma sul territorio.

    Intorno all’anno Mille sorsero nelle vallate alpine molti monasteri dove i monaci contribuirono a diffondere la viticoltura. Nel 1579 il Duca Emanuele Filiberto di Savoia stabilì un regolamento sui tempi e sulla modalità della vendemmia. Alla fine dell’Ottocento, la filossera (vedi articolo dell’11 marzo, «Azione» n° 11) decimò il patrimonio viticolo della Savoia, ma la ricostruzione avvenne in modo rapido con un sistema d’allevamento a pergola.

    Intervallati da campi di cereali e di pascoli vallonati, i vigneti s’inerpicano su buona parte dei dipartimenti della Savoia, dell’Alta Savoia, dell’Isère e l’Ain. La città di Chambéry è il naturale centro della regione, che conta circa tremila ettari vitati. Al nord i vigneti arrivano quasi a lambire le rive del lago Lemano, specchiandosi da costoni a strapiombo sulle acque. Altri vigneti sono concentrati intorno al lago di Bourget e alla città di Aix-les-Bains, così come a sud di Chambéry nella valle del fiume Isère.

    L’A.O.C. Vin de Savoie è dunque molto frazionata e include diciassette crus molto differenti tra loro, sia per importanza sia per caratteristiche organolettiche.

    Da ultimo, ma certamente non ultimo, non dobbiamo dimenticare di fronte al villaggio di Seyssel, sulla riva del Rodano, il famoso vigneto di Bugey, classificato con il prestigioso marchio VDQS (Vino Delimitato di Qualità Superiore).

    Le montagne portano inverni rigorosi e molta neve, gelate primaverili non sono infrequenti e anche la grandine può diventare una calamità, mentre le estati calde sono spesso molto umide. Tuttavia, il Lemano e il lago di Bourger, creano delle condizioni favorevoli alla viticoltura e i rilievi, accidentati da un versante all’altro, apportano differenti microclimi da un vigneto all’altro. I suoli della Savoia e del Bugey sono composti da calcare e argilla con una grossa mineralità, risultato di numerosi depositi glaciali.

    Questa regione della Francia, che fu italiana fino al 1860, adotta un sistema di viticoltura che s’ispira di più alla Svizzera che al Piemonte.

    I vini bianchi s’impongono largamente sui vini rossi. Le condizioni climatiche che abbiamo citato, aggiunte alle grandi escursioni termiche tra il giorno e la notte, hanno portato la gente del luogo a basare il loro lavoro in vigna su vitigni con un ciclo vegetativo breve. I vini della Savoia non posseggono grande personalità, ma sono molto piacevoli, soprattutto si abbinano bene alla cucina tipica di montagna: notevoli i drot, salsicce a base di frattaglie e carne di maiale, e la saucisse de Magland, senza dimenticare i formaggi di malga come il Reblochon, il Beaufort, il Tomme de Savoie e i Chevrotin. La Savoia è una regione dove l’acqua recita un ruolo importante, dove i torrenti e i laghi riforniscono le cucine di salmerini e persici cucinati poi in modo divino nei tipici ristorantini.

    Vecchia varietà bianca d’origine alpina, la Jacquère, è il vitigno più coltivato nella Savoia, con cui tra l’altro vengono prodotti due vini di grande considerazione come l’Abymes e l’Apremont, dai colori giallo-verdognoli, con profumi di fiori bianchi, vivaci, leggeri e di grande mineralità. La Molette o Gringet, eccellente vitigno autoctono bianco, ottimo per la produzione di spumanti «metodo Charmat», può essere considerato la versione savoiarda del Savagnin. La Roussette, altro caratteristico vitigno della Savoia – il nome deriva dal colore dell’uva matura – viene pure chiamato Altesse; dice la leggenda che il vitigno fu importato da Bisanzio nel 1367, da Amedeo VI di Savoia. Dona vini dal profumo di bergamotto, nocciola e mandorle, come quelli gustati a Seyssel.

    Lo Chasselas prospera sulla rive del Lemano dal XIII sec.; usato come uva da tavola, fu dapprima criticato per la sua poca aromaticità, mentre oggi viene vinificato in purezza, seguendo l’esempio dei vini della confinante Confederazione Elvetica. Lo Chardonnay è stato introdotto solo agli inizi degli anni Sessanta, con lo scopo di rinforzare i profumi dei vitigni bianchi locali. Nel Bugey, piccola regione isolata tra i fiumi Ain e Rodano, troviamo la piccola città di Belley, famosa per aver dato i natali a Brillat-Savarin (1755-1826), dove l’autore della celebre opera Physiologie du goût possedeva una vigna poco distante dalla città. Qui lo Chardonnay, chiamato in loco Petite-Sainte-Marie, viene vinificato in purezza e produce un vino interessante.

    Tra i vitigni rossi, il più diffuso è senz’altro il Gamay, arrivato dopo la filossera insieme al Pinot Nero, ormai rari, ma si trovano ancora vini prodotti con l’antico Persan, che viene però usato in uvaggio con la Mondeuse, antico vitigno locale. La Mondeuse produce vini di carattere e profumo di pepe nero, descritto da Columella come un vitigno dalla maturazione tardiva: «de gelu maturescens», perché sovente le vendemmie avvenivano dopo la prima gelata. Ampelograficamente è molto simile al Refosco del Peduncolo Rosso del Friuli.

    È questa similitudine che c’incuriosisce; chi fu il «veterano» delle legioni di Roma che portò il vitigno in Friuli? O forse, il vitigno dal Friuli fu portato dalle legioni di Cesare tra le popolazioni Allobrogene? Difficile dare una risposta; consoliamoci quindi con un bicchiere da dove la Mondeuse, dai colori violacei, emana profumi di ciliegie nere, more e chiodi di garofano.

    Trentodoc Bouquet Brut
    Non c’è bisogno di guardare il calendario per sentire arrivare la primavera con i suoi profumi. Noi li abbiamo percepiti versandoci nel bicchiere il Trentodoc Bouquet Brut di Casa Pedrotti, 100 % di uve Chardonnay, di grande eleganza.

    Nomi è un piccolo comune in provincia di Trento. Qui – in un ambiente naturale roccioso, ampliato come deposito ai tempi della Prima Guerra Mondiale, si trova una cantina – definita Cattedrale dello Spumante dal compianto Luigi Veronelli – avvolta nel silenzio e a temperatura costante, dove nascono gli imperdibili spumanti di Casa Pedrotti.

    Il Bouquet rifermenta lentamente in bottiglia per circa 30-32 mesi a contatto con i lieviti. Il risultato è un vino dal perlage fine e persistente e dal colore giallo paglierino tenue.

    È all’olfatto però che abbiamo trovato le sue migliori caratteristiche, registrando note freschissime di frutta bianca, mela e pera, che vira nel floreale e nell’erbaceo, leggero di corpo, ma piacevole, con una fine nota di nocciola. Vino ideale agli aperitivi, accompagna divinamente piccola pasticceria salata e tempura di verdure.
    / Davide Comoli