Curiosità Archivi - Pagina 2 di 11 - Vinarte
  • Da Padova alla Marca Trevigiana

    Bacco giramondo – Scorrazzando tra i colli veneti per degustare le perle di una terra ricca di vitigni autoctoni

    Bagnoli di Sopra è un piccolo villaggio della pianura sud-orientale che troviamo tra le provincie di Padova e Venezia, facilmente raggiungibile dopo pochi chilometri dall’uscita per Padova ovest.

    Terreni molto variati consentono di ottenere in questa zona vini di ottima qualità, già conosciuti in epoca romana; il solito Plinio aveva definito questi vini: saporem alienum, cioè diverso da altri da lui provati. Oltre ai soliti vitigni internazionali, troviamo tra i rossi il Refosco dal Peduncolo Rosso, il Tai Rosso, la Turchetta, la Corvina e la Cravara, la Marzemina Bianca e la Sciampagna tra le bianche.

    L’uva storica è però l’autoctona Friularo, imparentata con il Raboso. Il Friularo è un vitigno che matura molto lentamente, dai grappoli molto scuri e concentra negli acini zuccheri, acidità e piacevoli profumi. Oltre alla tipologia di vino secco, lo troviamo in versione Bagnoli Friularo Vendemmia Tardiva, con uve raccolte dopo San Martino; vino che accompagna in modo stupendo l’anguilla ai ferri e, nella versione Passito, può valorizzare il cioccolato fondente.

    Lungo la Strada del Vino tra Valdobbiadene, Treviso e Conegliano, è possibile ammirare tratti dovele vigne s’inerpicanocon una pendenza taleda costringere i viticoltoria orientare i filaridi traverso e girapoggio

    Percorriamo una decina di chilometri verso Strà, dove ci inoltriamo lungo la bucolica striscia di terra chiamata Riviera del Brenta, il cui fiume omonimo è l’ideale proseguimento del Canal Grande. Ci fermiamo a Mira, dove Bruno, un caro amico di vecchia data, ci rifocilla con gli stuzzicanti «cicchetti veneziani» (baccalà mantecato, polpettine di gamberetti, sardelle in saor, e via elencando), innaffiando il tutto con un frizzante Verduzzo, dalle vivaci sfumature verdognole, mentre sul Brenta di fronte a noi passa il Burchiello diretto a Venezia, carico di vocianti turisti.

    Da Mestre raggiungiamo poi l’uscita di Noventa di Piave in direzione Salgareda-Vazzola, entrando per un breve tratto nella D.O.C. Lison-Pramaggiore. L’Adriatico poco distante e il terreno ricco di carbonato permettono la produzione di vini ricchi di sostanze aromatiche, qui il Merlot e i Cabernet sono i vitigni più coltivati. Lison-Pramaggiore rappresenta inoltre una delle maggiori realtà nazionali per la produzione dei vini BIO. Come i vini della D.O.C. Piave, dove arriveremo tra poco: qui si trovano vini prodotti con un buon livello tecnico, che si contraddistinguono per un bel rapporto prezzo/qualità, ma attenzione perché quantità non significa qualità.

    Dal punto di vista vitivinicolo la provincia di Treviso presenta una grande ricchezza di vitigni. Le migliori zone sono quelle collocate nella parte più settentrionale della provincia, vale a dire Montello, Colli Asolani, Colli di Conegliano e Valdobbiadene, dove la vigna ha da sempre trovato gli ambienti e i terreni adeguati alle sue esigenze; clima temperato, esposizioni luminose e suoli magri. Siamo sulla sponda sinistra del fiume, in una zona detta Grave del Piave, per la presenza di ghiaie affioranti su cui la vite ha trovato larga diffusione: questa è la patria dell’autoctono Raboso, vino dai profumi di viole e di more, con un’acidità marcata, rustici tannini e di buona struttura.

    A Cimadolmo giriamo a destra e attraversiamo il Piave in direzione di Spresiano, passando sulla grande isola detta Grave di Papadopoli, formatasi in seguito all’alluvione del 1832. Passando in queste zone, il ricordo torna alla nostra fanciullezza, quando nonno Giovanni (1894) «caporalmaggiore», mi raccontava dei suoi ricordi di guerra in queste zone e del terribile anno passato nelle trincee lungo il corso del fiume Piave.

    Attraversiamo Volpago del Montello sulla S248 dove sostiamo in una storica cantina per poter provare un Venegazzù, rosso di taglio bordolese, Cabernet Sauvignon 40%, Merlot 30%, Cabernet Franc 20% e Malbec 10%, maturato in botti grandi per 48 mesi; un vino capace di resistere al tempo con efficacia.

    Siamo nella zona del Montello e dei Colli Asolani, un gruppo collinare disposto a corona a nord ovest della cittadina di Asolo. Ai piedi del Montello troviamo il centro di Montebelluna, sulla sponda destra del Piave, su terreni composti da ghiaia e argilla. Come per il Venegazzù, i vitigni rossi internazionali, che abbiamo sopracitato, danno vini dai profumi di marasca e leggermente erbacei.

    Tra i bianchi si è valorizzato il Manzoni Bianco e la Bianchetta Trevigiana, ma stiamo per entrare nel regno del vitigno Glera da cui si ottengono diverse denominazioni di Prosecco, in loco infatti il vino di punta è il Colli Asolani Prosecco D.O.C.G., menzione arrivata nel 2008.

    Riattraversiamo il Piave e arriviamo al Valdobbiadene, siamo nella Marca Trevigiana, racchiusa tra il citato Valdobbiadene, Vittorio Veneto e Conegliano: racchiusa tra queste tre cittadine, la zona è ormai internazionalmente conosciuta per il vino Prosecco, che si può trovare e degustare in tutte le sue sfaccettature, nelle numerose aziende vinicole sparse lungo le strade che si inerpicano tra i pendii, alle volte molto ripidi, dei colli ricoperti di vigne.

    Approfittando della luce delle lunghe giornate estive, ritardiamo il nostro arrivo in albergo, facendo un giro tra le pendenze dei colli delle frazioni di Saccol, Santo Stefano e San Pietro di Barbozza, 107 ettari di vigneti destinati al cru del Cartizze.

    L’aperitivo da noi provato, un Prosecco Superiore di Cartizze 2018, di un giallo paglierino, con un fitto perlage, al naso profuma di pera sciroppata e camomilla, ottimo per stuzzicare l’appetito, così come il Prosecco Superiore Rive Extra Dry 2018, metodo Charmat, dal brioso perlage, dai sentori di mela, buccia di pera, ananas e miele di tiglio, che ha accompagnato il nostro risotto al radicchio, preceduto da filetti d’acciughe ripiene di un impasto di olive, capperi e origano. A titolo d’approfondimento, la menzione Rive sta a indicare un vino prodotto nelle vigne più scoscese; oltre al Glera possono intervenire piccole quantità di PereraVerdiso e Bianchetta, che donano profili diversi ai vari Prosecco.

    Percorrendo la Strada del Vino tra Valdobbiadene, Treviso e Conegliano, è possibile ammirare dei tratti dove le vigne s’inerpicano con un’inclinatura che sfiora il settanta per cento e costringono i viticoltori a orientare i filari di traverso e girapoggio: è uno spettacolo che riempie l’anima fermarsi a guardare le vigne e la campagna circostante o sostare per una degustazione. Basterà seguire i cartelli e andare dove porta l’ispirazione del momento.

    Una breve sosta a Refrontolo per un panino con la «soppressa» e un Prosecco Frizzante rifermentato in bottiglia a cui seguirà un calice di profumato, dolce e vellutato Refrontolo Passito, prodotto con grappoli di Marzemino su graticci, una vera chicca!

    Alle porte di Vittorio Veneto, visitiamo il Museo della Battaglia e approfittando della sosta, acquistiamo un’altra gemma di questa terra, il dolcissimo Torchiato di Fregona, dagli intensi sentori di miele d’acacia.

    La S51 ci riporta quindi a Conegliano, una tappa piacevolissima sia per l’arte sia per la cucina, dove il classico poenta e osei chiude in magnificenza la giornata, accompagnato da uno strutturato Colli di Conegliano Rosso. E prima di rientrare in Ticino, la mattina dopo visitiamo la Scuola Enologica fondata nel 1876, un’istituzione molto attiva che forma decine di giovani enologi, luogo che è considerato la culla della spumantistica del Prosecco.

    / Davide Comoli

  • Omar Khayyâm: il poeta del vino e delle rose

    Vino nella storia – Dall’Iran, le trasognate quartine di un erudito che godeva di grande stima presso i sapienti e i potenti del suo tempo

    Omar Khayyâm è uno dei massimi e più celebri uomini di cultura dell’Iran. Non sappiamo quasi nulla della sua nascita, eccetto che  avvenne in uno degli anni della prima metà del V secolo dell’Egira (migrazione), nel 1030 d.C. circa. Anche della sua vita abbiamo notizie molto scarse e, per quel poco che sappiamo, sono frutto di aneddoti e antichi riferimenti alla sua opera o alla sua persona. L’immagine che ci è pervenuta mostra un uomo molto saggio e attento a tutto ciò che lo circonda.

    Senz’altro Omar Khayyâm fu un uomo molto erudito che godeva di grande stima e privilegio presso i sapienti e i potenti del suo tempo: oltre a sapersi districare in matematica (sua l’introduzione all’algebra), fisica, astronomia (fece parte della commissione incaricata di riformare il calendario secondo calcoli astronomici), filosofia e medicina (seguendo Avicenna), fu anche un poeta, e a noi piace pensare a lui come un umanista in anticipo di qualche secolo sull’Umanesimo.

    Impossibile non provare ammirazione e rispetto per un tal personaggio che, pur apparendo quantomeno controverso, per alcuni fu ateo, scettico, propenso alla bestemmia; per altri invece (tra cui noi), fu un filosofo e autore di versi intrisi di filosofia epicurea, i quali ripetono spesso un vecchio refrain, già espresso da molti prima di lui: «Bevi e sii felice». Attenzione però a non dedurre dalle Quartine che Omar Khayyâm fosse un uomo dissoluto, noncurante, fu invece solo un grande estimatore e bevitore di vino. Nel linguaggio dei poeti, il vino assume spesso il significato di mezzo per arrivare alla felicità e tranquillità della mente. «Sappi che l’attimo è una bottiglia» recita il poeta, e invitava ad afferrarlo questo attimo «Carpe diem!», Orazio, più di dieci secoli prima.

    È solo grazie al letterato inglese Edward Fitzgerald (1809-1923), affascinato dai bei versi, se l’opera di Khayyâm divenne nota: egli, infatti, nel 1859 li traspose nella propria lingua e fu subito un successo. Evidentemente il pensiero di Khayyâm interessa ancora molta gente visto che le sue Quartine sono tradotte nei quattro angoli del mondo. Forse anche personaggi come Baudelaire e Neruda si ispirarono a lui.

    Nato e vissuto in area musulmana e in modo inequivocabile di cultura islamica, in un periodo in cui in Europa l’imperatore Enrico IV e il pontefice Gregorio VII, dentro le mura del castello di Matilde di Canossa, si scontravano su chi avesse il diritto di nominare i vescovi, Omar Khayyâm è per noi «enofili» un vero «Maestro».

    La poesia che ci è giunta dall’antica Persia – vedi Abu Nawàs (760-815 d.C.), Hafez (1319-1390) – è intrisa di suoni e colori tipici del mondo orientale, del profumo delicato dei fiori, dei colori delle pietre preziose e degli accordi del liuto pizzicato da giovani fanciulle. Ma tra questi poetici arabeschi, il vino occupa una posizione di rilievo e Omar Khayyâm ne è un fine estimatore: «Rosa rossa è il vino, la coppa è d’acqua di rosa. Nel fior di cristallo riposa un rubino vergine. Nell’acqua della vite, sfolgora un rubino fuso». Nelle sue quartine ritroviamo molta saggezza, come quella che contiene un impensato invito alla moderazione nel bere: «Se bevi vino, bevilo insieme ai sapienti. O insieme a una bella fanciulla dal volto di tulipano; non prenderne molto, né di frequente, né in pubblico. Ma poco, ogni tanto e in segreto». Ma molto probabilmente, come capita a tutti noi, si tratta della debolezza di un attimo, dettato chissà da che cosa, perché subito dopo aggiunge: «O Khayyâm, sei ebbro di vino, sta lieto. Se te la spassi con belle dal volto di luna, sta lieto. Poi che ogni cosa del mondo nel nulla finisce, pensa che tu sei nulla, ma già che ci sei, sta lieto».

    Cari lettori che ci seguite, vi dobbiamo confessare che un piccolo volume delle opere di Khayyâm è sempre inserito nella nostra borsa da viaggio insieme alle cose necessarie (medicamenti e igiene personale), i temi trattati, che vanno dal trascorrere del tempo, ai piaceri, alle tristezze, il senso della vita e della morte, grazie al vino (per cui Khayyâm fu accusato di empietà) come simbolo vengono legati tra loro da un filo doppio. Spesso la lettura di queste quartine ci ha fatto compagnia, donandoci momenti di serenità, aiutandoci a godere della vita con un po’ più di filosofia e distensione.

    La lettura delle quartine possiede uno stile e un’eleganza trascinanti: il poeta non adorna i suoi scritti e non ostenta la sua arte, sa di essere ironico, senza mai essere canzonatorio, non è mai ostile al prossimo e con parole dense di riflessione, offre consigli e ammonimenti. Qualche volta Khayyâm avverte l’opportunità di fornire un ragionevole motivo per la sua grande passione per il vino: «Se io bevo vino non è per un mio piacere personale e non è per sregolatezza o sprezzo della religione o della morale. No. È solo per respirare una boccata d’aria fuori da me stesso».

    Sappiamo dagli aneddoti che Khayyâm rifiutò spesso alte cariche che gli venivano offerte, preferendo una piccola indennità che gli consentisse di dedicarsi ai suoi studi: «Felice, in questo mondo colui che condur seppe libera vita. E sempre contento di quel che Dio donava, ebbe libera vita. Da ogni momento dell’esser suo, seppe trarre allegria sana. E, amor puro e vino schietto, fare gaia e libera la vita». Altre volte, magari in momenti negativi, sfida il difficile terreno religioso, ponendo i suoi problemi direttamente al Creatore: «Tu sei il Creatore, e me così Tu creasti, così follemente amante del vino e delle belle canzoni! Poiché così mi formasti già fin da prima del Tempo, per qual mai ragione poi nell’Inferno mi getti?».

    Problemi che, tuttavia, grazie alla vicinanza di una fanciulla e un calice colmo di vino possono essere risolti: «Da una mano la coppa, e dall’altra le belle trecce. Seduti al bordo di un prato di buon paesaggio e gaiezza. E bere, bere, non pensando alla sfera ove girano i cosmi. E bere, bere da crollare, ebbri insieme del vin d’ebbrezza».

    In molti versi del Corano, il Paradiso viene presentato come il luogo dove si realizzano tutti i desideri, fiumi di latte, vino speziato, miele, giovani fanciulle di bellezza straordinaria, ma il poeta pur non negando tutto ciò… «Dicono: Domani avremo le Huri, il celeste Gange. Ruscelli di zucchero e latte, polle di miele e vino! Intanto, empi la coppa e dammi vino di quaggiù: un solo zecchino supera la beltà di mille promesse».

    Grazie alla nostra guida Mohamoud, nel maggio di qualche anno fa, giungemmo alle porte di Nishapur, nell’Iran nord-occidentale, dove con grande emozione abbiamo visitato il luogo dove Omar Khayyâm fu sepolto. Spirava un leggero vento che faceva cadere i fiori di pesco dai rami sopra il muro che circonda il giardino. In quell’oasi di pace, lo stormire delle foglie ci portò alla mente una delle quartine più famose: «Sotto un rosaio, accanto un idolo, a un ruscello col vino, gusterò la mia gioia, finché vorrà il Destino. Fin quando fui, sono e sarò, nel mesto mondo, bevvi, bevo e berrò».

    / Davide Comoli

  • Da Soave ai Colli Euganei

    Bacco giramondo – Prosegue il viaggio enogastronomico nella regione del Veneto

    Sul numero del 3 gennaio 2022, giunti con il nostro viaggio tra le regioni vitivinicole italiane nel Veneto, avevamo concluso la giornata a Pescantina. Lasciandoci alle spalle Verona, imbocchiamo la SR11. Superato San Martino Buon Albergo, nota località termale, arriviamo a Soave, cinta da turrite mura medievali, dalla cui Rocca lo sguardo spazia sulle circostanti colline ricoperte da una fitta selva di vigne.

    Sono ben più di seimila gli ettari vitati che fanno di Soave la D.O.C. italiana con la più alta produzione di vini bianchi fermi. L’importante Cantina Sociale ci ospita per una visita. Qui, sui rilievi collinari delle valli d’Alpone, del Tramigna, dell’Illasi e di Mezzane, il vitigno Garganega ha trovato l’habitat ideale per la produzione di grandi vini bianchi: le radici di questo vitigno traggono infatti nutrimento da suoli di origine vulcanica, ricchi di calcare e fossili marini.

    Appena aperto al naso è leggermente chiuso, il nostro Soave Classico ricorda lo zolfo, ma subito dopo ci dona un’esplosione di fiori di campo e si percepisce in modo chiaro la mela renetta. Diverso è il Soave Superiore D.O.C.G., che oltre alla Garganega 70%, contiene una parte di Trebbiano Veronese, che dona struttura, e Chardonnay con profumi di frutta tropicale e note di ginestra dal lungo finale. I biscotti secchi appena sfornati fanno da corona a un vero principe: il Recioto del Soave, ottenuto da grappoli fatti appassire sui graticci o appesi ai fili (picai); dal colore dorato, è un concentrato di frutta disidratata e miele, dolce e vellutato, emana poi note di fiori d’arancio e l’inconfondibile finale di mandorle.

    Ci dirigiamo verso nord, attraversiamo Monteforte d’Alpone risalendo l’omonima valle tra vigne e frutteti, svoltiamo a destra e arriviamo a Roncà, situata su un antico cono vulcanico, della parte più orientale dei Monti Lessini, ma la nostra meta è il vicino borgo di Santa Margherita, famosa per il suo vino bianco Durello, prodotto con 85 % dell’autoctona uva Durella e il restante 15 % di Pinot Bianco. Lo Spumante Lessini Durello D.O.C. è stato un aperitivo molto apprezzato, soprattutto per la sua mineralità che svela la natura vulcanica del «terroir».

    Lasciamo la provincia di Verona ed entriamo in territorio vicentino. La distanza dalla zona del Soave è minima e la liaison tra le due zone è data dal vitigno Garganega, che però in questa zona matura su terreni calcarei-argillosi. A Gambellara questo vitigno è senz’altro il simbolo del territorio: viene prodotto in versione ferma, spumante e passito. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter gustare anche il Vin Santo di Gambellara, prodotto solo nelle annate migliori, dopo aver goduto del bianco locale con il classico «Riso e bisi».

    Ritorniamo sulla SR11, attraversiamo Montecchio, dove dai due castelli intitolati a Romeo e Giulietta, si ha una bella vista sulla pianura e su Vicenza. Dopo qualche km, svoltando a sinistra, prendiamo la 349 in direzione Thiene e poco prima del grosso centro manifatturiero svoltiamo a destra in direzione di Breganze.

    La zona della D.O.C. Breganze è situata su un’area collinare con dei tratti pianeggianti, tra i fiumi Astico e Brenta, favorita da un clima mite, dove crescono anche gli olivi. Molto diversi sono i terreni che troviamo in quest’area, infatti i suoli sono vulcanici-calcarei, di colore giallo-biancastro, fertili, compatti e ricchi di ghiaia lungo il corso dei due fiumi. In questa zona i vitigni internazionali hanno trovato un luogo ideale per la loro maturazione. Oltre a questi, sui 450 ettari vitati, troviamo il Bianco Friulano, i rossi locali come il Marzemino, il Gruaja, il Pedevenda e il Groppello.

    Ma il vero gioiello della D.O.C. Breganze è il vitigno Vespaiola. Da notare che vitigni con il nome simile li ritroviamo anche in altre parti d’Italia e si possono accomunare per la predilezione delle vespe, dovuta alla ricchezza di zuccheri propria del frutto. Da questo vitigno si ottiene il Vespaiolo, un bianco molto indicato con le preparazioni a base di asparagi, ma soprattutto, elaborato con i grappoli più spargoli, letteralmente attorcigliati a coppie di lunghe fila di spaghi (localmente chiamati torcolati), lasciati appassire, appesi alle travi delle soffitte e vinificati il febbraio successivo alla vendemmia. Il Torcolato è invece il vino immagine di questa zona. Dal colore ambrato, ricco di sentori di frutta candita, rose appassite, fiori d’arancio, uva passa e miele speziato, è un vino ricco che non finisce di stupirci, lungo sia all’olfatto sia al gusto.

    I vini rossi di prestigio in questa zona sono prodotti con le internazionali uve Merlot Cabernet, vinificati sia come monovitigno, sia in «blend», che non hanno niente da invidiare ai «cru» bordolesi. Degno di nota è pure il Pinot Nero (la zona vanta una delle superfici più coltivata a questo vitigno della penisola), che con le sue note di fragoline di bosco e lamponi, è stato l’ottimo compagno dei «Torresani allo spiedo» (piccioni cotti al fuoco di legna), gustati alla sera a cena a cui hanno fatto seguito le ciliegie sotto grappa della non lontana Marostica.

    Ritornando verso Thiene abbiamo preso la S349 direzione Vicenza e quindi la S247. A sud di Vicenza si estende un paesaggio modellato dai Colli Berici, caratterizzato da un alternarsi di pianura e colline immerse nei vigneti: qui sorgono alcune tra le più belle ville del Palladio. Dal punto di vista vinicolo la zona è la patria della D.O.C. Colli Berici, dove vengono coltivati oltre ai soliti «internazionali» la Garganega e il Manzoni Bianco (Riesling Renano x Pinot Bianco) e il Tai Rosso, che degusteremo dopo aver visitato la stupenda Villa Valmarana ai Nani, immersa tra le vigne e aver goduto, «gioia per gli occhi», lo straordinario ciclo di affreschi di Giovan Battista e Giandomenico Tiepolo e subito dopo una delle migliori opere del Palladio: la Rotonda di Villa Almerico Capra. Dopo aver nutrito lo spirito, passati per Castegnero, procediamo verso Nanto, lungo la Strada del Tocai Rosso, ci immettiamo di nuovo sulla S247 e dopo un paio di chilometri giriamo a destra, dove situato sulle pendici orientali dei Monti Berici arriviamo a Barbarano Vicentino, comune di tradizione vinicola, dove si coltiva il vitigno simbolo della zona, il Tai Rosso, che in questo luogo prende il nome di Barbarano. I vari formaggi e salumi locali, tra cui il prosciutto crudo Veneto Berico-Euganeo, sono i degni compari dello spuntino che esaltano i fragranti ricordi di ciliegia e viole ritrovati nel nostro Tai Rosso. A Ponte di Barbarano si gira a destra e si entra in provincia di Padova, siamo nella zona dei Colli Euganei, famosi per le terme, ma pure per i vini. Isolati sia dalle Prealpi sia dai Monti Berici, i Colli Euganei con un’altezza massima di 600 m, si trovano a sud di Padova. Siamo a Rovolon, da cui si gode un magnifico panorama su Abano Terme e la pianura sottostante.

    L’ottima esposizione e le rocce sedimentarie marine rendono possibile la coltivazione di numerosi vitigni e la conseguente produzione di molti vini diversi, da bersi giovani.

    Amici di lunga data ci hanno accolto al Montegrande di Rovolon. Un floreale Pinello (l’autoctono Pinella) ha aperto le danze, il Serprino Frizzante (Glera) ha accompagnato una «torta salata alle erbette», il Manzoni Bianco è stato il compare delle «seppie al tegame», il Rosso Gemola 2013 (Merlot 20%, Cabernet Franc 30%), caldo, balsamico con ricordi di resina, sposo del «fegato alla veneta con cipolle bianche», il famoso Moscato Fior d’Arancio D.O.C.G., dagli avvolgenti profumi di zagara, l’ideale partner della «Tarte Tatin».

    / Davide Comoli

  • Cronache vinarie del XII-XIII secolo

    Il vino nella storia – In quel periodo bianchi e rossi venivano imbarcati in grossi tonneaux di circa mille litri

    Montsoreau è un piccolo villaggio della Loira (Coteaux de Saumur). Accanto al suo castello – costruito con il tufo, fece da cornice a un famoso romanzo di Alexandre Dumas – si trova l’Abbazia di Fontevraud, nella quale si trova la tomba dei Plantageneti. I nostri viaggi enologici sono incappati spesso in luoghi dove storia e vino s’intrecciavano raccontandoci molte leggende: qui a Fontevraud, la storia ci avvolge nel suo manto e ci sembra di rivedere, come in tante pellicole, le gesta di Riccardo Cuor di Leone, Enrico II e della regina di Francia Aliénor d’Aquitania.

    Siamo nella prima metà del 1100, periodo in cui la città di Bordeaux s’ingrandisce e s’abbellisce di molti edifici, mentre la viticoltura s’insedia dove prima c’erano zone pietrose, paludose, terreni sino ad allora privi d’agricoltura, disboscando anche le foreste che circondavano la città; molti ceppi di vite sono impiantate nei terreni acquitrinosi sulla riva sinistra della Garonna. Iniziano in questo modo per Bordeaux viticolture reale, vescovile e borghese, unite tutte sotto lo stesso vessillo: quello del profitto.

    Sposando Aliénor, Enrico II assume anche il titolo di Duca della Guyenne, titolo che gli permette, nel 1178, di accordare alla città della Rochelle, dove fa costruire un nuovo attracco per le navi, una «Charta» grazie alla quale viene concesso agli armatori dell’Île d’Oléron il diritto di giurisdizione marittima sia dell’Atlantico sia del Baltico.

    Grazie al porto, la Rochelle diventa la base commerciale più importante per il commercio marittimo dell’Atlantico, attirando molte imbarcazioni di grossa stazza. La sua posizione sul mare permette a imbarcazioni dal grosso pescaggio di salpare dal suo porto. Le cronache riportano di vascelli che potevano caricare sino a 170 tonneaux de vin, quindi una quantità molto superiore alle barche a fondo piatto che faticosamente da Bordeaux dovevano risalire l’estuario, provenienti dalla bassa Dordogna e dalla zona oggi conosciuta come Entre-Deux-Mers.

    Non avendo conosciuto guerre, il territorio intorno alla Rochelle in poco tempo si copre di vigneti e i suoi vini vengono inviati in parecchie corti del nord, facendo cadere i vini di Bordeaux in una piccola crisi. Sono giunti fino a noi i nomi dei vitigni coltivati all’epoca nel Poitou: Cherière era un vitigno bianco e si pensa che sia l’antenato dello Chenin Blanc dei giorni nostri e un rosso chiamato Chauce, forse l’antenato del Pinot Nero.

    Come abbiamo accennato il vino veniva imbarcato in grossi tonneaux di circa mille litri, da qui la nascita della parola «tonnellata» che sta a indicare ancora oggi la stazza delle navi.

    Nel 1189 in pieno conflitto famigliare con i figli Riccardo Cuor di Leo-ne e Giovanni senza Terra, Enrico II rende l’anima a Dio. L’erede Riccardo, che incarna gli ideali cavallereschi dell’epoca, scialacqua in breve tempo l’ampio patrimonio paterno, partendo per la III crociata (1190), lasciando in disastrose condizioni economiche l’Inghilterra. Approfittando di questa situazione, Giovanni senza Terra, con la regia di Aliéron che tesse le trame, cerca d’impossessarsi del trono.

    Filippo II di Francia, non perde l’occasione e attacca con caparbietà i possedimenti di questi suoi pericolosi vassalli, conquistando la Normandia, con la vittoria di Bouvines nel 1214. Per premiare questa impresa a Filippo II viene aggiunto il titolo di «Augusto», colui che «augebat rem publicam» («accresce la repubblica»).Possedere delle vigne ed essere in grado di servire vini pregiati ai nobili ospiti in visita aumentava il prestigio del nobile di turno: era infatti un onore ricevere per poi restituire il favore.

    Con il ritorno di molti nobili dalla III crociata, arrivano anche nuovi vitigni, portati lungo le rotte mediterranee della Terrasanta. In quel tempo erano molto apprezzati i vini bianchi dolci prodotti da uve Moscato e Malvasia, lasciate ad appassire al sole, che senza dubbio erano ricchi di alcol con un alto tenore zuccherino residuo, come i vini di Corfù, Zante e Cipro, divenuta nel 1192 un feudo cristiano. Molto apprezzato era l’Osoye, l’antenato del Moscatel de Setúbal, ma anche vini di Grenache, rossi poco zuccherini, ma possenti.

    Fino alla caduta (3 agosto 1224) del suo porto, la Rochelle continua a inviare in Inghilterra migliaia di tonneaux di vino: i documenti dell’epoca lo dimostrano. Sentendosi abbandonata, la città passa dalla parte francese. È il momento che Bordeaux attendeva, fedele alla corona inglese. Grossi carichi di vino provenienti dalla Guascogna, risalgono la Garonna, il Tarn, la Dordogna, verso l’estuario facendo rotta lungo la costa inglese, usando Bordeaux come scalo intermedio. Un documento parla addirittura di mille tonneaux di «Clairet», il famoso vino di una notte, inviato a Gloucester per la festa di Pentecoste del 1226.

    Il trovatore normanno Henri D’Andeli, nato a Rouen alla fine del XII secolo, scrisse nel 1230 un poemetto di 204 versi in omaggio a Filippo Augusto, per onorarlo dopo la sua dipartita (1223). Filippo Augusto era molto amato per aver reso il regno di Francia uno dei più potenti della sua epoca. Famoso per il suo forte appetito, ma soprattutto grande bevitore, disprezzava il vino rosso e amava i buoni vini bianchi (sempre solo bianco!). Il poemetto è passato alla storia come: La Bataille des vins.

    Vede Filippo II presidente a un concorso di vini che si producevano sia dentro sia fuori dal regno, per eleggere il migliore. Come assistente, non sceglie né un vigneron né un negoziante di vini, ma un prete inglese, forse per dimostrare quanto gli inglesi fossero degli ottimi conoscitori, ma soprattutto grandi clienti. Peccato che il prete, ubriaco fradicio, muoia dopo appena tre giorni di degustazione.

    Il Re, sempre lucido, nomina vincitore il bianco di Cipro (quale Papa) e un vino bianco di Aquileia (come Cardinale), mentre, quali tre re e tre Conti, quasi tutti vini del nord della Francia, che sgominano così molti vini rossi. Nessun vino proveniente da Tolosa, da Albi o della Languedoc viene nominato.

    / Davide Comoli

  • Nella terra dell’Amarone

    Bacco giramondo – Le colline del Garda e della Valpolicella-Veneto – Prima parte

    Alcuni reperti fossili di ca. 40 milioni di anni fa, rinvenuti nella «pescaia» di Bolca di Vestenanova sui Monti Lessini, avevano fissato nella roccia l’immagine di alcune foglie ed infiorescenze delle Ampelidee, progenitrici dell’odierna Vitis vinifera sativa.

    L’uomo non era ancora comparso sul pianeta e per ritrovare altri segni degni di nota sul nostro tema, si deve arrivare all’era delle palafitte, lungo le coste del lago di Garda, sia sulla sponda bresciana, sia a Peschiera e Lazise nel Veronese, dove furono rinvenuti vinaccioli ed utensili collegati «forse» a rudimentali processi di vinificazione. Questo testimonia l’intenso legame che il Veneto ha con la viticoltura. Forse è proprio in virtù di questa secolare tradizione che il territorio di questa regione si presenta molto vario e ricco dal punto di vista ampelografico.

    Intorno al 1000 a.C. i Veneti si insediarono nella regione, seguiti tra il VII e V sec. a.C. dagli Etruschi e dai Reti Arusmati, il loro incontro portò un certo successo nell’arte della vinicoltura. La fama del vino Retico arrivò con la dominazione romana e più tardi con le invasioni barbariche, che portarono alla decadenza la coltura della vite. Intorno all’anno 1000 la coltura della vigna pare diventare l’attività prevalente, prosperando sotto la Serenissima Repubblica di Venezia.

    Tra momenti di alta produzione e altri più drammatici come l’inverno del 1709 e la «filossera» del secolo scorso, oggi il Veneto è la principale regione italiana per quantità di uva prodotta, ma anche per la produzione di vini, quasi 9 milioni di ettolitri, su di una superficie vitata di ca. 80’000 ettari, dove un ruolo di particolare rilevanza per la penetrazione nei vari mercati, è stata data dal «fenomeno» Prosecco, ma è il Soave, con le sue varie tipologie di vini e i suoi 7000 ettari collocati sulle colline della parte orientale di Verona, che detiene la palma del «più esteso vigneto d’Europa».

    I quasi 19’000 kmq del territorio Veneto, vengono occupati dal 56,4% da pianura, 29,1% da montagna e il 14,5% da collina, sui quali predomina un clima temperato subcontinentale, dove l’azione mitigatrice del Mar Adriatico e la protezione dai venti freddi del nord data dalle Alpi, svolgono un ruolo molto importante.

    Il Veneto presenta dei terreni molto variegati che permettono ai vari vitigni di esprimersi su diversi livelli di qualità. Sulle sponde limitrofe al lago di Garda (sponda veronese), troviamo due diverse zone, dove i vitigni come il Corvina, Rondinella, Molinara, Rossignola e Corvinone, si esprimono in modo diverso. Sui terreni morenico-glaciali della zona di Bardolino, troviamo vini freschi e fruttati, mentre in Valpolicella con i suoli ricchi di argilla, arenaria e calcare, danno vini ricchi di colore, corpo, speziatura e mineralità. Per ottenere vini più ricchi di profumi è diffusa la pratica «dell’uvaggio», la Corvina assicura colore, profumi fruttati, floreali e acidità, la Rondinella apporta corpo, profumi speziati e armonia, la Molinara acidità e un gusto delicatamente amarognolo.

    Uscendo dalla A4 provenienti da Milano, usciamo a Peschiera del Garda e bordeggiando il lago arriviamo a Lazise, piacevole borgo lacustre, dove ci concediamo una piccola pausa concedendoci un buon bicchiere di Lugana, qui chiamato Turbiana, dai piacevoli profumi di fiori bianchi, agrumi e albicocche, la sua struttura suggerisce di abbinarlo ad un piatto locale come la «tinca con polenta». Questa è una terra tutta da bere, dove i vini si sposano a meraviglia con i piatti della tradizione scaligera. Proseguiamo in direzione nord, verso Bardolino, celebre per l’omonimo vino rosso. I suoli morenici e l’escursione termica tra il giorno e la notte, permettono di ottenere un vino dai sentori di ciliegia, frutti di bosco e una piacevole speziatura. Il Bardolino Superiore Classico è stato il primo vino rosso veneto ad ottenere nel 2001 il riconoscimento D.O.C.G.

    Il rosa intenso, il frutto rosso quasi di macedonia e i profumi leggermente floreali del Bardolino Chiaretto che abbiamo gustato nella pausa di mezzodì, è stato il giusto abbinamento alla nostra «insalata estiva di pesci di lago».

    La Valpolicella è la zona collinare che si estende a nord di Verona, solcata dai corsi d’acqua di tre torrenti (qui chiamati «progni»), che dai Monti Lessini scendono verso l’Adige, formando 3 valli parallele, dove il paesaggio è dominato dai vigneti e da eleganti dimore. Qui allevati con la classica «pergola veronese» i vitigni sopracitati e in misura minore la Forselina, la Negrara e l’Oseleta, danno vini di prestigio come: il Valpolicella Superiore, il Ripasso della Valpolicella, l’Amarone e il Recioto.

    Arrivando da Bardolino, entriamo in quella che viene definita la zona Classica di produzione dei vini della Valpolicella, caratterizzata da 5 aree geografiche che producono vini dalle caratteristiche organolettiche differenti. A Sant’Ambrogio, famoso anche per il suo marmo rosso, su terreni calcarei, si ottengono vini longevi, strutturati e di una contenuta acidità. Scendendo a valle lungo il torrente, arriviamo a Fumane, i vigneti si trovano su rocce calcaree stratificate e i vini ottenuti hanno delle note floreali, morbidi, di corpo e una buona longevità in cantina. Salendo la Valle del progno Marano, raggiungiamo il villaggio che porta lo stesso nome, è questa una delle zone più coltivate, situata tra i 300-400 m, i suoli sono costituiti da vulcaniti basaltiche, i vini prodotti sono molto eleganti, con intensi profumi di ciliegia e prugna secca, con una buona acidità. In loco abbiamo provato tra l’altro un Recioto della Valpolicella Classico 2014, dal colore rubino molto concentrato, al primo impatto olfattivo ci ha colpito il sentore di erbe officinali, seguito subito da profumi di confettura di frutta matura, con un finale che ci ha avvolto in un abbraccio di cacao e spezie, lo abbiamo provato con i «bussola», delicati biscotti con pinoli, canditi, mandorle, cioccolata a pezzi, pepe e noce moscata, il ricordo dei quali ci fa tornare l’acquolina in bocca. Forse il moderno Recioto è l’erede prodotto più di 2000 anni fa con uve appassite.

    Scendendo una piacevole vallata bordata da colline di cipressi, arriviamo nel tardo pomeriggio a Negrar. Questa zona vanta la produzione dei «cru» più prestigiosi: su un suolo argilloso-limoso, le uve danno vini di grande struttura e longevità, con un’eleganza fuori dal comune. Nel tardo pomeriggio passando da Pedemonte, dove visitiamo la Villa Serego-Boccoli (XVI sec.), progettata dal Palladio, attraversiamo San Pietro in Cariano, storico centro politico e amministrativo della Valpolicella, dove su terreni alluvionali chiude a sud la zona Classica, producendo vini dalle note balsamiche e speziate.

    Con gli amici Piero ed Ercole, alla sera ci fermiamo a Pescantina, dove in località Ospedaletto siamo ospiti della famiglia Tommasi, nel complesso seicentesco di Villa Quaranta. I «bigoli (specie di grossi spaghetti) con il sugo d’anatra», vengono innaffiati da un’intrigante e fresco Valpolicella Superiore, mentre la classica «pastissada de caval» (stufato di cavallo con pomodoro), viene esaltata da un magnifico Amarone de Buris 2008, una vera eccellenza, quasi impenetrabile alla vista, con un’incredibile concentrazione di frutta rossa: un vino grandioso che raggiunge i vertici dell’eccellenza, che il nostro anfitrione ha voluto con grande signorilità condividere con noi.

    / Davide Comoli

  • Nelle vigne del Signore

    Vino nella storia – Quel che si deve ai monaci dei secoli XII-XIII: dai Benedettini delle origini, passando dai Cluniacensi, fino ai Cistercensi

    Il vino è sicuramente uno dei temi attorno al quale, sia pure con gli equivoci sfondi delle taverne, si sviluppa quel poco di poesia laica che il Medioevo è riuscito a farci pervenire. Il vino, tutto sommato, resta una delle poche fievoli luci che riescono a illuminare quelli che noi chiamiamo «secoli bui».

    Una luce che, forse grazie ai Clerici Vagantes, riesce a trovare uno spiraglio nello spazio lasciato di proposito aperto nei massicci portoni dei monasteri, per permettere l’ingresso alla bevanda sacra a Bacco. Uno spiraglio incredibilmente lasciato socchiuso dalla rigida Regola di San Benedetto, disposta a fare concessioni riguardo il prodotto della vigna.

    Nel capitolo XL della Regula Benedicti, intitolato De mensura potus (La misura della bevanda; ovvero La quantità del bere), si ritiene che – in linea di massima – per ogni monaco «un’emina* di vino al giorno sia sufficiente» (*misura greca che equivale a circa ½ litro), e non trascura di aggiungere che «quelli ai quali Dio dà la forza di astenersene sappiano che avranno una ricompensa particolare». In ogni caso continua: «se le esigenze locali o il lavoro o il caldo d’estate richiederanno di più, stia al superiore giudicarlo, badando che in nessun caso subentri sazietà e ubriachezza». Alla base di questa concessione della Regola, c’è una considerazione che poggia sul buon senso: «Siccome oggi non è possibile persuadere i monaci, acconsentiamo almeno che non si beva fino alla sazietà, ma con moderazione, perché il vino fa apostatare anche i saggi».

    Quanta saggezza! Se proprio il peccato non si può evitare, che almeno lo si commetta senza suscitare troppo scandalo.

    Per questi peccati minori («veniali» cioè «perdonabili»), nel Medioevo la Chiesa con un colpo di genio, s’inventa anche il luogo per l’espiazione: il Purgatorio.

    Il secolo XI ebbe un inizio (994) e una fine (1109). Fu il secolo che dipanandosi, diede avvio a un profondo cambiamento nella storia dell’Europa occidentale: l’assoluta affermazione della superiorità e centralità della Chiesa di Roma, l’innalzamento a legge indiscutibile di tutte le norme elaborate a Roma e il passaggio in secondo piano di tutte le altre Chiese locali.

    In quel tempo già molti monasteri si erano un po’ allontanati dalla Regola benedettina; la tolleranza agli eccessi di carne e di vino era divenuta a poco a poco un’abitudine. E proseguì fino a produrre una reazione contraria. Una grossa spinta al ritorno a un modello di vita monastica che accentuasse gli aspetti penitenziali e ascetici della Regola benedettina, perseguendo con maggior rigore la povertà e l’isolamento, fu data dall’Abbazia di Cîteaux (Cistercium), fondata nel 1098 da Roberto Molesme. Nel 1119, l’abate Stefano Harding formalizzò la proposta religiosa contenuta nella Carta Caritatis, con la quale i Cistercensi rifiutavano inizialmente i diritti signorili e quelli connessi con il controllo delle chiese. Anche se alla fine del XIII sec., certi ideali cominciarono a venir meno, la regola Cistercense ci ha lasciato un’immagine positiva della figura del monaco, non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche per quel che concerne la gestione economica.

    Più dei Benedettini delle origini, i monaci Cluniacensi, e ancora di più i Cistercensi, diventano dei viticoltori. In Borgogna questi ultimi creano tra il XII e il XIII sec., una «corona» di vigne, acquisendo (senza eccedere nel bere), un solido sapere viticolo ed enologico. È certo che stabilirono il rapporto che esiste tra «terroir» e vitigno, forse in modo empirico. Vuole la leggenda che i monaci, per analizzare il suolo, mettevano in bocca piccole particelle di terra, sia quelle ricevute in dono quanto quelle strappate alla boscaglia.

    Alla fine del XIII sec., i climats, così erano e sono tutt’ora chiamati gli appezzamenti vocati alla viticoltura, si distinguevano e venivano identificati per il loro aspetto fisico (Montrachet, e Mont Chauve), per la loro pedologia (les Perrières, les Grèves, les Gravières), per le loro particolarità botaniche (les Charmes, les Genevrières). Sfruttando il materiale di cava essi non lesinano il materiale per le loro chiese e con lo stesso ardore, edificano luoghi per la fermentazione delle uve e capaci cantine ove stoccare il vino. La cantina di vinificazione del castello di Clos de Vougeot è lunga 27 metri, larga 16 e alta 6, mentre la vicina cantina sotto lo Château di Gilly, poteva contenere sino a 2mila «pièces» (botti da 228 l).

    Oggi qualcuno avanza seri dubbi sul ruolo dei Cistercensi nelle nostre campagne: gli storici sostengono che essi abbiano beneficiato di una dinamica già in atto da tempo nelle campagne europee. Ma per noi che scriviamo quei Monaci rimangono i dissodatori, dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia alla Andalusia; per noi, essi hanno creato radure nelle fitte foreste, provetti idraulici hanno domato fiumi e drenato paludi, pionieri della rotazione triennale sono riusciti a ottenere alti rendimenti agricoli; per noi hanno selezionato grandi vitigni.

    I cellieri Cistercensi costruiti nelle regioni viticole più rinomate, per la maggior parte hanno resistito al tempo come ad esempio Eberbach, nel cuore dei vigneti di Rheingau al già citato Clos de Vougeot o a La Bussière, sempre in Borgogna. Per questo motivo i Cistercensi costituiscono una testimonianza primaria nella produzione del vino nel Medioevo insieme ad altri Ordini.

    Tempo fa, spinti dalla passione enologica e dalla voglia di capire meglio il mondo del Monachesimo medioevale, abbiamo cercato delle «appellations» di vini che avessero un’origine monastica, attualmente ce ne sono 109 in Francia, 45 in Germania, 27 in Austria, 17 in Italia, 12 in Svizzera, 9 in Portogallo, 7 in Spagna, 5 in Grecia e 2 dubbiose in Gran Bretagna.

    Scelto per voi

    Michel Genet Champagne

    La famiglia Genet ha una lunga storia radicata a Chouilly, villaggio situato lungo la D3 tra Épernay e Ay.

    Antoine, Vincent e Agnes hanno voluto onorare il padre dando il nome a questo Gran Cru brut nature, prodotto solo con uve Chardonnay; un blanc de blanc che ci stupisce per i suoi aromi floreali e vegetali.

    La complessità dei sentori di tostato, frutta secca e mandorle fresche che vengono espresse nel palato dallo Chardonnay con la maturazione – al quale non manca un tocco di mineralità e un finale che ricorda l’ananas maturo – fanno di questo Champagne l’ottimo partner per il brindisi di fine anno, sia come aperitivo sia come compagno su una lunga serie di piatti, dai pesci con salse saporite al pesce affumicato o ai piatti di carne aromatizzati con spezie orientali.

     

    / Davide Comoli

  • Per tutti è sinonimo di «vino toscano»

    Bacco giramondo – Tra Firenze e Siena, il Chianti viene prodotto in una vasta regione che va al di là dei suoi confini geografici

    Siamo nella Toscana Centrale, stiamo percorrendo la Strada Regionale 222. Si snoda tra colline: si rincorrono in una sequenza che sembra non interrompersi mai. Siamo nel Chianti.

    Regione situata tra Firenze e Siena, è delimitata a est dai monti che sovrastano il fiume Arno e si estende a sud nelle Valli della Greve, della Pesa, dell’Elsa e dell’Arbia. Questa zona ha uno straordinario fascino: tra cascinali ristrutturati e cantine ultramoderne che sfruttano tecnologie sofisticate, i vigneti sono curati come fossero aiuole fiorite.

    Sinonimo in tutto il mondo di vino toscano, il Chianti viene prodotto in una vasta zona che va al di là dei suoi confini geografici. La denominazione Chianti può così essere integrata con specifiche sottozone corrispondenti alle relative aree geografiche che sono: Colli Senesi è la zona più vasta; Chianti Rufina, denominata Pomino con il Bando Granducale del Settecento quando era considerata «il serbatoio» vinicolo di Firenze; Chianti Colli Fiorentini, che va da Fiesole a Scandicci; Chianti Montespertoli, la sottozona più giovane, disciplinata nel 1996; Chianti Colli Aretini, la più piccola con solo 140 ettari vitati; Chianti Colline Pisane, forse il meno «chiantigiano» influenzato dai venti che provengono dal mare; e il Chianti Montalbano, il classico «Chianti» molto semplice, da gustare con un panino al lampredotto, tenendo i piedi distesi sotto un tavolino da bar.

    Il disciplinare del Chianti prodotto in queste zone prevede l’impiego (minimo settanta per cento) di Sangiovese, completato dai soliti vitigni rossi sia autoctoni che alloctoni, ma anche in minima parte di Malvasia Trebbiano, uve a bacca bianca.

    Altra storia invece quella che riguarda il Chianti Classico, quello del Gallo Nero per intenderci, che si prende quasi settemila ettari di vigneti, tra Firenze e Siena. Un mondo che si stacca in modo particolare dal resto del territorio: qui batte forte il cuore della Toscana che esprime con vigore il suo carattere e la sua anima. Anche il nostro cuore ha dei sussulti quando ad una curva, magari in una di quelle famose «strade bianche», in un rettangolo strappato dalla macchia, scopriamo la rigorosa geometria di un vigneto.

    Dal 1966 il Chianti Classico (nove i comuni che compongono la D.O.C.G.) ha abbassato le rese per ettaro, ha definitivamente escluso i vitigni a bacca bianca e ha introdotto Cabernet Sauvignon e Merlot. Questi i parametri che lo differenziano dagli altri Chianti, sebbene resti comunque l’obbligo dell’ottanta per cento di Sangiovese nella produzione del vino.

    Il nome Chianti deriverebbe dalla voce etrusca «Klante» o «Klan» = acqua, si pensa che fosse il nome del torrente Mastellone affluente dell’Arbia. Mentre il Gallo è la bandiera del Chianti e la sua cresta ha la fierezza del grande Sangiovese che beviamo a Mercatale Val di Pesa. Elegante e possente, il nostro Chianti rende memorabile la degustazione, perché accompagnato da un «galletto» nutrito con tutti i sentimenti nell’aia accanto al ristorante, cucinato nel tegame.

    Proseguendo lungo la strada a tratti sinuosa e boscosa, raggiungiamo Badia a Passignano, situata sulla sommità di una dolce collina ricoperta di viti e cipressi. Da qui, scendendo, attraversiamo Sambuca, sfioriamo l’importante zona viticola di Olena, situata al confine del territorio fiorentino-senese, e arriviamo a Castellina in Chianti a 580 m, che gode di una posizione strategica tra le Valli dell’Elsa, della Pesa e dell’Arbia.

    Ci concediamo una breve sosta per visitare l’imponente palazzo Ugolino, per una degustazione in una delle pregiate cantine vinicole raccolte al suo interno.

    Tornando verso nord incontriamo il borgo di Panzano lungo una strada serpeggiante, questa zona è chiamata «la Conca d’oro del Chianti»; le vigne tutt’intorno formano un anfiteatro naturale, dove grazie al galestro con sabbia e gesso, i terreni danno la possibilità di produrre vini di un rosso profondo e di corpo.

    Una piccola deviazione prima di Greve ci porta nel grazioso paese di Montefioralle, con i suoi splendidi esempi di architettura rurale: qui nacque il grande navigatore Amerigo Vespucci. Greve è una grossa borgata, situata nel fondovalle dell’omonimo fiume, questa con Castellina e Radda sono le capitali storiche del vino italiano più famoso del mondo.

    Il paesaggio, che attraversiamo scendendo verso Radda, ci ricorda con vivezza la prima volta che visitammo le cantine di questa zona, i primi colloqui con gli enologi e i vari proprietari, passiamo davanti a Lamole, dove leggenda vuole che sia il luogo natale di Monna Lisa (la Gioconda).

    La frazione fortificata di Volpaia ha un suolo ricco di galestro e calcare, ciò che dona vini ricchi di polifenoli e acidità destinati a una lenta evoluzione, come il Sangiovese che abbiamo gustato per la cena. Qui il Gallo Nero ha lasciato nell’aria il suo chicchirichì possente, come questo vino che abbiamo abbinato a un «bove al Chianti». A Radda non ci fermiamo per la notte, non prima d’aver gustato un Occhio di Pernice, un Vin Santo con presenza di Sangiovese.

    Attraversiamo il territorio di Gaiole, dove i terreni sono molto poveri, ma ricchi di calcare, che permette di ottenere vini dai tannini decisi e longevi. Il borgo è circondato da poggi coltivati a vigneti. Scendendo verso sinistra incontriamo il castello di Meleto e poi, proseguendo a sud-est, arriviamo in una zona coltivata a vigneti e olivi, dominata dall’enorme mole merlata del castello di Brolio. Purtroppo, lo spazio che ci è concesso non permette di soffermarsi di più in questo luogo.

    Il successo del Chianti è legato alla famiglia Ricasoli. Bettino Ricasoli (1809-1880), il «barone di ferro», fu un’epica figura del Risorgimento italiano, ma inerente al nostro tema fu colui che introdusse la formula del «governo all’uso toscano» divulgando la composizione più idonea per il Chianti normale: Sangioveto 70%, Canaiolo 15%, Malvasia 15%. Eliminando la Malvasia e aumentando il Sangioveto per i vini da invecchiamento, siamo nel 1841, dà origine a una formula che durerà per oltre un secolo.

    Castelnuovo Berardenga è il borgo più a meridione del Chianti Gallo Nero.

    Scelto per voi

    Post Scriptum 2019

    Mentre a occhi chiusi portavamo al naso il Post Scriptum prodotto a São João da Pesqueira, in Portogallo, piccola Quinta (podere) situata lungo il fiume Douro, abbiamo avuto l’impressione (è un luogo da noi ben conosciuto) di respirare la sottile nebbiolina che alla sera avvolge il fiume, ricca di profumi.

    Il suo bellissimo colore di un profondo rubino, la sua struttura e gli intensi profumi di mora, mirtillo e cuoio, dei tipici vitigni Touriga Nacional, Touriga Franca, Tinta Roriz e Tinta Barroca, ci danno un finale molto minerale con sfumature resinose, e fanno di questo vino un prodotto delicato e nello stesso tempo potente.

    Ottimo, lo consigliamo con piatti di carne strutturati come gli straccetti e la selvaggina, noi lo abbiamo provato con dei Tournedos di manzo al vino rosso: una bontà.

     

    / Davide Comoli

  • I clerici vagantes delle taverne

    Vino nella storia – Il Medioevo? Un mondo in cui «Beve il papa, beve il re, bevon tutti senza regola, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella»

    La Chiesa, dopo la distruzione apportata dall’epoca barbarica alle scuole laiche di origine romana, diventa l’esclusiva divulgatrice dell’istruzione. Siamo nel Medioevo. Ogni studente è quindi un clericus, e viene a far parte «dell’ordo clericalis», cioè degli uomini di chiesa, distinguendosi tuttavia dai sacerdoti e dai veri e propri monaci per aver ricevuto solo i cosiddetti «ordini minori», ragion per cui hanno garantito il godimento di parecchi privilegi che vanno dall’esenzione dei pagamenti dei tributi dovuti al potere civile, all’esonero dal voto di castità (peraltro molto elastico in questo periodo storico).

    Sono poi «vaganti», perché si spostano da un ateneo all’altro, per frequentare le lezioni più rinomate nelle varie branche del sapere. L’Abate di Froidmont, Elinando (1179-1229 circa), scrive di loro con una certa stizza: «Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Parigi, gli autori classici a Orleans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo». Questi sono i «clerici vagantes», la loro casa è «todus mundus», un mondo invero costellato da traversie, pericoli e fatiche.

    Delusi in molte aspettative, la posizione dei «clerici vagantes» è particolare all’interno della società, quasi non si sentono di appartenere alla Chiesa e criticano lo Stato. Alcuni di loro mettono in versi la propria visione del mondo in cui stanno vivendo, dando vita a Canzoni da intonare (meglio se in coro), non sotto le vertiginose architetture delle nuove cattedrali gotiche o nelle sale di qualche Rathaus, ma nella dissacrante e allegra atmosfera di una taverna. Dai loro carmi disinibiti, tra il tintinnio dei boccali e il vociare degli avventori avvinazzati, affiorano tre grandi passioni, i dadi, la taverna e l’amore, uniti tra loro da un unico denominatore: il vino.

    Sono appunto questi «clerici vaganti», i goliardi a reintrodurre il vino in poesia dopo secoli di silenzio. Ancora oggi gli eruditi disputano intorno all’etimologia dell’aggettivo «goliardo»: alcuni sostengono che abbia radici in «galam» (cantare) o in «gualiar» (ingannare), ma altre ipotesi rimandano la radice a «Golia», il soprannome dispregiativo dato ad Abelardo dai suoi avversari, ma anche uno dei Maestri più amati dai «clerici vaganti».

    Circa trecento composizioni poetiche ci sono state tramandate in un manoscritto conservato nella biblioteca dell’abbazia di Benediktbeuern, l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata nel VIII sec. da San Bonificio nelle Alpi Bavaresi, ed è appunto dal nome dell’abbazia che questi canti sono noti come Carmina Burana. Ed ecco allora il canto scritto in lode al vino, tradotto così: «Salve colore del vino scintillante, salve sapore senza eguali, degnati di inebriarci con la tua forza… Beato lo stomaco nel quale entrerai, beata la gola che solcherai, beata la bocca e le labbra che laverai. E dunque lodiamo il vino, esaltiamo i bevitori, sprofondiamo nell’inferno gli astemi».

    La taverna, per tutto il Medioevo rappresenta un particolare microcosmo al cui interno vige una scala di valori diversa da quella espressa dalle società del tempo. È un mondo in cui regna l’uguaglianza, non esistono classi sociali e dove si venera l’unico dio pagano sopravvissuto allo spietato «repulisti» attuato dagli Ordini Religiosi: Bacco. In taverna, il povero e il ricco siedono allo stesso tavolo, dove tutti possono esprimersi in piena libertà, perché il vino è artefice dell’uguaglianza, perché è il medesimo per tutti e i goliardi ne sottolineano l’aspetto liberatorio e gioioso: «Questo vino buono, vino generoso, rende l’uomo più gioviale, probo e animoso», fra i suoi benefici, anche l’oblio degli affanni, «vino sors lenitur dura», col vino si lenisce la dura sorte.

    Il professore Bartoli, nel suo libro I precursori del rinascimento, descrive in modo magistrale la fisonomia di questi scapigliati e liberissimi poeti erranti e ipotizza l’imbattersi nelle taverne con le prime squadre di costruttori di cattedrali che, a quel tempo, come i «clerici vaganti» vagavano, loro a innalzare le meravigliose opere che ancora oggi possiamo ammirare in tutta Europa. A giudicare da molte somiglianze che si rilevano nelle pur diverse opere, l’ipotesi non è poi così azzardata. Le sculture e gli intagli che raffigurano sconce e ridicole pose di frati, monache e scimmie ritratte, forse sono satire ispirate nelle menti di quegli scalpellini dalle gaudenti strofe di quei cervelli libertini. «Quando Bacco irrompe nella mente del poeta, compie cose mirabili, il vino non ispira solo la mente, ma anche il cuore, Bacco oltrepassa il petto dell’uomo e lo induce all’amore, blandisce la mente delle fanciulle, anche quelle più severe e le rende gentili […] chi non beve vino puro, non è capace di separare il vero dal falso, maestri e ministri astemi mancano di senso».

    In un tempo dove imperversano lotte e divisioni, questi poeti offrono un mondo che accogli tutti i bevitori in un ebbro e giocoso girotondo dove… «Beve il papa, beve il re, bevon tutti senza regola, beve il signore, beve la dama, beve il soldato, beve il chierico, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella, beve il lesto, beve il pigro, beve il bianco, beve il negro, beve il povero e il malato, beve l’esule e l’ignoto, beve questa, beve quello, bevon cento, bevon mille».

    Concludiamo con un verso tratto dai ventiquattro poemi del Carmina Burana, che tutti gli amanti del vino, più o meno consapevolmente, hanno scelto come loro motto: «O potores exquisiti, licet sitis sine siti» e cioè «Illustri bevitori, sappiate che per bere non è necessario avere sete».

    Scelto per voi

    Humagne Rouge Gilliard

    Autentico tesoro del Vallese l’Humagne Rouge è un vitigno originario di questo Cantone, orgoglio della Maison Gilliard che dal lontano 1885 è leader indiscussa tra i produttori vallesani.

    L’Humagne che questa settimana vi raccomandiamo seduce per il suo carattere; i suoi profumi selvatici si mischiano a fragranze di landa e bacche di bosco. Ottimamente vinificato, l’Humagne possiede morbidezza e corpo: è molto piacevole in bocca con tannini presenti, ma leggeri, e in finale, i frutti lasciano una piacevole scia sul palato, dando l’impressione di un vino di straordinaria adattabilità ai vari abbinamenti che vanno dalle carni bianche alle carni rosse cucinate in modi diversi; ottimo con un plateau di formaggi.

    Noi lo abbiamo apprezzato molto nell’indovinato abbinamento con «Scaloppine di capriolo con spugnole».

     

     

    / Davide Comoli

  • Il buon vino della Toscana centrale

    Bacco giramondo – Non solo «Cantucci» e Vin Santo – Seconda parte

    La provincia di Grosseto è ritenuta la Maremma per eccellenza; è costituita da una pianura al di sotto del livello del mare che verso l’interno diventa collinare. Il paesaggio è costellato di ulivi e vigneti. All’uscita di Gavorrano, siamo saliti al piccolo villaggio sopracitato, dove l’amico Carlo, maremmano puro sangue, ci ha fatto provare un Monteregio rosso, Sangiovese in purezza, dai tannini vellutati e di un’inaspettata struttura, gustato con un buon «formaggio pecorino» stagionato. Un veloce «risotto alla marinara» lo consumiamo a Porto Santo Stefano, dove gustiamo un esclusivo Parrina bianco (Trebbiano-Vermentino), all’ombra del Monte Argentario con vista sul golfo di Talamone. Con la nostra «guida», risaliamo verso Scansano, dove il vino Morellino di Scansano è diventato la bandiera della enologia Maremmana.

    Il clima caldo e la scarsa piovosità permettono al Sangiovese, al raro Alicante Bouschet, al Canaiolo e al Ciliegiolo, una buona maturazione. Arroccato tra mura medioevali, il piccolo villaggio ospita un simpatico Museo del vino e accoglie pure noi. La sosta ci permette di gustare un Morellino Riserva, che ha subìto un’evoluzione in botte per 30 mesi: l’assemblaggio di Sangiovese 85 per cento e Alicante 15 per cento ha creato nel vino un meraviglioso connubio di forza e armonia; matrimonio d’amore, quello con lo «stufato di cinghiale con prugne secche».

    Seguiamo la S322E e attraversiamo un tratto panoramico prima di raggiungere Pitigliano. La sosta è d’obbligo per gustare il famoso Bianco di Pitigliano, prodotto un tempo solo da Trebbiano Malvasia, ma oggi anche con l’ausilio dello Chardonnay, che dà origine a un vino gradevole e fresco, ottimo accompagnatore per i tipici «crostini», il più classico degli antipasti toscani.

    Molti chilometri ci separano dalla prossima meta. È tardo pomeriggio quando, girato a destra di San Quirico e passata Pienza, arriviamo a Montepulciano, luogo incantevole di grande suggestione. Su terreni per lo più argillo-sabbiosi, tra ciottoli e fossili, le uve di Sangiovese, chiamato in loco Prugnolo Gentile, e quelle di Canaiolo, permettono vini dalle caratteristiche diverse a dipendenza del luogo in cui sono coltivate, che varia da un’altitudine situata tra i 250 e i 600 mslm. Il vino Nobile di Montepulciano con il Brunello di Montalcino sono stati i primi vini rossi a ricevere la D.O.C.G. nel 1980.

    Il Nobile Montepulciano, della tavola serale, ha un 10 per cento di Foglia Tonda, antico vitigno senese, molto usato in Val d’Orcia. Al naso si apre con un erbaceo di muschio che vira alle bacche di bosco e alla liquirizia, dal corpo pieno e un tannino forte, ma non spigoloso; è il complemento ideale per la nostra Fiorentina di pura chianina allevata a pochi chilometri da qui, a Sinalunga in Val di Chiana, e, per conciliare il sonno, niente di meglio che dei «Cantucci» inzuppati nel Vin Santo prodotto da uve passite di Trebbiano Malvasia.

    Ritornando verso Siena, in località di Torrenieri svoltiamo a sinistra e ci arrampichiamo sul fianco della collina che ci porta a Montalcino, cittadina che ha conservato, oltre a una parte della cinta del XIII sec., una magnifica Rocca costruita nel 1361 con alte mura ritmate di cinque torri. Di origine pre-etrusca, Montalcino in epoca comunale fu oggetto di contesa tra Siena e Firenze: le alte mura resistettero per ben quattro anni agli assedi portati dagli eserciti di Carlo V e del pontefice Clemente VII, prima di capitolare.

    Il territorio di produzione del Sangiovese – qui chiamato Brunello, per sottolineare il colore scuro degli acini rispetto agli altri biotipi di Sangiovese – copre un diametro quasi circolare di 16 chilometri.

    Abbiamo il privilegio di essere ospiti di Jacopo Biondi-Santi a Villa Greppo. Il Brunello di Montalcino, un emblema della viticoltura toscana è legato a doppio filo con la famiglia Biondi-Santi: fu infatti Ferruccio Biondi-Santi che nel 1888 selezionò un clone particolare di Sangiovese nella tenuta in cui siamo ospiti, e ne vinificò le uve in purezza, sottoponendo il vino da esse ottenuto a un lungo affinamento.

    Dopo la sosta alla storica vigna culla del Brunello, visitiamo le cantine dove Jacopo ci mostra con orgoglio, custodite in una celletta come un tesoro, le pochissime bottiglie rimaste del 1888 e del 1891.

    La degustazione in verticale di diverse annate che ne è seguita rimarrà indelebile nella nostra memoria. Ottimi poi il Rosso di Montalcino D.O.C. (Sangiovese allevato fuori dal territorio del Brunello) con la «lepre in umido» e il profumatissimo Moscadello con un trancio di «Panforte».

    Scendendo verso Siena, la collina che domina la conformazione morfologica, alternando scorci coltivati a vite e ulivo al caldo colore della chiazza mediterranea. Superiamo Monteroni d’Arbia, dove vengono prodotti discreti vini bianchi, ma dove si eccelle nella produzione del Vin Santo. A malincuore sfioriamo Siena e, attraversando il fiume Elsa da Poggibonsi, svoltiamo a sinistra per entrare a San Gimignano da Porta San Giovanni, chiedendoci se per qualche miracolo temporale siamo stati sbalzati nel Medioevo. Le quattordici torri che caratterizzano il profilo di San Gimignano (nella foto) sono le superstiti delle settanta di un tempo.

    Il vitigno autorizzato per la denominazione Vernaccia di San Gimignano si distingue per la qualità e l’originalità, poiché i quasi 800 ettari in cui è coltivata questa varietà possono considerarsi unici, grazie alla composizione di sabbie gialle e argille sabbiose. Armonioso è stato l’abbinamento di questo vino dagli intensi aromi di mandorla con una «sogliola alla mugnaia».

    Scelto per voi

    Il Bacialé

    La famiglia Bologna, negli anni Settanta, ha rilanciato l’enologia astigiana, trasformando la Barbera d’Asti in uno dei vini più pregiati della regione (Bricco dell’Uccellone). Il merito va a una straordinaria figura entrata nella mitologia di queste terre con il suo vino: Giacomo Bologna, scomparso più di trent’anni or sono. Oggi sono i figli a proseguire con bravura la sua opera a Rocchetta Tanaro (AT).

    Il Bacialé che oggi vi proponiamo è prodotto con uve vinificate in modo separato: Barbera, Cabernet S., Cabernet F., Merlot e Pinot Nero. È un vino dal colore rubino intenso, che si fa percepire al naso con intense sfumature di frutta a bacca nera, dove prevale l’amarena e una leggera speziatura data dal passaggio in legno. Tannini morbidi e un grado alcolico che dà calore, conferiscono a questo vino un’eccezionale struttura lungo il finale in bocca, che richiama i profumi sopra accennati.

    / Davide Comoli

  • Dalla caduta dell’Impero Romano all’Editto di Rotari

    Vino nella storia – Mentre la cultura cadde nel buio, il vino, e con esso la poesia, trovarono rifugio nei grandi monasteri

    Con il crollo dell’Impero Romano sul mondo «civile», sembrarono sparire insieme le leggi e il diritto che Roma aveva saputo dare al mondo allora conosciuto, come anche la cultura e l’arte. Il vino, e con lui la poesia, trovarono invece una sorta di rifugio tra le mura dei grandi monasteri sparsi un po’ ovunque in Europa.

    I nostri territori divennero terreno di guerra tra Ostrogoti e Bizantini fra il 534 e il 555. Dalla sconfitta dei Goti ne approfittarono i Longobardi che, dall’Est, dilagarono verso la pianura iniziando altre lotte contro i Bizantini. Con l’elezione di Autari nel 584, i Longobardi controllavano già gran parte della vicina Penisola.

    Restando in tema di cultura e del baratro in cui era precipitata, possiamo anche farcene un’idea restando in tema vino. Se rammentiamo gli ampi trattati sulla vite e i suoi derivati che Plinio ha sviluppato nelle pagine della sua Naturalis Historia, di cui già ampiamente abbiamo scritto, la misura della decadenza di quei secoli la forniscono le poche righe che, sugli stessi argomenti, vengono scritte dal più famoso tuttologo del XI-XII sec., il vescovo Isidoro di Siviglia (560 circa-636): santo, dottore della Chiesa, il quale esercitò grande influsso sulla cultura occidentale per aver conservato e tramandato moltissime informazioni sulla civiltà classica. Nella sua opera, Originum sive etymologiarum libri XX, troviamo solo uno scarno capitolo (De Vitibus) nel libro XVII (De lapidibus et metallis): «Vitis dicta quod vim habeat citius radicandi» («la vite è così chiamata perché possiede la forza – vis – per radicare più in fretta»). Tre libri più avanti nel capitolo De Mensis scrive: «Vinum inde dictum quod eius potus venas sanguine cito repleat» («Il vino è così chiamato perché il berlo riempie in fretta le vene di sangue»).

    Sempre nel XX libro, Isidoro riprende la discutibile (seppur profonda) saggezza dei Padri della Chiesa, e ci informa che San Girolamo, in un libro scritto sulla necessità di preservare la verginità afferma che: «Le fanciulle debbono fuggire il vino come fosse veleno affinché per il bruciore che si sentono addosso, non abbiano a berne e quindi a perdersi».

    Se prendiamo in considerazione che anche al cospetto di questi ameni scritti, Isidoro di Siviglia veniva considerato la più grande mente del suo tempo, possiamo farci un’idea di cosa abbia significato per la cultura, il Medioevo, lungo e oscuro periodo di transizione tra due epoche di altissima civiltà.

    Molti popoli, respinti come barbari dal mondo romano, entrarono a far parte del nuovo mondo romano-cristiano. Fra il VII e VIII secolo, i Longobardi si trasformarono da invasori a protagonisti integrati come narra Paolo Diacono, storico longobardo (727-799) nella sua Historia Langobardorum, scritta in latino, documento unico per la conoscenza di quel periodo.

    Il processo di fusione fra invasori e popolazione locale passò anche attraverso i matrimoni misti, che portarono alla cristianizzazione di questo popolo, in origine di religione «ariana».

    L’agricoltura, che nei secoli precedenti aveva subito un forte colpo, grazie al cristianesimo, ebbe un forte recupero. In effetti leggendo le cronache dell’epoca di Paolo Diacono, si nota come la diffusione delle comunità cristiane e la loro organizzazione ebbero ripercussioni notevoli sulla ricostituzione del paesaggio agrario.

    Il vino, «pretiosa vina», citava specificamente l’autore di Historia Langobardorum, era amato e valorizzato, tant’è vero che era divenuto simbolo di ricchezza e regalità tra i nobili longobardi ed era una delle delizie italiche che attirava i popoli del nord, senza dimenticare che, con la diffusione del cristianesimo, la vite e il vino erano caricati di una valenza nuova. I re longobardi costruivano chiese e patrocinavano monasteri (uno per tutti quelli di Bobbio fondato nel 612) e i vescovi stessi provenivano da importanti famiglie longobarde, anche se molti dei nobili continuavano a seguire la dottrina ariana.

    Nell’anno 637, la regina Gundeberga, figlia della più famosa Teodolinda, rimasta vedova, sceglie come sposo Rotari: «uomo di grande forza che seguiva la via della giustizia, sebbene privo della corretta fede, e si macchiasse dell’eresia ariana», così sta scritto nell’Historia Langobardorum. Il 22 novembre 643, il re Rotari promulga il suo celebre Editto: 383 articoli; più della metà codificano le norme del diritto penale. Si tratta di una raccolta di leggi germaniche, scritto in latino, che contemplava anche riferimenti all’agricoltura, compresi determinati comportamenti relativi alla vite e al vino, e le severe multe per i contravventori.

    Mostrando una particolare attenzione alla coltura vitivinicola, l’Editto colpisce ogni danneggiamento all’impianto, ai ceppi di vite e ai tralci, come pure il furto delle uve: «Se qualcuno prende un palo da una vite, paghi una composizione di sei soldi. Se qualcuno scavando una fossa, distrugge intenzionalmente una pianta di vite, paghi una composizione di un soldo. Paghi una composizione di mezzo soldo, colui che intenzionalmente taglia un tralcio di vite. Se qualcuno, da una vigna altrui, coglie più di tre grappoli d’uva, paghi una composizione di sei soldi; ma se ne prende fino a tre, non gli sia fatta alcuna colpa».

    Nel 772 fu eletto Adriano I che richiamò a Roma tutti i seguaci della fazione filofranca. L’alleanza fra il Papato e il Regno Franco provocò la fine del Regno Longobardo. I Franchi sconfissero a più riprese i Longobardi, e nel 774 Carlo Magno depose Desiderio, l’ultimo re longobardo e ne assunse la corona.

    Il vino continuò ad essere la prova di diversi capitoli a esso dedicati nel Capitulare de Villis vel de Curtis Imperatoris voluto dallo stesso Carlo Magno.

    Scelto per voi

    Salmos Torres

    Il vigneto del Priorato si estende a occidente della provincia di Terragona. Qui la famiglia Torres è riuscita a dare prestigio a una delle regioni viticole più importanti e produttive della Spagna, utilizzando le tecniche enologiche e produttive dei francesi. Così facendo i loro vini hanno acquisito un bouquet molto in sintonia con i vicini di frontiera.

    Oggi abbiamo scelto per voi il Salmos, vino di corpo, prodotto con le tipiche uve locali, Cariñena, Garnacha e la francese Syrah.

    Con il suo colore molto scuro come l’inchiostro di china, ricco di alcol, i suoi aromi ricordano la frutta secca e in modo particolare la prugna: vino corposo elevato per quattro anni in barrique di quercia francese, rende i suoi tannini ben presenti, ma delicati. Il Salmos regge molto bene l’invecchiamento. Adatto ad accompagnare piatti molto strutturati, noi l’abbiamo apprezzato con un «filetto di cervo al tartufo».

    / Davide Comoli