Curiosità Archivi - Pagina 4 di 11 - Vinarte
  • «Campania Felix»

    Bacco giramondo – Una piacevole rassegna sui vini di questa regione italiana – Prima parte

    Affacciata sulla costa del Mar Tirreno la Campania è una regione dal territorio piuttosto eterogeneo, con le aree interne decisamente montuose, alle quali seguono in direzione ovest aree collinari e pianeggianti, fino a raggiungere la fascia costiera che scivola nel mare, dal quale emergono alcune isole di una certa estensione come Capri, Ischia e Procida.

    Ricco in genere di acque, il territorio campano è molto fertile e accoglie diverse colture agricole, tra le quali un posto di assoluto primo piano è quello ricoperto dalla vite, la quale ha scritto pagine indimenticabili nella storia della produzione del vino con nomi che sono rimasti indelebili nella memoria degli uomini come il Falerno, il Cecubo, il Caleno e altri ancora. Il nome Campania apparve nel V sec. a.C. e servì a designare il fertile territorio intorno a Capua, «l’ager campanis».

    Dal punto di vista storico-vinicolo, la zona più interessante della Campania è situata tra il monte Massico e il fiume Volturno. Molto probabilmente la coltivazione della vite in questa regione è antecedente al XII sec. a.C., quando prima gli Etruschi dal nord e dal centro, in seguito i Greci via mare, cominciarono a insediarsi in queste terre, dove trovarono popolazioni che già conoscevano l’arte della viticoltura: a loro fu sufficiente migliorare le tecniche di vinificazione e di coltivazione. Ne conseguì un’estensione della coltura di vitigni di grande pregio, tanto che più tardi, in età romana, i vini della «Campania Felix» allietavano le mense dei senatori e patrizi romani, ed erano considerati tra i più rinomati di  quell’epoca. Lo spazio tiranno non ci permette di parlarvi di questi vini, ma ci riserveremo il piacere di descriverli in altra sede.

    La caduta dell’Impero Romano e l’inizio del Medioevo vedono una crisi profonda dell’agricoltura, comune peraltro a tutta la Penisola. Intorno al X sec. d.C. si riscontra un certo risveglio: nel 1529 Sante Lancerio dà un quadro eccezionale dei vini campani citandone nella sua opera I vini d’Italia, ben 53 e quasi nello stesso anno Giovanni Battista Della Porta nel suo Villae Libri XII evidenzia la fiorente viticoltura campana. Con il sec. XVII, il panorama vinicolo si modifica e inizia un certo declino con la prevalenza di alcuni vitigni su altri.

    Solo verso la fine degli anni 70 del secolo scorso si ha un cambio di tendenza e nell’ultimo decennio la Campania sembra voler riprendere il ruolo di leader qualitativo della produzione vitivinicola che fu sua nei secoli passati. La varietà dei terreni e dei climi che questa regione offre determinano anche una straordinaria moltitudine di tipologie di vini e di caratteristiche organolettiche, anche nei vini che derivano da analoghi vitigni.

    Il vigneto campano si estende per ca. 24’000 ettari, i sistemi di allevamento più diffusi sono il guyot e il cordone speronato, ma resistono forme più antiche (l’Italia è la nazione al mondo con più forme differenti d’allevamento al mondo, Etruschi, Greci e Romani, hanno lasciato le loro tracce). Troviamo quindi la pergola e l’alberello, senza dimenticare l’alberata aversana, nella quale le viti si arrampicano su filari posti tra 2 pioppi, con i grappoli che si possono trovare fino a 15 m dal suolo. Probabilmente è la particolare conformazione dei terreni uno dei motivi dell’eccezionale varietà di vitigni autoctoni: sono più di 100 quelli riconosciuti, la maggior parte a bacca bianca, che danno una produzione estremamente frammentata.

    Questa valanga di vini, provenienti da zone differenti, trovano il giusto matrimonio con i piatti della cucina campana, considerata una tra le più salubri della gastronomia italiana, forse l’emblema della cucina mediterranea, ricca di colori e di profumi, in grado di regalare sensazioni saporose, sia con i piatti di terra che di mare.

    Andiamo quindi a conoscere qualcuno di questi vitigni allevati nel vigneto campano. Tra i vitigni a bacca bianca spicca la Falanghina: il nome viene associato a due «diversi vitigni» la Falanghina dei Campi Flegrei che dà vini delicati da bere giovani e la Falanghina del Sannio, i cui vini hanno più struttura e sono più longevi.

    Un altro vitigno interessante è il Greco, le cui uve maturano in ottobre e donano vini da bere in gioventù, ricchi di profumi fruttati e floreali (biancospino-gelsomino), ma notevoli soprattutto al gusto, con spiccata mineralità.

    Il Fiano è un vitigno che matura verso la fine di settembre, con le sue uve si ottengono vini molto interessanti, soprattutto a livello olfattivo, donandoci sensazioni di straordinaria complessità. Il Coda di Volpe deve il suo nome alla forma del grappolo, utilizzato spesso in uvaggio con la Falanghina; viene, soprattutto nella provincia di Benevento, vinificato in purezza e dona vini morbidi e di corpo. L’Asprinio è un vitigno antichissimo, già il nome dice tutto sulla sua acidità, questa sua particolarità lo rende adatto alla produzione di vini spumanti piacevolmente profumati.

    Il Pallagrello Bianco, regala note aggrumate e di frutta esotica ai vini in cui viene usato come uvaggio. Andremo prossimamente alla scoperta delle zone dove questi vitigni vengono allevati, in modo da conoscere meglio questa regione che racconta storie di civiltà millenarie.

    Tra i vitigni a bacca nera il più diffuso è l’Aglianico, che ha nella tannicità e nella potenza le migliori prerogative del vino prodotto, che possono essere diverse a dipendenza dell’ambiente pedoclimatico e che per la sua complessità ha pochi eguali nel panorama enologico.

    Il Piedirosso, chiamato localmente «Per’ e Palummo» (piede di colomba) per il colore rossastro della parte alta del raspo, è l’uva più diffusa nella provincia di Napoli, soprattutto nelle isole, il vino prodotto esprime profumi di frutti a bacca rossa (ciliegie) con tannini delicati.

    Altri autoctoni sono il Pallagrello Nero, il Casavecchia, la Guarnaccia il Tintore e lo Sciascinoso, che rappresentano ottimi complementari per la produzione di vini ottenuti dalle uve più coltivate. Soprattutto in provincia di Salerno troviamo anche il Merlot, il Sangiovese e il Cabernet Sauvignon.

    Scelto per voi

    Rosato Alghero

    Con i suoi quasi sette milioni di bottiglie prodotte, Sella & Mosca è la più grande realtà produttiva della Sardegna. Negli ultimi anni ha conosciuto un’importante crescita qualitativa, focalizzata soprattutto su bianchi prodotti con uve tradizionali, ma il grosso della produzione è rappresentato da vini rossi. Oggi per voi abbiamo scelto il Rosato Alghero, prodotto con la vinificazione in rosato delle uve Sangiovese e vitigni autoctoni. È un «blend» dal colore rosato buccia di cipolla, fragrante e delizioso, dai profumi di lamponi, mele e petali di rose, con un’intrigante intreccio aggrumato e un nonsoché di profumo di mare. Al palato è salino e fresco con un finale lungo e piacevole. Il Rosato Alghero è un ottimo vino da usare come aperitivo per le prime tipiche serate all’aperto, ottimo con pomodori e melanzane gratinate, Caesar salad con pollo e noi lo consigliamo con brodetti o zuppette di pesce. Provatelo con una «zuppa di vongole o cozze» dove entrano i pomodori, aglio, prezzemolo, olio extravergine d’oliva e fette di pane abbrustolito.

    / Davide Comoli

  • Magister bibendi, il cerimoniere

    Abbandonando il ruolo di moderatore nei dibattiti filosofici che aveva nel symposion greco, rimane la figura del «simposiarca» che però a Roma si chiama Magister bibendi, che tende ad assumere in modo più marcato il profilo di vero e proprio antenato del sommelie

    Come nella lingua greca, dove vengono usati due distinti termini: àeraton per il vino puro e òinos per la bevanda a cui era stata aggiunta acqua, anche nella lingua latina, durante la cerimonia di preparazione del vino da servire, troviamo due voci diverse. Merum era il vino puro, derivato dalla vendemmia e conservato in anfora, vinum era invece la bevanda che miscelata con acqua, veniva servita a tavola. E come accadeva presso i greci, sulle tavole di Roma, nessuno beveva del merum senza allungarlo con l’acqua a meno che l’annata fosse stata funestata da piogge torrenziali e quindi il mosto che ne usciva, dato la povertà delle uve, era già stato allungato in cantina (Marziale ep. 1,56).

    L’acqua con cui tagliare il merum doveva essere di ottima qualità, e a questo punto vorremmo far notare ai lettori come nessun popolo abbia mai avuto a disposizione giornalmente tanta acqua quanto i romani, soprattutto in epoca imperiale, si parla di ca. 1000 l al giorno per cittadino. Ci permettiamo di citare i principali acquedotti che fornivano Roma: Aqua Appia (312 a.C.), Anio Venus (272 a.C.), Aqua Marcia (146 a.C.), Aqua Julia (35 a.c.), Aqua Virgo (22 a.C.), Aqua Claudia e Anio Nova (38-52 d.C.), volute da Caligola e da Claudio.

    Il merum che saliva dalle cantine contenuto nelle anfore di una forma che potevano essere trasportate per mano o nei pithoi di dimensioni più piccole. In media erano dei contenitori della capacità di 20-30 litri, resi impermeabili con strati di pece o resina, spalmato sulle pareti interne, dai quali al momento del consumo, il merum veniva travasato in recipienti da tavola filtrandolo con appositi colini. Il travaso era una vera e propria cerimonia e come tale veniva celebrata dal magister bibendi, e vissuta dai commensali che assistevano. Era insomma l’occasione, come succede oggi in certe degustazioni, per esibire un po’ di teatro.

    La filtrazione era molto importante, non solo per separare il liquido dalla feccia, che nel tempo si era andata a depositare sul fondo dell’anfora, ma anche per eliminare i frammenti di pece o resina che si erano eventualmente staccati dalle pareti interne, ed anche perché a quel tempo non esistevano i tappi né cavatappi, aprendo quindi la bocca dei contenitori si doveva per forza far cadere all’interno dello stesso dei pezzetti di argilla, calce o ceralacca con cui erano state tappate.

    Il magister bibendi su di una tavola attingeva da un’hydria l’acqua, versandola in dosi che reputava giuste in un «cratere» mischiata al merumpreparando così il vinum. Sul pianale c’erano pure delle ciotole contenenti miele per addolcire il vinum e diversi aromi vari come il finocchio selvatico, farina di mandorle, origano, artemisia, ecc., inoltre c’era una serie impressionante di mescoli e altri colini. La preparazione del vinum da parte del magister bibdendi, potrebbe essere paragonata alla performance fatta da un abile sommelier dei giorni nostri, durante la decantazione di un vino maturo.

    Una volta completata e resa omogenea la miscela, la si poteva attingere direttamente dal «cratere» oppure servito in un oinoche, per mezzo di uno schiavo detto minister vini, che lo versava nei vari vasi potori.
    In ogni banchetto era presente un arbiter costui stabiliva la quantità d’acqua da aggiungere. Lo faceva per evitare che una ubriacatura collettiva facesse degenerare il convivio. L’arbiter veniva scelto di volta in volta tra i commensali, ma siccome aveva l’obbligo di restare assolutamente astemio, di certo possiamo affermare che la carica non fosse molto appetita. Andò che alla fine si decise di affidare la designazione ad un sorteggio per mezzo di dadi.

    Simile al nostro bicchiere era il poculum, all’inizio di legno o di terracotta e più tardi di metallo o vetro. Molto usato per il vino era anche lo scyphus, una coppa fornita in anse. Per i raffinati c’era la phiala, una piccola coppa senza anse, ma in argento o addirittura in oro, un po’ meno popolare e meno larga della «patera», usata più che altro in ambito liturgico. Il calix spesso fornito di anse, era molto simile alle odierne (un po’ passate di moda) coppe per il moscato, ed è entrato a far parte della liturgia cristiana, così come il ciborium, una coppa modellata sul baccello di un frutto proveniente dall’Egitto (colocasia). Di capacità superiore al calix era il canthàrus (che era attribuito a Dioniso nelle varie raffigurazioni) ed era una coppa su un piede elevato così come il carchesium, caratterizzato dalle grandi anse che dal bordo scendevano fino alla base. Inoltre c’erano il cymbium e lo scaphium, sorta di bicchieri dalla forma di barca, riservato ai vini più pregiati, per le fastose cerimonie liturgiche veniva usato il rhytium un corno ornato d’oro. Per la ristretta cerchia delle persone ricche, per bere venivano usate le diatretae, delicatissime coppe di cristallo.

    Senza la pretesa di formulare giudizi, ci sembra di poter arguire che la bevanda chiamata vinum sorseggiata dai romani (ne parleremo prossimamente in modo dettagliato), aveva ben poco in comune con il vino a cui si è abituato il nostro palato. Nell’85 d.C. a Roma nel Forum Vinarium (possiamo affermare che fu la prima Enoteca al mondo), si elencavano più di 155 vini di diversa provenienza. Nei giudizi del più conosciuto studioso di problemi agricoli dell’epoca Columella Lucio Giunio Moderato (Cadice I sec. a.C. – Roma I sec. d.C.), che ci ha lasciato un trattato che riveste enorme importanza «L’arte dell’agricoltura» sta scritto: «Siamo costretti a bere il vino delle Cicladi, delle contrade iberiche e della Gallia. L’agricoltura sta infatti decadendo proprio perché quel poco che si fa è affidato agli schiavi, grandi proprietari non si occupano di niente se non di gozzovigliare e i cittadini non amano più il lavoro della terra».

    Scelto per voi

    Sauvignon

    Le origini dell’Abbazia di Novacella risalgono al 1142, quando il vescovo Hartmann ne fece la sede dell’Ordine Agostiniano.

    Novacella è la zona vitivinicola più a settentrione d’Italia: sui pendii che circondano il complesso, da secoli le vigne regalano pregiate uve bianche vinificate nella cantina dell’Abbazia. Questa settimana abbiamo scelto per le vostre tavole questo profumatissimo Sauvignon.

    Il vino si presenta con un colore giallo paglierino e all’olfatto si percepisce un bouquet di rara complessità, con aromi erbacei-varietali. Si percepiscono infatti profumi floreali-fruttati che s’intrecciano a note minerali e spezie dolci.

    Al palato stupisce la sua freschezza avvolgente, supportata da una lunga persistenza gusto-olfattiva tipica dei vini di questa zona altoatesina. Visto il periodo raccomandiamo di abbinarlo alle varie preparazioni dove l’ingrediente principe è «l’asparago», ma anche sui vari sformati di prodotti dell’orto.

    / Davide Comoli

  • Da secoli terra di vino

    Bacco Giramondo – Cuore della cultura mediterranea, la Puglia è ideale per la viticoltura

    La collocazione strategica della Puglia rivolta a oriente ha influenzato nel bene e nel male lo sviluppo di questa regione. Se da una parte ha favorito i contatti con altre civiltà, l’ha però sottoposta a pericolose scorribande di invasori. I mercanti fenici, che sbarcarono in Puglia nel 2000 a.C. circa, apportarono l’introduzione di nuovi vitigni e tecniche di coltura più efficienti. Un ulteriore apporto simile lo dettero anche i coloni greci, molto probabilmente colti da meraviglia nel trovare lussureggianti vigne e buoni vini.

    L’occupazione romana trovò dunque un territorio dove la viticoltura donava vini sicuramente gradevoli, tant’è che furono lodati da Orazio che li paragona al Falerno, da Plinio che lodò in particolare i vini di Taranto, e dal poeta Marziale che esaltò i vini di quelle «felici vigne». Anche dopo la caduta dell’Impero Romano, la viniviticoltura pugliese non subì forti tracolli e addirittura, nel 1194, con l’illuminato regno di Federico II di Svezia (grande appassionato tra le altre scienze di viticoltura) furono favorite la sperimentazione e la diffusione di nuovi vitigni.

    Incessante fu nei secoli successivi l’attività vitivinicola che trovò addirittura un particolare impulso quando nel XIX secolo l’Europa viticola fu messa in ginocchio dalla devastazione fillosserica. Ma anche in Puglia, un po’ più tardivamente, nel 1919, si abbatté infine il terribile flagello: ci vollero decenni con un’instancabile attività da parte dei viticoltori per ripristinare l’antico patrimonio vitivinicolo. Negli anni Settanta iniziò la riscossa enologica della Regione. Con i suoi quasi 87mila ettari vitati (il 15% del totale italiano), oggi il vigneto pugliese si distribuisce anzitutto in pianura 70% e in collina 29,5%.

    Negli ultimi anni si sta diffondendo il sistema d’allevamento a spalliera, anche se soprattutto nel Salento e in qualche zona del Barese resiste l’alberello e, per l’uva da tavola, il tendone.

    È da qualche anno ormai che si sente parlare di rinascita o se preferite rivoluzione del vino pugliese, questa regione che rappresenta il cuore della cultura mediterranea, è il luogo ideale per produrre vino, senza dimenticare la produzione dell’olio extravergine di ottima qualità. Dal punto di vista ampelografico c’è una valorizzazione sempre più convinta dei vitigni autoctoni.

    Tra le varietà a frutto nero ricordiamo, il Negroamaro, il Primitivo (forse imparentato, ma la questione è controversa, con lo Zinfandel della California), la Malvasia Nera, il Bombino Nero, il Somarello, l’Aleatico e l’Ottavianello, l’Uva di Troia e poi i soliti internazionali con il Montepulciano d’Abruzzo e il Sangiovese.

    L’inserimento di vitigni internazionali, le tecniche in vigna e in cantina perfezionate nel corso degli anni, hanno portato una crescita qualitativa anche nella produzione di uve a bacca bianca, tra le quali citiamo la Malvasia Bianca, la Verdeca, il Bombino Bianco, il Trebbiano Toscano, il Pampanuto, il Fiano Minutolo che non ha nulla a che fare con il Fiano campano, ma su sfondo leggermente muschiato; sul vino prodotto, percepiamo note di fiori bianchi, camomilla, bergamotto e litchi, molto interessante da provare con le tipiche «orecchiette con le cime di rapa». Non dobbiamo però dimenticare soprattutto, per la loro finezza dei profumi e la loro fragranza, i vini Rosati. Dai primi rosati da Negroamaro Malvasia Nera prodotti nel 1943, oggi questi vini dai colori che passano dal cerasuolo al corallo, sono molto richiesti e sono spesso i protagonisti nei matrimoni con la cucina della Regione, fatta di gustosi piatti di terra e di mare, da provare con le «zuppe di pesce» sia a Gallipoli sia a Brindisi.

    Appena superato il confine con il Molise, si entra nella Capitanata (l’antica Daunia) che corrisponde alla provincia di Foggia. Qui troviamo denominazioni consolidate come quella di San Severo alla quale da non molto si è aggiunta la D.O.C. Tavoliere delle Puglie. Le due zone stanno molto valorizzando la varietà locale a bacca nera chiamata in loco Sumarello, ma a tutti conosciuta come Uva di Troia, usata per la produzione di ottimi rossi e rosati in purezza.

    Quasi alle porte di Foggia di Lucera, troviamo il Cacc’e Mmitte (leva e metti) prodotto con Uva di TroiaMontepulciano e altre varietà a bacca rossa, usando un’antica pratica di vinificazione; è un po’ raro da trovare, ma se avete la fortuna provatelo con formaggi come il «canestrato», il caciocavallo podolico o con un pecorino stagionato.

    Il comprensorio settentrionale della provincia di Bari è dominato dall’antico castello di Federico II. Il Castel del Monte è un’area degradante della Murgia. I vini rossi più longevi e più complessi nascono da Uva di Troia e Aglianico, oppure da un «blend» tra una di queste varietà con il Montepulciano. Da provare pure l’ottimo rosato prodotto con il Bombino Nero, come pure i vari bianchi prodotti con Bombino BiancoPampanuto e i vari ChardonnayPinot Bianco e Sauvignon Blanc. Se potete, fermatevi poi a Trani a gustare il Moscato dolce dai profumi di zagara.

    Nella parte inferiore della Murgia Centrale, troviamo le D.O.C. GravinaGioia del ColleMartina Franca e Locorotondo (sempre in provincia di Bari), i vini più prestigiosi sono prodotti con il Primitivo che dona prodotti molto eleganti. Nella I.G.P. Murgia e Valle d’Itria, che si trova a cavallo tra le province di Bari, Taranto e Brindisi, con i vigneti VerdecaMalvasia BiancaMinutoloBianco d’Alessano, si producono gradevolissimi vini bianchi da abbinare alla classica «burrata» pugliese.

    Nelle soleggiate terre intorno al Golfo di Taranto, il Primitivo tocca vette di assoluto rilievo; a Manduria antichi ceppi di questo vitigno offrono vini imperdibili, ottimo con il «capretto al rosmarino» e se volete deliziarvi, provate pure il Primitivo di Manduria Dolce Naturale, con «fichi secchi mandorlati ricoperti di cioccolato fondente».

    Passando attraverso le Colline Joniche Tarantine si arriva nel Salento, a Salice Salentino, con le uve di Negroamaro lasciate sovra-maturare nella vigna, per donare la tannicità del vino prodotto, abbiamo gustato vini eccellenti. Qui nell’Alto Salento la terra è votata in modo particolare alla viticoltura, siamo in provincia di Brindisi e la Malvasia Nera con il Primitivo e il Susumaniello, per i vini rossi e rosati, la Malvasia Bianca, il Fiano, il Minutolo, per i bianchi, offrono un ventaglio eccezionale di degustazione.

    Non lasciate questi luoghi senza aver provato lo «strudel di ciliege» con l’Aleatico dolce. Nel Basso Salento, in provincia di Lecce, il Negroamaro regna incontrastato; ottimi pure i vini bianchi prodotti con vitigni locali, il Sauvignon e lo Chardonnay, da provare con piatti che trovate sulla costa a sud di Gallipoli, dove la gastronomia profuma di sapori mediterranei.

    Scelto per voi

    Scalandrino – Vermentino

    In provincia di Grosseto troviamo la Maremma per eccellenza, accogliente angolo di natura da scoprire, con la sua campagna suggestiva e dai suoi paesi in tufo. A Magliano in Toscana (località Banditaccia), troviamo la fattoria Mantelassi, all’interno di un paesaggio costellato di ulivi e vigneti.

    Accanto ai vini classici che riescono a esprimere un’idea precisa del territorio, qui troviamo lo Scalandrino, un Vermentino della Maremma. Fermentato in botti di rovere 4/6 settimane, è di un giallo paglierino intenso. Fragrante e molto fruttato, con note di pesca bianca, frutta esotica e accenti di pietra focaia, fresco, dal gusto salino, di buon corpo e vogliamo aggiungere di «pericolosa» bevibilità, da continuare a berne.Lo raccomandiamo per accompagnare un’insalata di mare o un risotto alla marinara; noi l’abbiamo provato con una frittura di mare, una meraviglia!

    / Davide Comoli

  • L’antica Roma, tra divieti e trasformazioni

    Vino nella storia – Nell’Urbe, dove la donna per molti anni avrà la proibizione di bere il nettare di Bacco, il ruolo di questa bevanda si trasforma da scioglilingua a piacere per il palato – Prima parte

    Racconta Catone il Censore (234-149 a.C.) autore di Liber de agri cultura, che nella Roma dei tempi di Romolo, i mariti potevano far valere sulle mogli il cosiddetto «ius osculi», il diritto del bacio. Il singolare privilegio aveva ben poco di romantico e non era di certo il preliminare di una qualsivoglia forma di approccio a scopo sessuale. In modo molto più prosaico si trattava di un controllo sul contenuto della cantina, dal momento che un bacio sulla bocca della moglie costituiva il modo più semplice per accertarsi se ci fosse stata violazione di uno dei divieti più rigorosi imposti dalla legge di Roma alle sole donne: vietato bere vino.

    Oggi ci scappa un sorriso pensando a quell’usanza, ma la cosa è più seria di quanto potrebbe sembrare, perché accertata la violazione le conseguenze erano molto spiacevoli. Plinio, il Vecchio, nel suo Naturalis Historia (Liber XIV – 1313) riporta: «La moglie di Egnatius Metellus, per aver bevuto vino da una botte, fu uccisa a bastonate dal marito, che Romolo assolse dall’imputazione di assassinio». E ancora Plinio ci informa che in tempi meno sanguinari «il giudice Gneo Domizio (192 a.C.) sentenziò che una donna aveva bevuto, all’insaputa del marito, più di quanto richiedesse il suo stato di salute e la condannò all’ammenda della sua dote». Che era pur sempre una grande legnata per la poveretta.

    Per assurdo che possa sembrare ai giorni nostri, quella legge era stata suggerita da problemi reali, facili peraltro da decifrare. Ai tempi della fondazione di Roma (754 o 753 a.C.), i luoghi in cui sarebbe sorta l’Urbe, erano una zona popolata da pastori, con un’agricoltura quasi inesistente. Per questo la vite, nel suo lungo cammino verso il nord della Penisola, aveva «saltato» la regione, installandosi invece in Etruria.

    Quando più tardi l’insediamento fondato da Romolo si era sviluppato lungo il corso del Tevere e aveva assunto l’aspetto di una città, il vino era considerato un bene che poteva, tramite l’importazione, essere usato con parsimonia. Così ci informa Plinio: «che Romolo libasse con il latte e non con il vino».

    Il vino nell’Urbe, come bene corrente arrivò solo in un secondo tempo nei bagagli di Numa Pompilio, etrusco e secondo re di Roma (715-672 a.C.) che oltre i campi volle che una vite, un fico e un olivo, fossero piantati come gesto simbolico nella piccola piazza che sarebbe diventata il Foro.

    Peraltro al frutto della vite, la Roma delle origini, dovette qualche dispiacere, infatti in poco più di cent’anni, l’area dei sette colli era stata occupata con grande facilità almeno due volte. La prima dalle armate dell’etrusco Porsenna e poi dai Galli di Brenno, il quale ai romani che timidamente mercanteggiavano, oppose il ferro della sua spada e l’inesorabile: «Vae victis!» (Guai ai vinti!). Quella volta gli dèi dell’Olimpo chiusero un occhio mandando Furio Camillo, che sopraggiunse mentre i Romani stavano pagando i tributi e che «con il ferro e non con l’oro» riuscì a salvare la patria. Ma torniamo al vino: con l’andar del tempo perfezionarono i loro sistemi di viticoltura e diventarono maestri anche nella sua produzione.

    Tutto è narrato con meticolosità dai vari Catone, Varrone, Columella, Plinio, solo per citarne qualcuno. Da notare però che anche in momenti più tecnicamente avanzati, la vendemmia e la pigiatura mantennero sempre il carattere di una solennità religiosa, dove il mistero della fermentazione conferiva sacralità al vino. Alla vite e alla viticoltura, erano preposti alcuni «dèi minori»: la dea Puta presiedeva alla potatura e il dio Termine presiedeva ai paletti che delimitavano le vigne, mentre ovviamente Bacco (Dioniso) per i latini, era a capo di tutto.

    Il vino incominciò a circolare in abbondanza sulle mense di Roma, al punto che la città arrivò a dotarsi di un «portus vinarius» (visitate Ostia antica) per l’arrivo e lo stoccaggio dei vini e di un «forum vinarium» per le contrattazioni. Da notare comunque che il commercio di vini restò in mano a quegli abili commercianti che erano gli Etruschi, come testimonia un’iscrizione del 102 a.C., la quale ha consentito di identificare i resti di un «magazzino del vino», in prossimità del Lungotevere della Farnesina, denominato «Cellae Vinariae Nova et Arruntiana»: il termine «Arruntiana» indica il nome Arrunte, di un certo etrusco che ne era il proprietario.

    Si andava affinando anche il palato dei consumatori e di conseguenza i vini venivano collocati in una graduatoria che ne riflettevano le qualità e più ancora i dettami della moda. Così pur avendo vigne sulle porte di casa, e cioè lungo le pendici dei Colli Albani, i gusti di Roma si orientavano piuttosto su vini prodotti e provenienti dalle isole dell’Egeo o dalle campagne della Magna Grecia.

    Questo, senza ombra di dubbio dimostra ancora una volta l’importanza che ebbe il vino nella società romana e greca.

    Anche la copiosità di vasi, anfore, brocche, crateri, mestoli, colini, coppe e ciotole, mantengono le stesse funzioni con gli stessi nomi greci. I musei ne sono pieni, testimoni del culto per la tavola.

    Quello che però ci colpisce è che a Roma sparisce il «symposion» inteso come incontro finalizzato al piacere di bere e conservare. Il vino non è più considerato soltanto come un mezzo per meglio stimolare la lingua e il cervello e neanche la conversazione libera e disinvolta. Nell’Urbe si mangia e si beve (come si fa oggi) senza secondi fini, per il solo piacere della gola e il poter partecipare a un rito collettivo.

    Il vino scorre a fiumi, ma non è più con una finalità «parafilosofica», ma alimentare, dove la figura del «simposiarca» a Roma si chiamerà «magister bibendi».

    Scelto per voi

    Triade

    Sulla sponda del fiume Ticino, sulle prime pendici del Ceneri che sovrastano la piana di Magadino, Davide Ghidossi, laureato a Changins, continua l’opera iniziata dal padre Gianfranco. Con grande passione, con uve provenienti da Cadenazzo, ha prodotto l’ottimo vino che vi presentiamo questa settimana.

    Triade è un vino affinato in barriques di secondo passaggio per 16 mesi. Tre sono i vitigni vinificati separatamente che lo compongono (da qui il nome), il Merlot, principe dei nostri vigneti, il Diolinoir (Robin Noir x Pinot Noir) e Gamaret (Gamay x Reichensteiner). L’unione dei tre vini ci dona un prodotto ricco di colore e di corpo, mentre i ricchi profumi di bacche rosse arricchiscono il Triade, con note speziate che restano a lungo nelle narici: caldo e piacevolmente fresco, dai tannini presenti e setosi. Lungo è il suo finale in bocca e per la sua struttura può rimanere qualche anno nella vostra cantina. Noi però lo vogliamo bere in questo periodo, come accompagnamento al «capretto nostrano» al forno o con delle costolette d’agnello al timo e rosmarino.

    / Davide Comoli

  • Dal più nobile dei vini siciliani

    Bacco giramondo – Marsala, Malvasia delle Lipari, Grillo, Mozia, Zibibbo, Frappato, Nero d’Avola e tanti altri – 2a parte

    Negli ultimi due decenni, la vitivinicoltura sicula ha fatto passi da gigante; un ruolo importante, oserei dire determinante, è stata l’introduzione dei vitigni internazionali, che magari in uvaggio con i vitigni tradizionali dell’isola hanno ridato nuova linfa alla produzione vitivinicola.

    Per chi non conosce l’isola consigliamo di seguirci in questo ipotetico percorso per meglio conoscere le zone vitivinicole di questo territorio affascinante, ricco di storia e di cultura, dove il sole lancia i suoi strali ardenti permettendo ai grappoli di maturare in modo ottimale e uniforme. Una prima parte è stata già esplorata nell’articolo del 1. marzo.

    La provincia di Trapani occupa circa la metà della superficie vitata dell’isola (45 per cento) e produce inoltre la maggior percentuale di vini D.O.C. in Sicilia, grazie soprattutto al Marsala, vero ambasciatore di questa provincia. Il Marsala, il più nobile dei vini siciliani, fu scoperto nel 1773 da John Woodhouse, un intraprendente inglese di Liverpool. È questo un vino da gustare con formaggi erborinati, soprattutto di capra.

    Vitigno simbolo del Trapanese è però il Grillo, che matura lungo i litorali sabbiosi/rocciosi della costa tra Marsala e Mazara del Vallo, fino alle colline calcareo/argillose lungo la strada che porta ad Alcamo. Trapani è un grosso distretto diversificato sia nella produzione sia nel paesaggio. Non si può lasciare questa provincia senza aver provato l’emozione di gustare il vino di Mozia (vino dei Fenici), riprodotto da un vecchio vigneto di uve Grillo, nella minuscola isola di San Pantaleo, situata sull’estrema punta dell’isola in un angolo ricco di sale e iodio. Il vino di Mozia riemerge dal passato, agli albori dell’enologia; è dolce e gradevole, con sentori di pistacchi, fichi secchi e sfumature di miele selvatico, da gustare con i dolci a base di mandorle di Erice.

    E che cosa dire, in questa dolcissima Sicilia, dello Zibibbo (dall’arabo Zabib, uva passa)? Così viene chiamato il Moscato d’Alessandria, coltivato sui terreni vulcanici dell’isola di Pantelleria. Il mio consiglio? Provate a creare un delizioso abbinamento tra questo dolce nettare e la classica «cassata siciliana».

    Scendendo verso sud, sulla strada che conduce a Sciacca, attraversata la foce del fiume Belice, entriamo in provincia di Agrigento, ricca di mare e cielo azzurro. Qui si respirano profumi balsamici che predispongono gli animi per meglio gustare i vini prodotti a Santa Margherita del Belice, Sciacca, Sambuca di Sicilia e Menfi con i sapori mediterranei della cucina locale.

    La base ampelografica è costituita per l’80 per cento di uva a bacca bianca: Catarratto, Trebbiano Toscano, Inzolia. Tra quelle a bacca rossa prevale invece il Calabrese (Nero d’Avola) e il Nerello Cappuccio.

    Dopo aver fatto degustazioni nelle varie cantine intorno al lago Arancio e a Sambuca, non perdetevi l’occasione di fermarvi a bordo mare nel villaggio di Porto Palo: indimenticabile resta nella nostra mente il grosso dentice al forno, condiviso con l’amico Paolo e altri, innaffiato dall’ottimo bianco locale.

    Dalla Valle dei Templi, prendete verso nord, attraversate Canicattì e raggiungete Caltanissetta. Quarta per quantitativi prodotti, è una zona in forte espansione sia per uva da tavola (allevata con grosse pergole) sia per uva da vino: curiosi i Barbera e i Sangiovesi provati qui; ottimo il rosso Frappato abbinato a eccellenti caciocavallo e formaggio pecorino; pranzo concluso con il classico amaro Averna prodotto in loco.

    Interessanti in provincia le D.O.C. Butera e Riesi. Poco più a nord-ovest raggiungiamo Enna, qui la viticoltura raggiunge i 1100 m s/m e le basse temperature primaverili possono danneggiare le viti. I comuni vitivinicoli più importanti oltre a Enna sono: Nicosia, Aidone e Piazza Armerina. Ma per appassionati di storia come noi, non possiamo lasciare la provincia senza fermarci a Centuripe, dove intorno al VI sec. a.C. fu scritta per la prima volta (in Italia) la parola «OINOS» (vino) sul coperchio di un otre di terracotta.

    Il vero leader dell’area vitivinicola Siracusana e Ragusana è il Nero d’Avola con l’80 per cento della superficie vitata; troviamo pure il Frappato, mentre di recente introduzione è il Perricone, ma il fiore all’occhiello della provincia di Ragusa è il Cerasuolo di Vittoria, centro da visitare a luglio durante la fiera del vino siciliano. Senza dimenticare di provare i due Moscati, quello di Noto e quello di Siracusa; forse il vitigno più antico d’Italia, arrivato con i coloni Greci attorno al VII sec. a.C.

    La viticoltura in provincia di Catania è fortemente influenzata dal vulcano dell’Etna, le forti pendenze, la variabilità del clima ma soprattutto la ricchezza minerale del terreno, condizionano non poco la maturazione e la produttività delle viti che si trovano sui versanti. Assolutamente da provare il Carricante, da cui si produce l’Etna Bianco Superiore, che dà il meglio di sé dopo qualche anno dalla vendemmia nel territorio di Milo e il Nerello Mascalese, veri spettacoli naturali, con i tronchi contorti vicinissimi tra di loro.

    Nel versante sud troviamo antichissimi vitigni che rischiano di scomparire, il Nebbiolo Cappuccio, la Visparola, da provare pure a Randazzo il vino prodotto dal vitigno Alicante (di origine spagnola), sopravvissuto alla filossera di fine Ottocento. Da poco si produce anche un ottimo Pinot Nero, da provare con il capretto pasquale.

    La provincia di Messina, in passato famosa per il suo Mamertino, è ora in una situazione piuttosto statica essendo una zona montuosa poco vocata alla coltivazione della vite. Ma sulle isole Eolie, e più precisamente a Salina e Stromboli, si producono dei vini passiti più nobili, come la Malvasia delle Lipari, ottenuto dall’omonimo vitigno: ha intensi profumi, ed è ottima con i dolci a frutta secca, come fichi, datteri, uva passa e confetture.

    Attraverso territori assai vari, colline, pianura, fascia costiera, si possono poi visitare, diretti a Palermo, le D.O.C. Contea di Sclafani, Monreale, Contessa Entellina. A questi ambienti corrispondono microclimi diversi che consentono di coltivare vitigni sia a bianchi sia a rossi, dai freschi Catarratto, Inzolia, Nero d’Avola e belle espressioni di Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon; indimenticabile a Monreale, il carpaccio di tonno e spada con un bianco prodotto da uve Sauvignon/Viognier.

    Il nostro viaggio termina a Mondello, davanti una bottiglia di Grillo che accompagna la pasta con le sarde preceduta da una profumatissima caponata di verdure. Confessiamo d’aver lasciato sull’isola un pezzo del nostro cuore.

    Scelto per voi

    Pinot Grigio Felluga
    Da decenni i vini con la classica etichetta fregiata da una carta geografica sono presenti su tanti mercati, mietendo molti successi per merito dei figli ed eredi di quel patriarca del vino che fu il friulano Livio Felluga. A ridosso del confine sloveno, tra Isonzo e lo Judrio, pendii esposti a mezzogiorno – protetti dalle Prealpi Giulie e favoriti dalla vicinanza del mare – creano le condizioni ideali per la produzione di ottimi vini bianchi.
    Il Pinot Grigio che vi consigliamo viene allevato con grande rispetto per la natura: riducendo al minimo gli interventi antiparassitari. Alla perfetta maturazione delle uve segue la naturale vinificazione e macerazione, dove il vino riposa sei mesi sui suoi lieviti. L’imbottigliamento avviene senza chiarifica.
    Questo Pinot Grigio, unico per il suo carattere, si presenta con un colore giallo dai riflessi ramati, e ci colpisce con le sue sfaccettature di frutta, fiori, mineralità e una stratificazione aromatica rara da trovare, che aggiunge un incredibile equilibrio e un’invidiabile persistenza aromatica. Vino molto versatile per antipasti misti, minestre corpose e piatti sia di pesce sia di carni bianche, preferibilmente lessate o arrostite.

    / Davide Comoli

  • I celti e l’arte del bottaio

    Vino nella storia – Tra le divinità più importanti del Pantheon gallico, Sucellus, ovvero «colui che batte bene»

    Da Le origini della viticoltura in Piemonte a opera del professor Filippo Maria Gambari, apprendiamo grazie ai numerosi corredi tombali etruschi ritrovati nella zona del Lago Maggiore, che la diffusione della viticoltura risale all’incirca quando a Roma regnava Tarquinio Prisco, quinto re di Roma (616-579 a.C.).

    La mancanza di grosse anfore vinarie, e i ritrovamenti di piccoli vasi potori e brocche dal becco di bronzo, portano il noto archeologo a supporre l’utilizzo di piccoli otri o addirittura di botti lignee di facile trasporto per vie d’acqua come l’idrovia Ticino-Lago Maggiore.

    Purtroppo, mancano prove e riscontri certi, ma è sicuro che la nascita della botte da vino gallica, descritta come vedremo da Strabone (21 d.C.) e da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), sia avvenuta nella Gallia Cisalpina.

    La tesi dell’impiego di piccole botti lignee per il trasporto fluviale è quindi anche a parer nostro più che una supposizione. Immaginare un drammatico naufragio che, dopo l’affondamento del barcone, metteva in salvo le botti contenenti il vino grazie alla loro capacità di galleggiare ed essere recuperate, non doveva essere probabilità remota, ma è meglio non far correre troppo la fantasia.

    Il vino è stato comunque veicolo di confronti e travasi di civiltà, da qui l’origine dell’apprendimento delle popolazioni Celtiche, che divennero un’eccellenza nella produzione e conservazione del vino nelle botti di legno. Tuttavia va ricordato anche solo per curiosità che i celti utilizzarono le prime anfore vinarie etrusche come «urne cinerarie»; non pensiamo che lo facessero per risparmiare, ma in ogni caso l’idea che le «ceneri» potessero risposare in un contenitore reso «sacro» dal vino ci regala un immenso sorriso.

    Mentre la cultura della vite e soprattutto la produzione del vino erano inizialmente ignote alle popolazioni celtiche nelle loro sedi transalpine, pare comunque indubbio che già molto prima della conquista romana i Galli calati nella Cisalpina avessero appreso dalle popolazioni indigene certe tecniche, che essi integrarono con le loro precedenti esperienze produttive. Notevole era l’abilità di questo popolo nella metallurgia e nell’oreficeria, inoltre i Celti erano esperti anche in tutte le pratiche di carpenteria. Un esempio importante di questa integrazione, come riferì lo storico dell’agricoltura italiano Emilio Sereni, è quello dell’impiego di tini e botti di legno ai fini della preparazione e della conservazione del vino. Un impiego delle botti completamente estraneo alla tradizione dei popoli mediterranei, che usavano come è noto, manufatti ceramici di varie dimensioni oppure otri di pelle.

    Di «botti di legno più grandi delle case», invece, ci parla non senza farsi meraviglia, Strabone nella sua Gheographiká (V,1,8) scritto verso il 18 d.C., parlando dell’abbondanza della produzione vinicola nella Padania. Così come di vino conservato in recipienti di vino cerchiati, ci parla Plinio (Gaius Plinius Secundus, Naturalis Historia, XIV 27, 132) per la regione alpina: «Circa Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt atque etiam hieme gelida ignibus rigorem arcent. Rarum dictu, sed aliquando visum, ruptis vasis stetere glaciatae moles, prodigii modo, quoniam vini natura non gelascit». «Nelle località alpine pongono i vini in recipienti di legno, li cerchiano e anche durante i rigori invernali, li difendono dal freddo con il fuoco. È cosa straordinaria, ma qualche volta si è visto che, rotti i recipienti, restano lì immobili masse di ghiaccio, quasi per prodigio, perché il vino per sua natura non gela». E aggiunge: «doliis etiam intervalla dari, ne inter sese vitia serpant atque contagione vini semper ocissima». «Le botti devono essere disposte a una certa distanza l’una dall’altra, a evitare che i difetti si diffondano tra di esse, perché il contagio del vino è velocissimo» (Plinio, N.H.).

    Scoperte archeologiche rivelano che le doghe erano fatte di legno di abete e larice, piegate e chiuse a incastro «Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt», tenuti insieme da cerchi di noce e salice.

    Strabone (Gheographiká) era pure rimasto impressionato dalla presenza di forni per la produzione della pece, che si otteneva dalla resina degli abeti rossi e che serviva a calafatare gli interstizi tra le doghe. Chissà com’era il gusto del vino che era stato in contatto tra legno d’abete e la pece? Quel che si sa è che perlomeno la pece garantiva una buona tenuta stagna.

    Le pratiche della carpenteria celtica ebbero una parte di primo piano, alcune parole inerenti all’arte del bottaio le possiamo ritrovare ancora oggi ad esempio dal gallico «bunda» ritroviamo il lombardo «bondòn» (il cocchiume – il tappo che chiude la botte), da «tunna» la «tonne» francese, e poi ancora: «brenta» per il trasporto a spalla di liquidi, «bonz», botte carreggiata, o in lombardo «bonza». Molte sono le fonti iconografiche di età romana che rappresentano nei territori della Gallia Cisalpina e Transalpina i trasporti di vino effettuati nelle botti per terra o per via fluviale.

    D’altronde possiamo aggiungere che la botte e il martello del bottaio, hanno una parte importante nell’iconografia di una delle divinità più importanti del Pantheon gallico, Sucellus, che presiedeva a quanto pare, alla preparazione della birra, la mistica bevanda celtica, alimento e gioia della vita d’oltretomba, e pertanto anche all’arte del bottaio, dato che il suo nome significherebbe «colui che batte bene».

    Il culto di Sucellus fu così diffuso in tutta la Gallia romana che molti musei, soprattutto francesi, offrono un gran numero di rappresentazioni di questo dio che impugna un mazzuolo a indicare che Sucellus era per l’appunto il patrono dei vignaioli gallici; quindi ricordatevi, quando andrete a Beaune (Borgogna), di conoscere questo personaggio, che di certo non usurpa il posto in cui è collocato nel museo del Vino della città.

    Scelto per voi

    Barbera d’Alba Superiore «Adriano»
    In località San Rocco Seno d’Elvio, piccola frazione di Alba, su suoli argillo-calcarei, adatti a produrre vini complessi e strutturati, i fratelli Marco e Vittorio Adriano coltivano, da lungo tempo e con grande rispetto per l’ambiente, i classici vitigni del Piemonte. Il Barbera Superiore che oggi vi consigliamo – e per i meno avvezzi al Piemonte, ci troviamo a pochi passi da Barbaresco – ci colpisce per la pulizia dei suoi profumi che richiamano la marasca, la prugna, il ribes, ma anche la viola e alcune spezie delicate. Pure il suo colore, che è di un rosso rubino profondo con riflessi viola-blu, ci fa capire che abbiamo di fronte un vino ottenuto dalla migliore selezione di uve. Al palato troviamo un vino molto armonico, con un ingresso tenue in bocca e una bella apertura verso la polpa del frutto. È il vino che vogliamo consigliare come regalo per la Festa del papà, da abbinare a primi piatti corposi, dove non manca il formaggio d’alpeggio, e al bollito misto, ma da non disdegnare nemmeno con una merenda tra amici con pane e salame.

     

    / Davide Comoli

  • Sicilia, isola del vino

    Bacco giramondo – Dai Catarratti, bianco comune, al Nero d’Avola, principe indiscusso –1a parte

    È di certo un posto di primo piano quello occupato dalla Sicilia quando si parla di radici della viticoltura europea. La storia delle diverse dominazioni in questa terra è continuamente intrecciata con la presenza della vite e la preparazione dei vini.

    Intorno al 1860 sulle falde dell’Etna furono trovate alcune viti di tipo ampelide di un’era geologica assai antica, l’era terziaria; segno di una antica predisposizione di una terra dove la vite cresceva spontaneamente.

    Fenici, Greci, Romani, Bizantini, per secoli hanno contribuito a far conoscere il vino e la vite della Sicilia nel mondo allora conosciuto. Agli audaci navigatori Fenici, spetta il primato della commercializzazione dei vini siciliani, facendone uno dei prodotti principali per gli scambi commerciali dell’epoca.

    Sicuramente erano vini dolci come sta scritto in un frammento di «orcio» ritrovato nei pressi di Gela e risalente a 1600 anni a.C., su cui troneggia la seguente iscrizione «Vino fatto con uva passa nera».

    Intorno al VII sec. a.C. i coloni Greci introdussero il sistema di coltivazione ad «alberello» e i siciliani divennero esperti conoscitori delle tecniche di coltivazione non solo della vite, ma anche dell’ulivo e del grano. Nota è la predilezione di Giulio Cesare per il Mamertino (l’odierno Catarratto Bianco); tra i vini che arrivavano sulle tavole della Roma repubblicana e imperiale, citiamo il Taormino Bianco, lodato da Plinio e prodotto con l’antenato dell’odierno Inzolia e con Minnella Bianca.

    L’avvicendarsi di culture diverse nei secoli successivi portò a uno sviluppo a fasi alterne della viticoltura nell’isola, dai Musulmani che azzerarono la produzione del vino, ai Normanni che finirono col portare all’estirpazione delle viti per l’eccessiva tassazione, sino ad arrivare agli Aragonesi e agli Spagnoli, che riportarono sia l’agricoltura sia la viticoltura sulla via dello sviluppo.

    Va comunque agli Inglesi, il merito di aver favorito la produzione vinicola siciliana. I movimenti della flotta inglese durante il periodo napoleonico permisero infatti il sorgere della grande industria enologica siciliana, incentrata intorno alla produzione del Marsala.

    La Sicilia è la maggiore isola del Mediterraneo con 26mila kmq suddivisi in un territorio prevalentemente collinare (61,5 per cento) e montuoso (24 per cento). Il clima è mediterraneo sulle coste, continentale all’interno e a tratti addirittura alpino nelle zone vinicole dell’Etna e nelle colline delle Madonie.

    Nel massiccio dell’Etna i suoli formati da sgretolamento della lava, ceneri e sabbie sono ideali per il Nerello e il Carricante, mentre nella zona Sud-Est i terreni tufacei, con sedimenti calcarei sono ideali alla coltivazione del Nero d’Avola. Le isole di Pantelleria ed Eolie, sferzate dai venti di Scirocco e Maestrale, vantano terreni ricchi di tufo grigio di matrice vulcanica, dove dominano i profumati Moscato d’Alessandria e Malvasia delle Lipari.

    Con i suoi 103,5 mila ettari vitati, la Sicilia è la regione italiana con la più ampia superficie vitata; da notare che ben 16mila ettari sono vitati a «coltura biologica».

    L’interazione tra le culture ellenica, araba, sveva, normanna ha portato nel corso dei secoli a una ricca gastronomia, che si abbina ai molteplici vini prodotti in loco; ci riserveremo quindi di far conoscere le zone viticole e le specialità locali con il prossimo numero della nostra rubrica.

    I sistemi d’allevamento più diffusi sono il «cordone speronato» e il «guyot», mentre l’antico e tradizionale «alberello» ricopre oggi solo il 10 per cento del territorio.

    Oggi il 21 per cento del territorio vitato è occupato da vitigni internazionali che danno ottimi prodotti, ma quando parliamo di Sicilia, amiamo parlare di vitigni «autoctoni» che ci fanno capire meglio l’anima del territorio. Le varietà più coltivate sono i Catarratti e il Nero d’Avola.

    I Catarratti bianco comune, lucido ed extra lucido, sono i più diffusi (32 per cento), grazie alla loro facilità di coltivazione e perché con pochi problemi raggiungono un ottimo grado di maturazione, donandoci vini molto interessanti di buona acidità, con un discreto contenuto alcolico e un buon corredo aromatico.

    Antico vitigno è l’Inzolia (Ansonica), che dà origine a vini semplici, ma spesso usato in uvaggio con lo Chardonnay. Il Grillo è invece un vitigno ottenuto da un incrocio tra il Catarratto Bianco e lo Zibibbo; a fine 800 ha contribuito molto alla ricostruzione post-filossera: si ottengono vini di grande spessore con un notevole bagaglio olfattivo.

    Il Grecanico, già descritto in alcuni documenti del 1696, ha un curioso aroma che potrebbe essere definito di lunga evoluzione, perché si riescono a percepire sentori di cioccolato bianco e meringa.

    Il Moscato Bianco o Zibibbo coltivato a Pantelleria, è stato forse portato dai Fenici e ci viene da chiedere una sola cosa: chi non conosce il Passito di Pantelleria?

    Nelle isole Eolie, su 90 ettari viene coltivata la deliziosa Malvasia delle Lipari, da bersi in versione Spumante, Naturale o Passito. Mentre il Frappato è un vitigno a bacca rossa che, in purezza, dona vini beverini, ma in uvaggio con altri rossi dà un vino piuttosto austero.

    Il Nerello Mascalese è originario della piana di Mascali: questo vitigno ha trovato la sua terra d’elezione nello straordinario territorio vulcanico dell’Etna. Sui ripidi pendii vulcanici, allevato ad «alberello» e sostenuto da pali di castagno (l’antica «vinea»), a volte con viti a «pied-franc», dona vini di straordinaria eleganza.

    Il vero principe incontrastato dei vini siciliani è tuttavia il Nero d’Avola, coltivato a memoria d’uomo ad «alberello»; ha sempre prodotto vini molto alcolici, superando senza problemi il 15 per cento di alcol. Oggi, al contrario, si cercano vini più freschi d’acidità e meno caldi, con tannini setosi e grandi potenzialità d’invecchiamento.

    Tra le varietà internazionali citiamo infine: lo Chardonnay, il Syrah, il Merlot e il Cabernet Sauvignon che dona vini molto longevi.

    Scelto per voi

    Fontanasanta Manzoni Bianco
    Il Manzoni Bianco è un incrocio tra Pinot Bianco e Riesling Renano, creato alla Scuola Enologica di Conegliano negli anni Trenta.

    Il Fontanasanta che vi proponiamo è prodotto a Mezzolombardo (TN), da quella grande donna del vino che risponde al nome di Elisabetta Foradori: la donna che ha fatto conoscere al mondo il Teroldego.

    Da più di una decina d’anni, Elisabetta ha progressivamente riconvertito i suoi vigneti in coltivazione biodinamica (il Fontanasanta ha la certificazione Demeter e TripleA) e da qualche tempo sta sperimentando la vinificazione in anfore.

    Dal colore giallo paglierino intenso, il Fontanasanta ha un profilo olfattivo particolare con richiami di frutta a polpa bianca, soprattutto la mela renetta, profumi floreali, note d’infuso di zenzero e tè verde, con un finale minerale. È questo un piacevolissimo vino d’aperitivo che può accompagnare tartine al formaggio fresco, verdure grigliate, primi piatti con sugo di pesce.

    / Davide Comoli

  • Gli Etruschi, abili commercianti

    Vino nella storia – La via della cultura enologica parte dalla Toscana per arrivare ai confini del Ticino e oltre

    Il popolo degli Etruschi sviluppò la sua civiltà fra il IX secolo a.C. e il secolo I d.C. Durante questi secoli ha avuto, a proposito di vino, un ruolo particolare.

    I frequenti contatti con i commerciati Fenici e Micenei, furono molto importanti per lo sviluppo delle loro conoscenze nel campo dell’enologia.

    L’attuale Toscana era il centro della società etrusca, una civiltà di persone intraprendenti tanto da fortemente espandere la propria influenza, fondando molte città sia al sud, sia nella pianura padana, sino a raggiungere le Alpi.

    Testimonianze storiche e archeologiche attestano che furono gli Etruschi a far conoscere il vino e la viticoltura alle popolazioni dei Celti e a quelle del nord Italia.

    Peraltro, come dimostrano gli studi di Emilio Sereni, la vite selvatica era attestata un po’ ovunque, nella Cisalpina, come dimostrano parecchi ritrovamenti dal Neolitico all’età del Bronzo, ma che di certo non poteva elevarsi nella produzione di una bevanda fermentata, come molto probabilmente lo erano le bacche di corniolo, le more di rovo e il sambuco.

    È in ogni caso possibile, grazie ai vari ritrovamenti, pensare che nelle zone dell’alto Adriatico, grazie ai commerci con i Greci in tarda età del Bronzo, sia stato incoraggiato l’utilizzo, per quanto marginale, di una selezione di uve selvatiche locali a scopo alimentare.

    Con l’inizio dell’età del Ferro, soprattutto dopo l’VIII secolo a.C., ci fu come dicono i climatologi, il passaggio dal periodo climatico subboreale a quello subatlantico. Il conseguente miglioramento della temperatura ha favorito la diffusione della viticoltura, l’ingentilimento dei vitigni, la scoperta di nuove metodologie della coltura della vite, evoluzione il cui merito è assegnato da tutti gli studiosi concordi agli Etruschi.

    La forma di coltivazione della vite, caratteristica dell’area sotto l’influenza etrusca, era quella delle viti maritate agli alberi, ovvero all’arbustum gallicum, come scrivono Plinio (nella sua opera Naturalis Historia) e Varrone (nella sua De Re Rustica), in modo che il sostegno vivo non mortificava il vigore vegetativo della pianta.

    L’importanza dell’arbustum gallicum e il suo ruolo nella costruzione del sistema viticolo Cisalpino sopravvivono nella toponomastica in denominazioni moderne, vedi: Narbosto nell’Oltrepò presso Casteggio e in Arbostora, il monte che dall’Alpe Vicania scende verso Morcote.

    Nell’Italia Cisalpina, Plinio (N.H. XVII 212,23) segnalava la diffusione di un albero chiamato Opulus Rumpotinus sul quale la vite si appoggiava. L’etimologia di Rumpotinus porta a «rumpus», tralcio, e «teneo», verbo che significa sostegno. L’albero più usato come «marito» sostegno della vite, soprattutto nella Padana centrale era il Populus nigra (pioppo nero).

    Questo ci ricorda che il nome della divinità etrusca corrispondente al greco Dioniso, era Fufluns/Fufluna da cui Pupluna (Populonia), era connessa in modo stretto al nome latino del pioppo (populus). Il richiamo a Populonia non è quindi accidentale se consideriamo il grande rapporto del popolo etrusco con l’area padana e l’area golasecchiana, situata all’uscita del fiume Ticino dal lago Maggiore, come attestano le grandi anfore vinarie etrusche ritrovate a Castelletto Ticino, dove viene confermato l’uso delle vie fluviali per il trasporto del vino. La presenza etrusca nell’area del Ticino è quindi fortemente comprovata sul nostro territorio. O come scrive il professor Filippo Maria Gambari nelle sue imperdibili riflessioni racchiuse nel testo intitolato Le origini della viticoltura in Piemontela Protostoria (in Vigne e vini nel Piemonte Antico, a cura di Rinaldo Comba, di cui consigliamo la lettura a tutti gli appassionati) – dalle cui fonti storiche abbiamo attinto – la diffusione della viticoltura intorno al lago Maggiore, avvenne all’incirca mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, re etrusco.

    Di certo è che il commercio del vino era una delle principali fonti di reddito delle città etrusche. Il commercio, per via marittima o fluviale, si estendeva nella Gallia Meridionale, lungo il Rodano, nella Renania, in Austria. Il vino era parte integrante della vita sociale degli Etruschi, ne sono testimoni i loro usi conviviali e le loro espressioni artistiche.

    Dai loro commerci nel sud della Francia, luogo dove l’irradiazione greca era molto forte, gli Etruschi portarono anche un nuovo sistema d’allevamento della vite, quello della vinea cioè con il sostegno morto, che portò a un graduale arretramento dell’arbustum stesso, favorendo una coltura specializzata. Ma per molti secoli il sistema arbustum per la coltivazione della Vitis labrusca o meglio la vitis agrestis continuò, allevata come scrive Virgilio «in labris et extremitatibus terrae» cioè ai margini dei campi, maritata a pioppi e olmi, che ancora oggi danno un’impronta speciale al paesaggio agricolo di parte della vicina Penisola.

    Agli Etruschi inoltre viene attribuita l’introduzione di alcuni vitigni a bacca nera, oggi presenti sui nostri territori. La raetica, che potrebbe essere uno di quei vitigni esclusivi che vanno dal centro-orientale delle Alpi al Vallese, e quello che Plinio, in seguito, chiamerà «gallica» o «spioria», di cui lo spazio tiranno ci impedisce di raccontarvi la storia, ma che «quasi» sicuramente s’identifica con il Nebbiolo.

    Fu sempre il vino, forse l’antenato del Sangiovese, contenuto nelle anfore a far muovere dalle nebbie padane i Galli che avrebbero «più tardi» causato la terribile «Clades Gallica» e cioè il crollo dell’Urbe. Su questo argomento però si apre un giallo storico: secondo Plinio (23-79 d.C.), fu un Elicone fabbro degli Elvezi emigrato a Roma, che tornando in patria avrebbe fatto conoscere al suo popolo il vino e le ricchezze mediterranee; secondo Livio (59 a.C.-17 d.C.), invece, fu un certo Arrunte cittadino di Chiusi (l’antica Chamars etrusca) che per vendicare l’oltraggio subito dalla moglie di Lucumone agendo contro la sua città, attrasse con il vino le popolazioni Cisalpine. Comunque, al di là della marcata tendenza anti-etrusca che qualcuno può avere, noi da bravi insubri, siamo grati a questo popolo per il bel dono che ci ha fatto conoscere.

    Scelto per voi

    Marc Hebrart Rosé
    I terreni dello Champagne sono una specie di cocktail geologico che si è creato in seguito a una serie di movimenti tellurici risalenti a circa 70mila anni or sono.

    Risalendo la Marna da Épernay, dopo circa una decina di chilometri vi troverete a Mareuil-sur-Aÿ, dove ha sede la maison Marc Hebrart nel cuore di quel territorio vocato per la produzione dei grandi cru. Terreni che danno vini di grande impatto e struttura, vini longevi, che con l’affinamento esprimono una vasta gamma di profumi maturi ed evoluti.

    Il Marc Hebrart da noi provato è uno champagne molto elegante, dai delicati profumi di frutta rossa e sentori floreali. Ci ha quindi piacevolmente stupito per la sua complessità e il suo equilibrio dato dal 55% di Chardonnay (eleganza), 38,5% Pinot Nero (forza) e mai provato prima, dal 6,5% di Mareuil Rouge, un rosso prodotto con Cabernet Franc, Négrette, Pinot Nero e Gamay, che dona freschezza e vivacità a questo prodotto: ve lo consigliamo come accompagnamento a tutto pasto per festeggiare San Valentino.

    / Davide Comoli

  • I grappoli dell’Umbria

    Vino nella storia – Il «cuore verde d’Italia» possiede una tradizione vitivinicola di grande qualità e prestigio

    Completamente circondata da Lazio, Marche e Toscana, la regione Umbria è da tempo denominata «il cuore verde d’Italia», grazie alla sua conformazione prevalentemente collinare e montana, alla sua ricchezza di boschi e di acque, ai suoi terreni in prevalenza calcarei e argillosi, che ospitano da tempo immemorabile tra le colture agricole, la vite e l’olivo.

    La regione più collinare d’Italia è separata da rilievi appenninici orientali, dai subappenici più bassi, dalle valli Tiberina e Umbra e dal monte Redentore (2449 m). Le poche pianure sono situate dove c’erano antichi laghi colmati poi da depositi alluvionali. Il fiume principale è il Tevere che attraversa la regione per 210 km, i suoi affluenti sono a destra il Paglia e il Nestore, a sinistra il Nera e il Chiascio, senza dimenticare il lago Trasimeno (quarto lago in Italia per estensione), con una profondità massima di 6 m.

    Qui la coltura della vite risale ad epoche antiche: lo testimoniano i moltissimi reperti rinvenuti nelle tombe etrusche, da dove sono stati portati alla luce stupendi vasi enoici.

    Il popolo Etrusco, già presente nel VII sec. a.C. in questa regione, rivolse cure particolari alla coltivazione della vite, usando il «sacro» nettare nei riti religiosi e soprattutto come conforto per il lungo viaggio che ci aspetta dopo la morte.

    Con sorpresa, al loro arrivo (non pacifico), i Romani scoprirono una popolazione, i locali Umbri e i sopraccitati Etruschi, già abituati a godere del succo dell’albero della vite.

    Virgilio e Plinio confermano con i loro scritti la presenza delle uve Apinae dalle quali si otteneva un vino dolce, parlano pure del Murgentina, molto diffuso a Chiusi, ma d’origine campana, come pure del Tudertis diffuso a Todi.

    In Umbria furono particolarmente attivi gli ordini monastici, dei quali, possiamo senza dubbio affermare che furono i salvatori della viticoltura in tempi bui, grazie ai seguaci di San Benedetto da Norcia ed ai Cistercensi. Sarà la brillante penna di Sante Lancerio (1548) antesignano dei moderni sommelier, che annoterà i vini di questa regione al seguito di papa Paolo III Farnese.

    Passeranno quasi 50 anni prima che A. Bacci dia ampio spazio alla vitivinicoltura dei vini umbri, dove la parte del leone la fa giustamente il vino di Orvieto, già allora imbottigliato in fiaschetti di paglia.

    Il vigneto umbro copre prevalentemente in collina una superficie di ca. 13’000 ettari, il vitigno emblema di questa regione, presente quasi esclusivamente nella zona di Montefalco, è il Sagrantino.

    Sembra che questo vitigno sia la naturale mutazione dell’antico vitigno Hitriola di cui già parlava Plinio il Vecchio, scrivendo dei vini di Bevagna.

    Il Sangiovese entra in purezza o nella composizione in quasi tutti i vini D.O.C. prodotti nella regione. Piuttosto apprezzato nella zona per la sua vinosità, per i suoi profumi di marsala e i tannini leggeri è il Ciliegiolo, mentre, usato soprattutto in assemblaggio perché offre un buon tenore alcolico, è il Canaiolo Nero. Il Montepulciano e il Gamay, trovano un ambiente pedoclimatico ottimale nella zona di Terni e del lago Trasimeno.

    L’autoctono Grechetto (l’antico Greco di Todi), è il vitigno più caratteristico a bacca bianca della regione: il Trebbiano Toscano vino di buona acidità, è normalmente usato nella composizione dei bianchi locali, ma anche vinificato in purezza dà una vino con buona struttura.

    Nelle colline a meridione trova il suo sito ideale la Malvasia Bianca, mentre il produttivo Verdello entra nella composizione di numerose denominazioni.

    Anche qui sono presenti il Merlot, il Cabernet Sauvignon, usati per i famosi tagli bordolesi, lo Chardonnay e il Sauvignon Blanc, il quale ben si presta alla produzione dei «muffati».

    Sei sono le zone in cui è divisa l’Umbria vitivinicola. Arrivando dalla Toscana troviamo il lago Trasimeno con le sue colline, ideale per i vini rossi. Consigliamo in particolare il locale Gamay: recenti studi lo ricollegano alla Grenache, quindi non è il vitigno che si trova nel Beaujolais; assolutamente da provare con le famose anguille alla brace, piatto locale. Proseguendo verso sud si arriva nella zona dei Colli Perugini, dove troviamo le D.O.C. Assisi, vini di grande struttura. Proseguendo si entra nell’area di produzione di Torgiano: la viticoltura in questa zona risale addirittura all’epoca etrusca, il Torgiano Rosso Riserva D.O.C.G. è il fiore all’occhiello, prodotto soprattutto con il Sangiovese; grazie alla lenta evoluzione per almeno 3 anni, crea complessi aromi: vino di grande struttura, ottimo con i colombacci allo spiedo (non dimenticate di visitare il Museo del vino, presso una nota cantina). La terra umbra è ricca di pregiati tartufi raccolti nella Valnerina, nelle vicinanze di Spoleto, dove il Trebbiano la fa da padrone: profumi di fresche erbe aromatiche fanno di questo vino l’ideale compagno della classica pasta e fagioli o di una zuppa di legumi profumata al tartufo nero.

    L’esteso comprensorio di Orvieto rappresenta circa la metà della produzione regionale, situata ai confini del Lazio, condivide la D.O.C. Ottenuti principalmente con Grechetto, Trebbiano, Verdello, Malvasia e raramente anche Chardonnay, troviamo vini bianchi ben strutturati, piacevolmente minerali. Presso il piccolo lago di Corbara, con uve attaccate dalla «Botrytis Cinerea», scopriamo la preziosa tipologia Muffa Nobile, da provare con un pecorino stagionato dell’altopiano del Subasio.

    Nei dintorni di Todi troviamo i terreni più vocati per la produzione del Grechetto, da bersi con le trote pescate nel Clitunno, cotte alla griglia.

    Prodotto fino agli anni 70 solo come vino dolce, il Sagrantino è riuscito ad imporsi a livello mondiale come grande vino da evoluzione e da abbinare a piatti strutturati.

    Vitigno a maturazione tardiva, attenua la sua tannicità prima in vigna e poi in cantina, il Montefalco Sagrantino D.O.C.G. può essere prodotto solo nel comune omonimo e parte nei comuni di Bevagna, Gualdo Cattaneo, Castel Rinaldi e Gianno d’Umbria, tutti in provincia di Perugia.

    Scelto per voi

    Sasso Chierico
    Sui 7 ettari di proprietà della famiglia Antognini, situati nel comune di Gudo, sulla sponda destra del fiume Ticino, vengono allevate le viti di Merlot, alcune delle quali vecchie di più di 40 anni. Qui i vecchi ceppi penetrano nel terreno fino a 130 cm di profondità: siamo in presenza di un suolo molto adatto alla viticoltura, con terreni medio leggeri, ricchi di materia organica, acido e non calcareo. Nella sua passione per la viticoltura, Giovanni Antognini è affiancato dal valente enologo Michele Conceprio: insieme hanno prodotto e vinificato questo stupendo Merlot del Sopraceneri.
    Con il suo colore rubino granato intenso, molto speziato al naso, con note vanigliate e accenni erbacei, note di mirtillo, caldo, morbido e tannini diffusi con una sorprendente lunga persistenza, il Sasso Chierico è l’ottimo compagno non solo per i piatti strutturati di questa stagione, ma lo pensiamo anche come partner ideale per la cucina tradizionale della nostra Regione.

     

    / Davide Comoli

  • Venere e Bacco in armonia

    Vino nella storia – Il filosofo Platone ha indicato il forte legame tra l’amore e i frutti della vite, unione che viene cantata tra l’altro anche nell’Antologia palatina

    Per Platone, son le Muse ad infondere una sorta di «furore», che però essendo una forza liberatoria, egli non esita a definire di «ispirazione bacchica». Al filosofo ateniese va riconosciuto il merito di aver indicato l’originario vigore liberatorio del vino: con lui Dioniso ritorna ad essere il dio della spontaneità.

    È fuori discussione che in un’ipotetica sfida la quale avesse come tema una sorta di «esegesi» bacchica e coinvolgesse i maggiori interpreti delle virtù di Dioniso, Platone, il vecchio aristocratico filosofo ateniese, guadagnerebbe la palma della vittoria.

    L’opera di Platone consta di 34 dialoghi divisi in quattro gruppi: tra i principali Simposio e Repubblica, a cui vanno aggiunte tredici lettere, dove sono affrontati problemi di etica, circa il conseguimento della virtù, definita come sapienza e pertanto insegnabile. Nel complesso di orientamenti filosofici derivati da Platone e professati nella scuola da lui fondata, «l’Accademia», troviamo nella «dottrina dell’eros» (amore) la scintilla che fa accendere la lampadina per il nostro pezzo.

    Al di là di ogni ragionevole dubbio è accertato che il vino predispone l’animo e il corpo ai piaceri di Venere. Come afferma infatti il filosofo, il vino ha la capacità di far diventare manifesta la parte che è latente in ogni uomo.

    Questa tesi sarà sostenuta fortemente qualche secolo dopo da Ovidio, poeta latino (Sulmona 43 a.C.-. Tomi, M. Nero 17 d.C). Nella sua Arte amatoria scrive: «Varietà di vini predispongono i cuori e li rendono pronti alle passioni ardenti; cede ogni grave pensiero e si stempera fra le molte libagioni. Allora si fa strada l’allegria, allora il povero assume fierezza, allora sparisce il dolore, nonché l’ansia e le rughe dalla fronte. Allora la spontaneità, così rara al tempo nostro, discopre i pensieri, perché il dio mette bando alle finzioni. Quivi belle donne catturano cuori di giovani: fra i vini Venere vuol essere fuoco su fuoco».

    Dioniso e Eros, vino e amore furono il binomio che ispirò buona parte della poesia di Anacreonte (570-485 a.C.), poeta che mai trascende nella volgarità. La sua poesia resta sempre misurata e castigata. L’Amore è il tema dominante nei suoi versi: Anacreonte non ha esitazione a usare il vino al servizio di questo sentimento, e dal momento che durante il «symposion» c’è spazio anche per l’amore recita: «Porta l’acqua, porta il vino ragazzo e portami corone di fiori che voglio fare a pugni con Eros».

    L’Antologia Palatina, è una raccolta di libri (XV) in cui sono raccolti ben 3700 componimenti per lo più brevi, detti «epigrammi» dai vari contenuti, molti di questi sono inviti alla gioia e confidenze d’amore.

    L’eccezionale scoperta avvenne nel 1607 in un codice del XI sec. conservato presso la Biblioteca Palatina, nella città di Heidelberg (Germania) e gli autori sono più di 300 poeti greci, distribuiti in un arco di tempo di oltre 1000 anni dal IV sec. a.C. alla tarda età bizantina.

    Gli epigrammi che vogliamo proporvi, vogliono fornirvi una testimonianza dell’importante ruolo del vino nella poesia greca di questo periodo, dove il nettare sacro a Dioniso è quasi sempre messo al servizio dell’Amore.

    Il primo dei poeti che abbiamo scelto è Asclepiade (Samo 310 a.C.), 45 sono gli epigrammi di argomento amoroso e d’intonazione pessimistica che lo collocano tra i maggiori poeti della sua epoca: «Il vino è la spia dell’amore. Negava di essere innamorato, Nicàgora, ma i brindisi lo hanno smascherato. Piangeva, con la testa tremante e lo sguardo abbassato. Mentre la ghirlanda lentamente gli scivolava dal capo».

    Solo attraverso l’Antologia Palatina è stato possibile conoscere uno dei grandi della poesia greca, Melandro (140 ca. Gadara oggi Umm Qeih – Palestina) ecco uno dei suoi 134 epigrammi: «La coppia esulta di gioia perché ha toccato la garrula bocca di Zenofila, amica dell’amore. Felice lei! Oh, se ora accostando le sue labbra alle mie mi bevesse d’un fiato l’anima».

    Il ciclo di maturazione dell’uva, diventa metafora delle fasi di un rapporto amoroso, che tuttavia l’Autore Anonimo vorrebbe in qualche modo concretizzare: «Grappolo acerbo, non m’accettasti. Grappolo maturo, passasti oltre. Non rifiutarmi, ti prego, qualche chicco di uva passa».

    Di Rufino, un altro poeta dell’Antologia Palatina, del quale ignoriamo sia il luogo di nascita sia dove è vissuto, per qualcuno va collocato alla fine del I sec. d.C.: in questo epigramma il poeta propone il vino come rimedio alle fuggevoli gioie della vita: «Facciamo il bagno, Prodice. Incoroniamoci e tracanniamo vino puro (àcraton) levando le grandi coppe. Breve è la durata delle gioie. Poi, per il resto del tempo ce le proibirà la vecchia e, alla fine, la morte».

    Sempre di Rufino il seguente epigramma dimostra quanto sia potente l’alleanza tra Dioniso e Eros, quando vogliono vincere sulla Ragione umana: «Ho una robusta corazza per difendermi: la Ragione, e il grande Eros, uno contro uno, non mi piega. Uomo contro dio: e tuttavia gli resisto. Se però chiama Bacco a sostenerlo, io da solo contro due, come faccio?».

    Vorremmo chiudere con un brano che a noi piace molto, è forse il più bel complimento che si possa fare alla donna di cui si è innamorati: l’autore è Macedonio Console, pare nato a Salonicco (l’antica Tessalonica) e vissuto intorno al VI sec. d.C. «Durante la vendemmia, cogliendo il grappolo nessuno straccia anche i viticci. Te, amor mio dalle rosee braccia, te stringo a me, in morbidi amplessi e faccio una vendemmia d’amore. Non so aspettare un’altra primavera né un’altra estate, tanto tu sei colma di grazie! Possa il tuo fiore non sfiorire mai: ma se spunterà qualche ribelle viticcio di rughe, non lo vedrò, perché ti amo».

    Scelto per voi

    Petit Vignoble AOC Yvorne
    Fondata nel lontano 1902 la «maison» Henri Badoux (il fondatore), è ancora oggi saldamente nelle mani dei discendenti.
    La proprietà con sede a Aigle (VD), s’estende per ca. 55 hettari vitati, ma sono ben 105 gli ettari che questa azienda vinifica nelle sue cantine, con uve provenienti oltre che da Aigle da Yvorne, Ollon e Villeneuve, comuni situati nel cuore dello Chablais, dove l’influenza del lago Lemano e delle Alpi permettono un’ottima maturazione delle uve. Qui naturalmente il vitigno Chasselas è il principe e l’indiscusso ambasciatore dei vini svizzeri.
    Il Petit Vignoble che vi proponiamo questa settimana è coltivato sulle morene (argillo-calcaree) che ci ha lasciato la glaciazione del Rodano 10’000 anni fa nel comune di Yvorne; è un eccellente vino per tutte le occasioni, secco, abbastanza fruttato e notevoli note minerali, fanno dell’Yvorne un ottimo aperitivo o come accompagnamento a parecchie preparazioni culinarie, in particolar modo alla «raclette» e alla «fondue al formaggio».

    / Davide Comoli