Curiosità Archivi - Pagina 2 di 13 - Vinarte
  • Il vigneto svizzero: «un giardino tra le Alpi»

    Bacco giramondo – Dal Chasselas, l’alfiere dei vini elvetici al Pinot Nero

    Il ricercatore francese Jules Guyot (1807-1872), famoso soprattutto per aver messo a punto il «taglio» universalmente usato in tutto il globo per ottenere uve di qualità, visitando i vigneti affacciati lungo le sponde del Lemano scriveva: «Nulla è messo a dimora meglio di un vigneto svizzero, ben allineato, rizzato, sostenuto, potato e sarchiato, questo ci fa comprendere il perché gli svizzeri non si accontentano di coltivare la vigna… ma ne fanno dei giardini».

    In Svizzera amiamo molto il vino e solo il due per cento della produzione viene esportato. Il costo della produzione vinicola, causa la manutenzione delle strutture e le vendemmie fatte a mano per via del territorio, incide inevitabilmente sul prezzo del vino.

    L’uva è da secoli presente nel nostro territorio. Negli ultimi decenni abbiamo però puntato a realizzare vini dalla spiccata personalità, oseremmo dire unici, dedicando la massima cura a ogni grappolo, questo grazie al gruppo di enologi che si sono formati nei centri di ricerca di Agroscope e nelle scuole di Changins e Wädenswill.

    Centinaia di produttori a tempo pieno e qualche migliaio di wine lovers part-time sono impegnati, malgrado i terreni ostici, a fare in modo che i loro impeccabili e spesso spettacolari vigneti siano curati come giardini, suscitando la sorpresa e l’ammirazione di chi arriva da fuori. D’altronde i vigneti coltivati tra montagne, laghi e fiumi danno un senso di pace e non di rado il viandante si ferma stupito ad ammirare l’opera dell’uomo; molto spesso nei nostri viaggi tra i vigneti della Confederazione ci è capitato di esclamare: «Quanto sei bella, Elvezia!» e riflettere sulla grande fatica spesa per creare questi meravigliosi «giardini» sospesi tra terra e cielo.

    Eppure, con fatica, i vigneti sono spesso coltivati su rilievi di non facile accessibilità, su suoli talvolta sconvolti e spianati dal ritiro dei ghiacciai, a volte ricoperti da depositi alluvionali o sagomati dal vento. Inoltre le modeste superfici e il frazionamento della più parte delle proprietà coltivate fanno sì che, il più delle volte, la vigna sia coltivata su dei terrazzamenti, e questo spiega il perché i «vignerons» svizzeri misurino i loro vigneti in metri quadrati e non in ettari come normalmente viene fatto nel resto del mondo. Non si può nemmeno comparare il rendimento elvetico con la maggior parte dei vigneti europei, dato che molto spesso in certe zone terrazzate, la superficie dei muri di sostegno è maggiore di quella delle vigne, e questo costringe spesso i «vignerons» a intensificare di molto l’impianto, addirittura 15/20mila piedi per ettaro contro i 3/9mila degli altri paesi.

    Ci sembra quindi doveroso plaudire i viticoltori per la tenacia e l’ingegnosità, per il loro amore per la terra, per risolvere i problemi che costantemente si presentano dai primi giorni della potatura sino all’autunno, per la lotta che ingaggiano con madre matura per ottenere un raccolto generoso, nonostante la variabilità dei climi e un’abbondante fauna spesso arrecante parecchi danni alla viticoltura.

    Un grande lavoro affinato anche dall’intervento degli enologi – che a volte sono gli stessi viticoltori – i quali negli ultimi decenni hanno portato la qualità dei vini svizzeri a livelli d’eccellenza mondiale, e le molte medaglie vinte ne sono una conferma.

    Molteplicità sembra essere il «motto» elvetico che, con sei regioni produttrici di vino e 25 differenti legislazioni viticole, fa da culla a ben 252 vitigni (recensiti da una statistica ufficiale), allevati su una superficie di circa 15mila ettari, da uomini e donne con culture molto diverse.

    Non c’è cantone in cui non si coltivi uva da vino su terreni molto diversi; a tal proposito, la Svizzera ostenta con orgoglio i suoi vigneti coltivati alle quote più alte d’Europa. Parliamo di quelle vigne che per prime s’affacciano sui due fiumi definiti da tutto il mondo le più antiche vie vinicole del Vecchio Continente, ovvero sul Rodano e sul Reno, che a breve distanza sgorgano dal massiccio del San Gottardo. Flussi d’acqua usati da secoli…

    Pollini e foglie ritrovati in alcuni villaggi del Vallese, infatti, attestano la presenza della vite almeno 200 anni a.C., ma è a La Têne (villaggio sul lago di Neuchâtel) che abbiamo conferma dell’uso della vite per produrre una bevanda nel 450 a.C. Di certo sappiamo che da Marsiglia (Massalia) la vite risalendo il Rodano è arrivata sul lago Lemano per poi proseguire verso nord. Nel 58 a.C. le legioni romane sconfissero gli Elvezi condotti da Divico e portarono innovazioni nella coltivazione della vite, entrando da quello che oggi è il Ticino, passando il Lucomagno e arrivando infine nella valle del Reno, nei Grigioni e via Gran San Bernardo nel Vallese.

    Proprio nei Grigioni troviamo il più antico documento sulla vite in Svizzera, è una donazione del vescovo Tello di Coira al convento di Disentis (765 d.C.), sebbene nei Commentarii di Giulio Cesare, si parli di un «vinum album» con cui si rifornivano le legioni che transitavano da «Curia Raetorum» (Coira).

    Un’altra data importante è il 1141, quando dei monaci cistercensi, su invito del vescovo di Losanna, accompagnati da monache di clausura osservanti le regole di Sant’Agostino, fondarono un convento a Rueyres, parrocchia di Saint-Saphorin e insieme impiantarono le prime viti, sembra di Chasselas, considerato l’alfiere dei vini svizzeri. Questo vitigno, che è stato per anni il più coltivato in Svizzera, ha visto nel tempo il suo posto preso dal Pinot Nero, tant’è vero che in un paio di decenni la superficie coltivata a esso destinata è diminuita del 40 per cento.

    Oltre ai due vitigni sopracitati, quasi i tre quarti della produzione viticola comprendono il Gamay e il Merlot, ma non fatevi trarre in inganno, viaggiando attraverso i vari cantoni della Confederazione, potrete scoprire (e li conosceremo nei prossimi articoli) che quasi ogni viticoltore coltiva e vinifica vitigni che vengono chiamati indigeni (autoctoni), la cui origine si perde nel tempo; chicche vinificate che saranno lieti di farvi degustare, magari in mezzo all’incanto del loro vigneto: sappiate che il territorio elvetico a livello enologico è un «caveau» colmo di bottiglie contenenti vini unici e incredibili.

    Unici come quei vitigni creati a partire dagli anni Venti nelle scuole elvetiche di ricerca scientifica di viticoltura chiamati «miglioratori», e che soli o in uvaggio con altri donano vini «esclusivi».

    / Davide Comoli

  • Il Vallese e il suo mosaico di vigneti

    Bacco giramondo – Terroir unici e perlopiù semi-aridi vengono da secoli irrigati dalle acque dei ghiacciai trasportate dalle bisses

    Il vigneto vallesano si estende da Loèche a Martigny e copre una superficie di circa 4850 ettari, vale a dire quasi un terzo del vigneto svizzero. Il Vallese beneficia di un clima molto particolare, marcato soprattutto da lunghe estati calde e soleggiate e da autunni tardivi. Alle lunghe giornate di sole e a una flebile presenza di nubi, dobbiamo aggiungere i benefici effetti che apporta il foehn, questo vento caldo e alle volte violento che soffia da sud, il quale spazzando le nuvole esercita un’azione positiva contro il pericolo di muffe.

    La vigna prospera e matura per la maggior parte sui costoni e sulle alture ben esposte in pieno mezzogiorno sulla riva destra del Rodano, ad alte altitudini che variano tra i 450 e 800 metri s.l.m., ed eccezionalmente arrivano a più di mille metri. È il caso del famoso vigneto di Visperterminen (1378 m), orgoglioso non solo di essere il vigneto più alto d’Europa, ma anche di essere una delle superfici più importanti dell’Alto Vallese.

    Tuttavia in prossimità dei ghiacciai le vigne non sono esenti da gelate primaverili. La geologia ha profondamente segnato la topografia, la geografia e il clima del Vallese nel corso delle varie ere, non un metro del territorio è sfuggito al gigantesco scontro in seguito all’emergere dei rilievi alpini avvenuto milioni di anni or sono, e ai conseguenti scoscendimenti di terreni, e di frane di ghiaie, sabbia e limo, causati da impetuose piene di torrenti; il Vallese insomma presenta un’incredibile complessità di terreni che formano dei terroir unici e perlopiù semi-aridi, dato l’effetto del già citato e frequente foehn, che ha per complici la poca pioggia e il molto sole; da secoli i vallesani hanno costruito chilometri di canali d’irrigazione (bisses) che troveremo nel nostro giro tra i vigneti.

    Certo è che per mettere a dimora la vite in Vallese la si deve amare fortemente: i pendii vitati superano spesso il 60-70%, e se da una parte è positivo perché l’esposizione favorisce l’azione dei raggi solari che portano a delle ottime maturazioni, allo stesso tempo genera tutta una serie di problemi. Ad esempio, bisogna combattere l’erosione dei terreni con dei terrazzamenti, e il consolidamento dei muri costituisce una sfida permanente per gli uomini, anche perché tutto viene fatto a mano visto che il terreno difficilmente permette l’uso di macchine meccaniche.

    Nel corso dei secoli i Vallesani hanno imparato dalle caratteristiche del suolo, dall’altitudine e dall’esposizione, qual è il vitigno che meglio saprà sfruttare tali peculiarità; qui l’accordo va trovato quindi tra terreno e vitigno, combinazione non sempre immediata e che necessita di grande esperienza se si considera che sono ben 53 i vitigni diversi (31 bianchi e 22 rossi) rappresentati in Vallese. Un numero che permettere ai terroir vallesani di esprimere tutte le loro potenzialità, sebbene siano solo tre quelli che fanno la parte del leone occupando il 75/80% della superficie viticola: parliamo del Pinot Nero e Gamay tra i rossi e lo Chasselas tra i bianchi. Ciononostante vengono coltivati sempre di più alcuni vitigni autoctoni molto ricercati tra gli amanti del «divin nettare» come l’Amigne, la Petite Arvine tra i bianchi, l’Humagne Rouge e il Cornalin tra i rossi, ma non mancano vitigni internazionali come il Syrah, il Merlot e la Marsanne Blanche, che si stanno imponendo (soprattutto il primo) tra gli intenditori della buona tavola.

    Ogni vitigno qui ha una sua storia e una sua origine che alle volte si confonde nel corso dei secoli, sarebbe bello poter scrivere di origini della viticoltura, ma lo spazio ce lo impedisce. Per chi vuole saperne di più consigliamo il libro Cépages suisseshistoires et origines, éditions Favre, scritto dal vallesano Dr. José Vouillamoz, genetico della vigna di fama internazionale.

    Seguendo la valle del Rodano, risalendo il corso del fiume da Martigny, zigzagando tra la riva destra e quella sinistra, è il tragitto che abbiamo percorso oggi per meglio conoscere la realtà vitivinicola vallesana. Dopo un buon bicchiere di Gamay, ci siamo diretti a Fully, Saillon con il suo incantevole borgo del XIII secolo, poi Leytron, qui il panorama che appare è unico e non ci lascia indifferenti, fino a raggiungere i pressi di Chamoson, dove per pranzo gustiamo degli ottimi asparagi bagnati dal locale Sylvaner, meglio conosciuto con il nome di Johannisberg.

    Ci fermiamo a Saint-Pierre-de-Clages per ammirare la superba chiesa romana e attraverso un mare di vigne raggiungiamo Ardon con il vigneto che si snoda lungo l’argine ai piedi delle gole della Lizerne. Pausa a Vétroz regno dell’Amigne. Qui non perdiamo l’occasione per degustare il Cornalin dal profumo di ciliegie e un Syrah di corpo dal profumo speziato e di violetta.

    Proseguiamo per Conthey, guadagniamo Sensine tra gli innumerevoli villaggi sparsi tra le vigne, e arriviamo a Ormône dove possiamo ammirare le bisses che trasportano le acque dei ghiacciai.

    Preceduta da due ammassi rocciosi, attraversiamo Sion, la capitale del cantone. Ci fermiamo a St-Léonard-Uvrier, visitiamo la celebre bisse di Clavau e i vertiginosi muraglioni che sostengono i terrazzamenti. Una raclette sarà la compagna ideale per il nostro Fendant (Chasselas) e una Dôle (Pinot Noir-Gamay) è ideale con le diverse salsicce grigliate. Una breve sosta sul pittoresco poggio di Granges, un tour veloce tra i magnifici vigneti di Veyras, Venthône, Randogne, Ollon per scendere a Sierre. E infine raggiungiamo Salquenen, idilliaco villaggio sperduto nella vastità dei suoi vigneti, dove il Pinot Nero gode di una reputazione internazionale; dopodiché la lunga persistenza di un Ermitage (Marsanna Blanche) con i suoi sentori di miele di rara intensità, prodotto da una vendemmia tardiva che accompagna un plateau di formaggi, rende meno greve il nostro rientro in Ticino.

    / Davide Comoli

  • Un’enciclopedia cinquecentesca

    Bacco nella storia – La Storia naturale dei vini di Andrea Bacci, composta di sette volumi, è una fonte preziosa per conoscere i vini italiani e stranieri del XVI secolo

    Il Cinquecento fu un secolo significativo per il mondo vitivinicolo, infatti, grazie all’invenzione della stampa e a una maggiore conoscenza delle pratiche di viticoltura, i terreni vitati sottratti alle zone boscose si diffusero in maniera sempre più capillare.

    Tra la ricchissima letteratura gastronomica ed enologica che dalla metà del 1400 e per tutto il Cinquecento si pubblicò non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e Spagna (nella sola Roma vennero edite nella seconda metà del XVI sec. almeno una decina di opere che avevano come argomento il vino, le sue varietà, le sue proprietà e le sue virtù), pensiamo che l’opera di Andrea Bacci si possa collocare ai vertici di questo particolare tipo di letteratura.

    Originario delle Marche (S. Elpidio a Mare 1524-Roma 1600), Andrea Bacci dopo studi in medicina, filosofia e lettere, si trasferì a Roma dove, con la protezione del cardinale Ascanio Colonna, divenne arichiatra (medico primario di corte) di Sisto V e professore di botanica alla Sapienza, scrisse molte opere, tra cui il famoso trattato di enologia pubblicato per la prima volta a Roma nel 1596.

    Questa Storia naturale dei vini di Bacci è un’opera divisa in sette libri di varia ampiezza, scritti in un latino non certo di stile classico come sono le opere di Cicerone o Plinio, ma per noi rilevante, soprattutto perché ci permette di conoscere i vini italiani e stranieri del XVI secolo (libri V-VI-VII).

    Il I libro tratta della storia del vino, dell’uso presso gli antichi e una serie di richiami a quanto sul vino è stato scritto nell’antichità e sui modi di preservarlo dai mali che lo colpiscono.

    Nel II libro si tratta ancora in generale delle caratteristiche e proprietà dei vini, a dipendenza se giovani o vecchi, per quanto riguarda i profumi e il gusto, e ancora dell’influenza del terreno sulle caratteristiche che ne deriveranno sia per la vite sia per il vino.

    Nel III libro si parla del valore nutritivo per persone sane e malate, e dell’uso del vino come medicina ai sofferenti di varie malattie (febbre, bronchiti, malattie del fegato, ecc.), e infine dell’ubriachezza e dell’effetto del vino sul carattere e sul comportamento.

    Il IV libro è suddiviso in cinque parti, nelle quali si tratta la vasta materia inerente i conviti dell’antichità. In particolare per quanto concerne il vino, questo libro tratta dei tanti tipi di contenitori in uso nel tempo, dei modi, della temperatura a cui servirlo e più opportunamente berlo. I tre ultimi libri sono dedicati a un minuzioso esame dei vini di quasi ogni regione d’Italia.

    Nel V libro l’esame riguarda i vini delle isole e dell’Italia centrale e meridionale. Sono proprio i vini della Campania i primi a essere nominati, a cominciare dal Falerno seguito dal CecuboCalenoAmicleo, ma la palma di miglior vino campano è assegnata al Greco di Somma (forse l’antico Pompeiano). Ci sembra curioso a questo punto ricordare che papa Paolo III Farnese (1534), che era un gran conoscitore di vini nonché grande bevitore, usasse questo vino invecchiato almeno di sei anni… (così documenta Sante Lancerio, dispensiere e sommelier del Pontefice) «per bagnarsi le parti intime».

    L’autore dà molto spazio ai vini del Piceno, la terra natale sulla quale scrive anche qualche pagina di storia.

    Nel VI libro l’esame dei vini riparte dal Lazio. Cittadino romano, il Bacci scrive che il paesaggio della Roma del Cinquecento è abbellito da una lussureggiante e ben coltivata cinta di vigneti e aggiunge: «plus vini hodie in urbe Romae potari, quam acquae», citando le vigne del Gianicolo, di Monte Mario, del Colio, del Quirinale e di Porta San Pancrazio, dove le piante di vite avvolgevano le antiche vestigia, lodando infine i celeberrimi vini dei Castelli. Il Bacci risale quindi la penisola attraversando la Toscana sino a raggiungere il settentrione.

    Per ragioni di spazio non citeremo la lunga lista dei vini elencati, ma ci soffermiamo su tre capitoli che a noi interessano in modo particolare.

    Nel VI libro al capitolo «Vina in Insubribus, ex Mediolano agro» l’autore scrive: «Tra i monti ha cinque grandi, bellissimi laghi oltre alcune zone paludose. Tre di essi si trovano nell’agro di Milano alle falde dei monti della Rezia, il Verbano che chiamano Maggiore e ha per affluente il Ticino, più sotto quello di Lugano e ancora più a sud i laghi di Gavirate e Monate e il deliziosissimo Lario sotto le mura di Como». E continua poi «con un’abbondanza oltre che di frutti anche di deliziosi vigneti, da non aver motivo alcuno per portare invidia alle terre contigue al mare». Segue: «i suoi vini, a dire il vero, non sono generosi ma abbondanti e di medio vigore, ed anche di tipi diversi data l’ampiezza del territorio». Nel capitolo successivo Brigantij vina parlando delle nostre terre (siamo nel 1595) scrive: «Ai piedi dei monti della Brianza, tutt’attorno al lago di Lugano e alle sorgenti del Ticino, dell’Adda e del Lambro vengono prodotti molti vini di valore medio, di qualità diverse e molto acquosi, a seconda dell’umidità delle valli, che per via lago o per la via dei fiumi sono trasportati molti vini generosi di molti tipi nella metropoli della regione, Milano».

    Nel libro VII il Bacci chiude la storia dei vini con una compendiosa trattazione dei vini «esterni» (cioè di tutte le regioni europee) e dei «vini fictitia» (artificiali) tra cui la birra. Ma il capitolo che a noi interessa è intitolato: Valesiis inter Alpes Rethias mira fecunditas etiam vinorum. In questo capitolo il Bacci dimostra quanto grande sia la conoscenza del territorio vallesano e scrive: «La propagginazione delle viti, ha inizio nella diocesi di Brig dove, nella zona di maggiore bellezza del Rodano, sgorgano spontanee sorgenti di acque caldissime». E poi prosegue: «Per effetto del calore diffuso, aumenta la produttività dei vigneti, seguendo il corso del fiume. E non si produce un solo tipo di vino; presso Sion e Sierre si fa un vino assai squisito, il rosso è più vigoroso del bianco è così denso che sembra simile all’inchiostro per scrivere». Più avanti l’autore dice: «Nelle vicinanze di Saint-Maurice, l’antico Agaunum, oggi famoso per un noto cenobio (convento di Rueyres? ndr.) e per i suoi vini, dove l’impegno degli abitanti è quello della coltivazione della vite e della produzione di una grande quantità di vini». La sua conoscenza del territorio porta a scrivere: «Vino si produce in abbondanza in prossimità dell’agro Leucense, o di Leuk (Leukerbad) che dicemmo godere del calore delle Terme». La carrellata nel Vallese si conclude con questa affermazione: «Nelle zone di Gundes e di Martinadit (Martigny) che Cesare nei suoi Commentari cita col nome di Octodurus, il vino bianco è superiore per bontà a quello rosso».

    / Davide Comoli

  • Fra vitigni, castelli e tavole imbandite

    Bacco Giramondo – Da Acqui ai vini del nord Piemonte – quarta puntata

    Lasciamo Neive e seguendo la S21 superiamo Mango e poco dopo attraversiamo il fiume Belbo, qui finisce la langa cuneese, siamo nel feudo del Moscato. Su terreni misti sabbia/limo e argilla, le cosiddette «terre bianche», arriviamo in provincia di Asti nel piccolo villaggio di Loazzolo, dove è d’obbligo rifornirsi di un gioiello dell’enologia: il Loazzolo D.O.C. (Moscato), vino passito da dessert.

    L’attraversamento del fiume Bormida a Monastero, ci porta nelle terre del Dolcetto d’Acqui, il rosso più significativo della zona. Prodotto in undici zone del Piemonte, il Dolcetto è il vino quotidiano per eccellenza, talmente famigliare che per secoli non attraversò i confini regionali. Da qualche anno il Dolcetto si sta scrollando di dosso quella patina di vino semplice da tutti i giorni e da tutto pasto che davvero non gli rendeva giustizia. Ricco di colore e di buon tenore quanto ad alcol e tannini, può reggere l’affinamento in legno e qualche anno in bottiglia. Raggiungiamo alla sera Acqui Terme, stazione termale, già nota fin dall’epoca romana, la nostra tappa per la notte. Nell’Enoteca Regionale, a pochi passi dalla «Bollente» degustiamo accompagnati da una rustica «fricassò» (frattaglie con polenta), un Dolcetto d’Acqui dai profumi di amarena e mirtillo. Un Dolcetto di Ovada dal profumo vinoso e di visciole, sapido, accompagna invece una matura robiola di Roccaverano, ma il vero re di questa zona è il dolce Brachetto, il primo vino rosso dolce a fregiarsi della D.O.C.G., un vino frizzante e delicato, da bersi fresco in una coppa larga.

    Al mattino risaliamo la strada verso Ovada, qui prevale la monocoltura della vite, ma non c’è vigna da dove non si scorge un castello: Morasco, Cremolino, Molare, Ovada, tipica zona di produzione del Dolcetto. Si sale quindi verso Tagliolo Monferrato, Lerma circondata da un caratteristico Ricetto che domina lo strapiombo sul torrente Piota e raggiungiamo Gavi. Quando si dice Gavi, subito il pensiero degli addetti ai lavori dice: Cortese, vino bianco che veniva smerciato per palati poco esigenti alle genti rivierasche. A partire dal 1974 anno in cui il Gavi o Cortese di Gavi si fregia della D.O.C., alcune aziende hanno contribuito al miglioramento qualitativo del prodotto. Oggi troviamo Gavi leggeri, strutturati e spumantizzati (Oudart l’enologo di Cavour, fu il primo a spumantizzare il Cortese nel 1850). Dopo aver piacevolmente degustato le tre tipologie a Villa Sparina, proseguiamo verso Novi Ligure dopo aver superato il fiume Scrivia, tra colline non molto elevate con caratteristiche morfologiche molto diverse. Le colline sono tappezzate di vigneti nell’area di confine tra la provincia di Alessandria e l’Oltrepò Pavese, per raggiungere i Colli Tortonesi. Strade secondarie consentono di attraversare paesini di indubbio fascino e ricchi di suggestioni. Nel primo pomeriggio ci si ferma a Tortona, capoluogo di questo angolo a sud-est del Piemonte, la pausa pranzo ci dà modo di conoscere meglio il vitigno autoctono Timorasso che dopo decenni di sperimentazione dona un vino bianco dalle classiche note di pietra focaia, poi agrumi e spezie, di lunga persistenza.

    Le zone vinicole del Piemonte non sono limitate dall’area centro-sud della regione, ma si estendono lungo vaste fasce pedemontane a ridosso di quasi tutto l’arco alpino. A Biella, prevale incontrastata l’uva Nebbiolo che assume denominazioni particolari nelle varie aree in cui è coltivata: Picoutener a Carema, Spanna nel Vercellese e Novarese, Prunent nel Verbano-Cusio-Ossola, da cui si ricavano vini strutturati adatti ad invecchiare. Molto spesso il Nebbiolo, oltre che all’unicità del terroir dove viene coltivato, gode nel disciplinare di produzione delle varie D.O.C. e D.O.C.G. dell’apporto di altri vitigni quali Vespolina, Croatina e Bonarda Novarese (Uva Rara). La fascia prealpina di queste zone offre clima e terreni molto simili, le colline moreniche hanno un substrato particolarmente acido, ricco di ferro e povero di calcare. A Lessona, il porfido sui cui è depositato un fitto strato di sedimenti marini, ci regala il Nebbiolo Lessona DOC, di grande classe; qui la storia del vino è legata alla famiglia Sella dal 1850. Altrettanto blasonato è il Bramaterra, coltivato su alcuni comuni a cavallo tra Biella e Vercelli, tra cui ricordiamo Masserano, Roasio, Villa del Bosco, Lozzolo. Di certo il più blasonato tra i Nebbioli del nord è il Gattinara, prodotto sulla riva destra del fiume Sesia, sulle propaggini orientali delle Prealpi biellesi. Qui la vite frutta su terreni poveri di humus con sottosuolo roccioso.

    Appena più in là, oltre la Sesia, s’intravedono le colline di Romagnano, qui il vitigno Erbaluce prende il nome di Greco, ed è il vitigno base per la preparazione dei freschi vini bianchi del Coste del Sesia. Una rapida visita a Ghemme, l’unica D.O.C.G. in provincia di Novara, dove ci aspetta l’amico Alberto Arlunno, grande e profondo conoscitore della storia locale, il suo Ghemme Collis Breclemae 2013 c’ingolosisce e alcune bottiglie entrano a fatica nel nostro bagagliaio, sarà un vino da aprire fra qualche anno. Sulla fascia collinare più meridionale verso Novara, si trovano le due denominazioni Fara e Sizzano, dove i vitigni complementari citati sopra trovano più spazio nell’assemblaggio con il Nebbiolo. La S142, che tra i vigneti di Vespolina attraversa il «Piano Rosa», ci offre la vista di un incredibile tramonto colorato. La catena del Monte Rosa è un’immagine che ci riempie il cuore.

    / Davide Comoli

  • Nella terra vitata del Roero

    Bacco giramondo – Terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo ideale per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati – Piemonte 3a parte

    Usciti da Torino sulla S29 arriviamo a Montà, siamo nel Roero, qui le «rocche», forre profonde e scoscese, frutto di erosione, emerse milioni di anni or sono dal mare, danno una connotazione esclusiva a questa zona del Piemonte.

    Una manciata di chilometri e arriviamo a Canale, la nostra prima tappa, famosa per le sue succulenti pesche. Questo borgo agricolo è anche il luogo in cui – grazie ai fratelli Enrico e Marco Faccenda (Cascina Chicco) – facciamo conoscenza delle specialità enologiche di tale lembo piemontese. Un ricco piatto di salumeria roerina (antico vanto di casa Faccenda) di cui sottolineiamo il «prosciutto cotto al forno», c’invita alla degustazione.

    Qui, terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo soffice; un’ideale situazione per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati. Un profumato e fresco Nebbiolo, vinificato in bianco «Metodo classico», apre la degustazione seguito da una Favorita, un bianco molto beverino. L’Arneis è un po’ il simbolo del Roero e dona un vino bianco con note olfattive molto interessanti, fresche e fruttate, piacevolmente amarognolo, ma noi chiudiamo con un prestigioso Roero Valmaggiore rosso, ottenuto da uve Nebbiolo, vino potente, ma armonico, vellutato e dai profumi delicati, ma soprattutto di facile beva.

    Stivate alcune bottiglie di nettare, ringraziati Enrico e Marco Faccenda, ripartiamo per il nostro giro nel Roero. I colori dell’autunno creano meravigliosi quadri con il profilo delle colline ricoperte di vigne dopo la vendemmia. Colline spesso impreziosite dalla sagoma di un castello, una torre, un edificio sei-settecentesco, o anche solo da una chiesetta o una cappella di campagna che emergono dalla trama dei filari. Sempre sulla riva sinistra del Tanaro che divide il Roero dalle Langhe, troviamo Priocca, Govone, Castellinaldo e, tra il su e giù dei rilievi ricoperti con l’albero sacro a Bacco, arriviamo a Castagnito.

    Ilaria, la proprietaria, ci accoglie con cordialità e, senza troppo tergiversare, ci serve un fumante «civet di lepre» (salmì) marinato per giorni nel Dolcetto, con crostoni di polenta. Meritevole da menzionare è il Barbera d’Alba prodotto da vecchie vigne, dal colore rubino intenso, note di spezie dolci al naso iniziali, poi amarena, cassis e lieve cacao, che ben si sposa con la portata calda. Ilaria poi ci vizia servendoci delle pere «madernassa» cotte nel vino con zucchero, cannella e chiodi di garofano. Sono pere dalla buccia sottile, di piccole dimensioni, che si trovano su alberi isolati sparsi tra i vigneti tra Canale, Guarene e Castagnito.

    Si riparte: Guarene, Piobesi, S. Vittoria d’Alba, Cinzano dove è d’obbligo una visita al museo che raccoglie la storia del bicchiere. Una breve deviazione per il piccolo villaggio di Pocapaglia, circondato da un paesaggio di calanchi e burroni, spettacolo mozzafiato al tramonto. Quattro chilometri e siamo a Bra per la notte. La generosa cittadina, oltre a distribuire i suoi eleganti palazzi intorno a via Vittorio Emanuele II e con la vicina Pollenzo, è la capitale del buongusto (Slow-Food). Un piccolo assaggio di «carne cruda» con lamelle di tartufo bianco e un carrello di formaggi con differenti mieli delle valli piemontesi, tome varie, formaggelle del bec, robiole, seirass, gli erborinati Castelmagno e il raro Murianengo, sono sostenuti da un giovane Nebbiolo d’Alba. A tal proposito va detto che il Nebbiolo di questa zona deve essere bevuto piuttosto giovane per meglio apprezzare i suoi aromi floreali e fruttati, per la sua media struttura gradevolmente tannica. La classica panna cotta è invece servita con un Birbet, che tradotto dal dialetto significa birichino (è il nome che nel Roero viene dato al Brachetto), dolce e dal caratteristico sentore di muschio.

    L’indomani raggiungiamo Verduno, dove dal giardino del castello sovrastante le vigne di Pelaverga, dalle cui uve si trae un vino cerasuolo, fragrante e speziato, si gode un fantastico colpo d’occhio sul susseguirsi ininterrotto di colline che offrono squarci di possente bellezza.

    La Morra, Novello, Barolo con il suo castello e il museo del vino. Il lettore ci perdoni se abbandoniamo veloci le Langhe sabaude e barocche per inoltrarci in quelle più aspre e parimenti ricche di storia. Stiamo infatti attraversando i filari dei cru più prestigiosi del Nebbiolo, quelli che produrranno il Barolo (re dei vini e vino da re); la zona del Barolo comprende il territorio di undici comuni.

    A Monforte scendiamo lungo i vigneti che ricoprono la collina, attraversiamo le frazioni di Perno e Castelletto, arriviamo a Castiglione Falletto con il castello dalle torri cilindriche. Purtroppo lo spazio concessoci c’impedisce di soffermarci di più sul binomio inscindibile di vino/cucina di questo territorio. Qui sembra che il tempo si sia fermato: che emozione la vista dei filari colorati dall’autunno che accarezzano i fianchi dei poggi. Rari «ciabòt» (casotti per gli attrezzi) sono i testimoni di un passato recente e ci ricordano il romanzo La malora scritto dal grande albese Beppe Fenoglio. Arriviamo a Serralunga d’Alba, che ospita la Casa di Caccia di Bela Rosin, dove si consumò la tresca con Vittorio Emanuele II.

    A Diano d’Alba le vigne di Dolcetto producono un vino di pronta beva, Grinzane Cavour. Un anfiteatro di colline nel cui mezzo il Tanaro disegna una esse: siamo ad Alba, da sempre questa piccola città è il cuore delle Langhe. Alla sera mentre si va a cena, percorrendo la piazza che dal Duomo va nella via Maestra, l’aria si riempie di una densa nuvola di nocciole tostate (la tonda gentile) di cacao, ma si percepisce pure in sottofondo il profumo acuto e penetrante del tartufo. Come un sacerdote officiante «il patron» arriva con un carrello dove in piatti di porcellana presenta le fumanti catetiche, sette polpe di carne, i sette ammennicoli e le sette salse d’accompagnamento, poi comincia a tranciare i tocchi armato di un grosso coltello e forchettone.

    Un Barolo Bussia 2011 granato intenso con accenni di viola, rosa e ribes e dai tannini fitti, ma ben integrati e dalla persistenza lunga è il degno «compare» del nostro «bollito misto». Una tazza del brodo di cottura con una nuvola di Dolcetto, prima di passare al raro formaggio: un Castelmagno invecchiato 40 mesi, e a Barolo Le Ginestre 2013, di grande struttura e complessità.

    Al mattino risaliamo la collina di Altavilla e raggiungiamo la frazione di San Rocco Seno d’Elvio, luogo natale dell’imperatore romano Elvio Pertinace (126-193), ucciso dopo 87 giorni di regno. Un’impervia strada ci porta a Treiso, situato in un anfiteatro di marna bianca: siamo nel regno del Barbaresco. Treiso è un piccolo paese da cui si gode una straordinaria scenografia sulle vallate sottostanti. Seguendo le insegne delle molte cantine, arriviamo a Barbaresco, arroccato su una collina allungata con la sua torre costruita intorno all’anno 1000. I vigneti disegnano colline e valli in una splendida conca, dove ci sono le vigne dei grandi cru (Rabaja Asili). Ritornando indietro tra i filari di Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Moscato, si arriva a Neive; da questo piccolo gioiello dopo una pausa pranzo lasceremo le Langhe.

    Cardi gobbi con fonduta di Castelmagno e tartufo vengono impreziositi da un raffinato Barbaresco Cottà 2015, mentre (quando ce vò ce vò) un Barbaresco Sorì Tildin 2015 del mitico Gaja, elegantissimo, di un rubino granato luminoso, enfatizza i classici «Tajarin» al tuorlo d’uovo, dove non viene lesinato il Bianco d’Alba.

    Il bunet al cacao e dolci gianduiotti si sposeranno a meraviglia con il Barolo Chinato che seguirà, altra gemma dell’Enologia piemontese.

    / Davide Comoli

  • La bevanda allungata del Platina

    Vino nella storia – Il nettare di Bacco secondo Bartolomeo Sacchi

    Il rinnovato interesse che caratterizzò la cultura umanistica in tutte le sue espressioni, in Italia e più in generale in Europa, favorì un grosso fermento in tutti i campi portando «l’uomo» a riacquistare la consapevolezza delle proprie potenzialità. Dopo i secoli ritenuti bui del Medioevo, grazie a questa poderosa spinta nasce «l’uomo nuovo». Il rinnovato interesse per l’uomo favorì tra l’altro il moltiplicarsi dei trattati di gastronomia, questo anche grazie alle condizioni economico-sociali molto migliorate rispetto al passato.

    Il merito della diffusione dei testi, senza nulla togliere alla bravura degli autori, va indubbiamente alla competenza e al successivo evolversi dell’invenzione della stampa. La vigorosa spinta intellettuale prodotta da questa corrente portò soprattutto le varie nobili corti della penisola a reagire alla lunga astinenza medievale, indulgendo nel lusso e nel fasto che non riguardava solamente le classi più elevate con i rispettivi personaggi, ma anche il popolo. In questa gara nell’esibizione di opulenza e vari privilegi, possiamo senza dubbio alcuno porre al vertice la Corte Pontificia, con i Papi e i suoi alti prelati, spesso più uomini di mondo che ministri di Dio.

    Ed è proprio qui, in questa sede, dove intrighi, nepotismi, voltafaccia repentini e favori alle grandi famiglie romane (Orsini, Colonna, Caetani, Altieri, Borgia, eccetera), nasceva una delle maggiori opere della letteratura gastronomica italiana la: De honesta voluptate et valetudine (L’onesto piacere della mensa e la salute), scritta in latino (lingua degli umanisti) nel 1475 dall’insigne Bartolomeo Sacchi detto il «Platina»; nato nel 1421 a Piadena (in latino Platina) nel cremonese, morì di peste («pestilentia extintus est») il 21 settembre 1481 a Roma.

    Egli dapprima seguì la carriera delle armi e solo più tardi si volse alla lettere, già in età matura. Nel 1457 lo troviamo a Firenze, dove ha cordiale dimestichezza con Cosimo e Pietro de Medici, e nel 1461 Francesco Gonzaga, secondogenito del marchese Lodovico, viene eletto Cardinale e sceglie il Platina come segretario; gli sarà sempre prodigo di affettuosa e benevola protezione, salvandolo due volte dalla prigione dove era stato relegato dal Pontefice Paolo II.

    Grazie a una cultura umanistica che comportava una certa deontologia morale, il mal costume dell’epoca gli procurò non pochi dispiaceri, soprattutto da parte di Paolo II, del quale con tutto il rancore che aveva dentro nel suo Liber de vita Christi ac omnium pontificum (Un libro sulla vita di Cristo e di tutti i Pontefici, opera dedicata al successore di Paolo II), Sisto IV del Rovere 1473, scrisse: «Hebbe così in odio gli studii della humanità et così li dispreggiava e vilipendeva, che tutti quelli che vi davano opera soleva egli chiamare heretici».

    Ma non divaghiamo, il De honesta voluptate et valetudine è suddiviso in dieci libri per un totale di 423 capitoletti.

    Nel libro I ci sono chiari riferimenti a precetti igienici dell’abitazione, sonno, amplesso, esercizi fisici, parla del cuoco e di alcuni frutti. Nel II ancora frutti, latte e formaggi; nel III frutta secca, droghe, erbe profumate; nel IV preparazione delle verdure, animali domestici e selvatici da pelo; nel V animali domestici e selvatici da piuma. Nel libro VI inizia poi il ricettario vero e proprio e si rifà al Libro de Arte coquinaria (Libro di arte culinaria, vanto della nostra Val di Blenio, circa 1450) di Maestro Martino. A capo 121 (Cibaria Alba) il Platina scrive: «Il mio amico Martino di Como dal quale son tratte in gran parte delle cose che scrivo» e vivacizza le ricette con fatterelli, notizie e personaggi.

    Nei libri che seguono tratta del modo di cucinare le vivande ed elenca le varie salse. È nel libro X che alla fine tratta del vino e degli accorgimenti per placare le emozioni. Di seguito trascriviamo dunque alcuni passaggi del suo De vino, pur non condividendone totalmente le dichiarazioni: «La cena e il pranzo senza bevande, non solo sono ritenuti poco gradevoli, ma anche poco salutari, poiché il bere, per chi ha sete è più dolce e gradito di qualsiasi cibo per chi abbia fame. Conviene innaffiare il cibo, sia per rinfrescare i polmoni sia per meglio stemperare e digerire quello che abbiamo mangiato. Il vino che Androchide, scrivendo ad Alessandro col proposito di frenare la sua intemperanza, chiamò sangue della terra, ha il potere di riscaldare e di rinfrescare… Ne viene che niente è più pronto del vino nel soccorrere i corpi affaticati, purché sia preso con moderazione. Niente invece è più dannoso se venisse a mancare il senso della misura. A causa dell’ubriachezza gli uomini diventano infatti tremebondi, grevi, pallidi e maleodoranti, smemorati, cisposi, sterili e tardi a procreare, canuti e calvi e vecchi anzitempo».

    Il Nostro parla poi di quando e che tipo di vino usare a seconda della stagione, dell’età, delle proprietà dei vari tipi di vino e il modo di vinificare, concludendo così: «Quanto a noi è sufficiente che passiamo in rassegna i vini maggiormente pregiati (15-20). Ma prima desidero esortare i lettori a non credermi per questo un beone; poiché non c’è nessuno più di me per principio e per natura, faccia uso di vino allungato».

    / Davide Comoli

  • Le colline vitate del Monferrato

    Bacco giramondo – Continua il viaggio enologico nella regione del Piemonte

    Il Monferrato è una regione storica del Piemonte, tra i fiumi Po, Tanaro, Belbo e Bormida, per la maggior parte si trova in provincia di Alessandria e in minor misura in quella di Asti. Si suddivide in Alto Monferrato (a sud) e Basso Monferrato (a nord). Il nostro itinerario tra vigne e cantine inizia da Casale Monferrato, dove morbide colline disegnano armoniose tavolozze in cui torri, castelli e borghi fortificati si alternano a ondulati colli caratterizzati dalla coltivazione di BarberaGrignolinoRuchèFreisa Malvasia a bacca nera: una vera cartolina.

    Seguendo il corso del Po fino a Pontestura, sfioriamo la zona della D.O.C. Rubino di Cantavenna e Gabiano, che vedono la compartecipazione di tre vitigni dell’Astigiano per eccellenza, GrignolinoFreisa Barbera. Continuando sulla 457 ci dirigiamo verso Serralunga di Crea, dove con una piccola deviazione a destra si sale al Sacro Monte di Crea, una delle più alte colline del Basso Monferrato, da cui si ammira uno splendido panorama.

    Continuiamo per pochi chilometri a sud, fermandoci a Moncalvo, famosa anche per le numerose sagre e manifestazioni gastronomiche, dove un Grignolino (vanto della zona), dai delicati profumi fruttati, dal gusto piacevole, fresco e dai tannini poco pronunciati, accompagna l’agognato fritto misto piemontese. Entrati nelle grazie del ristoratore, non abbiamo potuto esimerci dal provare il Ruchè offertoci. Il Ruchè è un vino dal colore rubino scarico e dal profumo intenso, leggermente speziato e aromatico, molto piacevole.

    Destinato a scomparire, questo vitigno coltivato in zona da secoli fu salvato a Castagnole Monferrato dall’allora sindaco della cittadina Lidia Bianco, che lo recuperò dall’oblio. Oggi, l’intrigante vitigno è coltivato in sei comuni che circondano Castagnole (tra Moncalvo e Asti).

    Ripartiamo verso sud, sfioriamo Asti, la capitale di questa provincia, che vista sulla carta geografica sembra abbia la forma di un grappolo d’uva, dove storia e natura possono entusiasmare chi la visita, almeno come il Grignolino e il Barbera che stiamo andando a provare.

    Attraversiamo il fiume Tanaro che fa da spartiacque tra l’Alto e il Basso Monferrato, puntiamo verso Rocchetta Tanaro, dove il compianto Giacomo Bologna dimostrò al mondo che anche la Barbera poteva essere un grande vino, guadagnandosi la copertina di «Wine Spectator».

    Subito fuori dall’abitato troviamo un’area boschiva protetta, il Parco Regionale della Val Sarmassa, dove faggi, roveri, castagni e querce secolari ci accompagnano per la gioia dei nostri occhi in una distesa interrotta: dopo Vinchio arriviamo a Castelnuovo Calcea. Qui le vigne di Barbera diventano un’opera d’arte: i filari del produttore Chiarlo sono infatti costellati di realizzazioni di vari artisti; ci fermiamo a scattare alcune foto prima di arrivare a Nizza Monferrato.

    La cittadina con orgoglio esibisce il centro storico attraversato dal porticato e i suoi palazzi d’epoca; il museo Bersano accoglie «contadinerie» e stampe antiche sul vino. Qui ci si può deliziare con gli amaretti della vicina Mombaruzzo, inventati nel Settecento da un pasticciere di casa Savoia, da innaffiare con un vivace/vinoso giovane Barbera del Monferrato.

    La sera ci trova a pochi chilometri da Canelli, in un agriturismo da dove si gode una bella vista panoramica, in un’elegante atmosfera piemontese. Luogo magico già descritto da Cesare Pavese (nato in questi luoghi) in un suo romanzo.

    Il Piemonte ha una ricca tradizione gastronomica: a cena, sfila la classica bagna càuda ottenuta con il cardo gobbo di Nizza e peperoni crudi, da intingere in una salsa composta da olio bollente con aglio e acciughe dissalate, contenuta nel classico fornelletto (fojòt), a cui abbiniamo un giovane violaceo Barbera di una bevibilità fuori dal comune. Il «coniglio al Barbera» che giunge poi fumante al nostro tavolo, fa coppia con un Nizza (sottozona del Barbera che prevede un disciplinare di produzione più severo), dal colore rubino scuro e intense note fruttate: vino di estrema eleganza e un finale di grande persistenza.

    Ci troviamo nell’angolo più dolce della provincia di Asti. Qui è il regno del Moscato e quindi, dulcis in fundo, piccoli torroni e frolle alle nocciole con un Loazzolo (Moscato passito) dalla complessa aromaticità olfattiva, dove oltre ai classici aromi primari dell’uva Moscato, percepiamo sentori di miele, camomilla, frutta secca e sfumature che vanno dal legno di sandalo alla vaniglia: una goduria!

    Al mattino ripartiamo: a Canelli è d’obbligo visitare le Cattedrali sotterranee, una rete di oltre venti chilometri di gallerie tufacee adibite ad affinare lo spumante e inoltre per capire e spazzare via i dubbi eventuali sulla differenza tra Asti Spumante e Moscato d’Asti.

    Puntiamo a nord-ovest, superiamo Castagnole delle Lanze poco dopo Costigliole d’Asti, ci spostiamo sulla sponda sinistra del Tanaro e proseguiamo verso S. Damiano d’Asti. Siamo al confine con le terre del Roero. Prima di dirigerci verso Villafranca d’Asti, ci fermiamo per degustare un piatto di salumi locali molto apprezzati con un bicchiere di rosso Croatina, coltivato nelle vicinanze di Cisterna d’Asti (unico comune del Roero in provincia di Asti).

    A circa dieci chilometri da Albugnano facciamo una piccola deviazione a sinistra per salire al Colle Don Bosco, da ex allievi Salesiani. Il luogo ci ricorda i momenti lieti della nostra fanciullezza e gli insegnamenti ricevuti. Ad Albugnano con uve NebbioloFreisa Barbera si produce un vino rosso/rosato che ben s’adatta ai formaggi vaccini ben stagionati, ma la ragione per cui siamo saliti fino a qui è un’altra: isolata in una piccola valle da idillio, silenziosa e immersa nel verde, visitiamo la suggestiva Abbazia di Vezzolano. Vuole la leggenda che Carlomagno di passaggio in questi luoghi, come ringraziamento per i numerosi boccali di Freisa ricevuti in dono da un’eremita locale, abbia fatto erigere la cappella su cui sarebbe sorta l’Abbazia. Ritorniamo verso Castelnuovo Don Bosco, dove Chiara ci ha preparato salumi, salsiccia, cardi in bagna càuda e castelmagno semi stagionato, il tutto bagnato da vino Freisa dal colore rubino non troppo intenso, profumato di lamponi, viole e rose, con una buona acidità e di cui apprezziamo la rusticità, molto adatta alla cucina povera.

    Prima di lasciare Chiara, chiudiamo questo giro in dolcezza con un’aromatica Malvasia di Schierano, dal bel colore cerasuolo, nella quale inzuppiamo i nostri Torcetti, biscotti lunghi e sottili piegati a forma di cuore. Sulla strada verso Torino a cinque chilometri a sud di Chieri, ci fermiamo per l’ultima tappa d’obbligo; la visita al Museo Martini di Storia dell’Enologia a Pessione.

    / Davide Comoli

  • La parodia enologica di Lorenzo il Magnifico

    Vino nella storia – Nel suo Simposio molti i riferimenti alla bevanda cara a Bacco

    Il 1400 è per Firenze un’epoca di straordinario splendore culturale e artistico. È la Firenze che – nell’arco di sessant’anni, tra l’insediamento alla Signoria della città di Cosimo de’ Medici (1389-1464) e la morte di suo nipote Lorenzo il Magnifico (1449-1492) – vede costituirsi in città la più alta concentrazione di «geni» che mai si è vista nella storia della civiltà occidentale. Tra le sue vie impreziosite dalla più elegante architettura che abbia mai onorato una città, non sarebbe stato infrequente incontrare Donatello, il giovane Michelangelo, Leonardo da Vinci, l’enciclopedico Pico della Mirandola, Sandro Botticelli o magari, tenendosi alla larga, il cupo fra’ Girolamo Savonarola.

    Tra costoro, l’artista che è sempre al fianco di Lorenzo de’ Medici e in larga misura lo influenza è senza dubbio alcuno Angelo Ambrogini, detto il Poliziano (Montepulciano 1454-Firenze 1494). Nulla ci è pervenuto che ci faccia avere idea se il Poliziano sia stato un’amante della bevanda sacra a Bacco, ma il vino compare con una certa frequenza nella sua poesia.

    Gli studi biografici sulla vita di Lorenzo de’ Medici, ascrivono la stesura del Simposio (componimento gradevole e poco conosciuto, dove il vino è cantato in parodia) tra gli anni 1466-1467.

    Il vino è il filo conduttore di tutto il poemetto ed è la materia prima che serve per canzonare e rivelare gli aspetti meno ufficiali della vita dei fiorentini dell’epoca. I primi biografi di Lorenzo parlano di una stesura a getto quando aveva 18 anni, il che dimostra la sua precoce vena letteraria. Attraverso questo poemetto a tema enoico, affiorano così molti aspetti dell’immagine del vino nella Firenze del 1400. In quest’opera molti sono i versi che richiamano le espressioni usate da Dante e Petrarca. Il collegamento con Dante è evidente fin dall’esordio della parodia enologica del Magnifico, dato il celebre inizio della Divina Commedia: «Nel mezzo di cammin di nostra vita», infatti, il Simposio si apre con «Nel tempo ch’ogni fronda lascia il verde, Bacco per le ville e in ogni via si vede a torno andar».

    Così come Dante trova guide che lo accompagnano nel suo viaggio (Virgilio e Beatrice), anche Lorenzo si avvale dei suoi due mentori: Bartolo Tebaldi e Nastagio Vespucci, sommi… mangiatori e bevitori.

    Lorenzo, nel poema, si trova in una fitta calca di persone. Tutti procedono nella stesse direzione e di gran fretta. Ma dove vanno? Questa è la domanda rivolta a Bartolino (Bartolo), la risposta è semplice, si recano di fretta a ponte Rifredi a bere vino appena spillato dalla botte dell’oste Giarnesse. In questa lesta corsa davanti a Lorenzo sfilano tutti i beoni fiorentini attratti dall’irresistibile profumo di vino.

    Da questo originale catalogo di ubriaconi fiorentini del XV sec., abbiamo scelto di riproporre alcuni caratteristici personaggi che compongono l’originale processione.

    Il primo ama talmente il vino da essere conosciuto con il nome «Acinuzzo». Il secondo ubriacone che estrapoliamo dalla processione (cap. VIII) è anche a suo modo un personaggio storico, si tratta del grasso piovano Arlotto, prete della campagna mugellana, le cui burle proverbiali ci sono state tramandate da un anonimo contemporaneo di Lorenzo nei Motti e facezie del piovano Arlotto. (Arlotto significa ingordo).

    L’Arlotto ha sempre con sé la fiasca per il vino e nel Simposio così viene descritto «Quest’è il piovan Arlotto e non gli tocca il nom indarno né fu posto a vento (a caso) sì come secchia è molle (bagnato di vino). Costui non s’inginocchia al Sacramento (all’Eucarestia) quando si leva, se non v’è buon vino, perché non crede che Dio venga dentro». È quantomeno intrigante l’immagine di Dio data qui, il quale potrebbe rifiutare sdegnato il sangue di Cristo se questo implica un vino dalle caratteristiche scadenti.

    Tra i tanti, la Malvasia è un vino che piace molto a un altro personaggio, Antonio del Vantaggio, un oste che beve più vino di quanto ne vende. Sperpera denaro in ogni taverna di Firenze e, dato che nella sua bottega non riesce a tenere la preziosa Malvasia, va a berla dal collega Candiotto, un taverniere che prende il nome da Candia, rinomata per le sue Malvasie. E Lorenzo così lo descrisse «Costui taverna fa, ma ne fa male ch’egli ha bevuto tanto in capo all’anno, che non gli resta mai in capitale. El Fico el Buco e le Bertucce el sauro e perché Malvagia non ha n bottega al Candiotto ancora fa spesso danno».

    Nel Simposio si trovano altri divertenti modi di dire «El vin gli fa puzzo» (il vino gli fa schifo), «Per sé e un compagno uccide» (tracanna per due), «Beve sol col naso una vendemmia» e chi «Al tornar un baril frode» (perché prima di rientrare tra le mura della città ha ingerito tanto vino da far passare di frode l’equivalente di un barile), «Come el cammel ha soma egli» (tanto pieno di vino).

    L’arguto piovano Arlotto e Lorenzo il Magnifico condividono una speciale considerazione per l’acino d’uva e il primo si meraviglia che il buon Dio non abbia fornito maggior protezione «Per quale ragione al chicco d’uva è data tanta poca difesa, che ogni piccola goccia lo offende, e lo sciupa, è un frutto così prezioso che puoi vedere il liquore nobile che produce e quale nutrimento da».

    Forse non tutti conoscono il Simposio del Magnifico, ma di certo tutti conoscono la Canzona di Bacco che esalta la giovinezza, l’amore e il vino, così all’improvviso anche a noi capita di canticchiare quasi come un’invocazione «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».

    / Davide Comoli

  • L’allevamento della vite ai piè del monte

    Bacco Giramondo – Continua il viaggio vitivinicolo nelle regioni d’Italia entrando in punta di piedi in Piemonte

    La corona di vallate protette dalle vette delle Alpi, che lo circondano, dà il nome al Piemonte che letteralmente significa proprio «ai piedi del monte»; non c’è termine migliore per rappresentare la morfologia di questa regione. Infatti il perimetro della regione è contornato per i tre quarti (sud, nord, ovest), da montagne (Alpi e Appennino Ligure) che proteggono il territorio favorendo un clima freddo, temperato e continentale.

    Con ancora maggior precisione possiamo dire che le montagne occupano il 43,3% del territorio, la pianura il 26,4% e le colline il 30,3%. Ed è proprio sulle colline che si è sviluppata la viticoltura piemontese, dove la vite s’insedia sui versanti a sud, est e ovest e lascia le altre colture sul lato nord. In collina la vite condivide forme di allevamento basse (guyot e cordone speronato), mentre le forme alte sono poco diffuse e concentrate localmente (Erbaluce di Caluso e altre aree del nord come la Val d’Ossola).

    Con inverni lunghi e freddi, estati siccitose e percettibili escursioni termiche tra la notte e il giorno, ogni zona del Piemonte ha peculiarità diverse relative a precipitazioni e temperature. Con questa variabilità, l’uomo nel corso dei secoli ha saputo sviluppare accurate selezioni dei vitigni più adatti alle varie aree, applicando specifici metodi di coltivazione.

    Un esempio di come il terreno, il clima e il vitigno, grazie all’opera dell’uomo possono produrre vini dalle diverse caratteristiche è dato dal Nebbiolo che occupa circa il 14% del vigneto piemontese. Oltre a essere la base dei più aristocratici vini del Piemonte, il Nebbiolo è forse il più antico vitigno a bacca rossa della regione, con molta probabilità conosciuto prima ancora dei Romani dalle antiche popolazioni Liguri.

    Nella Langa il Nebbiolo allevato su dei terreni compatti e marnosi, ricchi di argilla e gesso, dove le escursioni termiche sono meno accentuate, dona vini molto complessi, dai tannini ben presenti e profumi intensi. Al di là del fiume Tanaro, nel vicino Roero, dove abbiamo l’indice più basso di piogge della regione e terreni sabbiosi di basso fondale, i vini ottenuti da questo vitigno non necessitano di lunghi invecchiamenti. Per questo si possono gustare vini di precoce bevibilità, dai profumi molto accentuati. Mentre il Nebbiolo coltivato nelle zone di Novara, Vercelli, Biella (chiamato in loco con nomi diversi), su terreni acidi e ricchi di minerali, dà origine a vini molto sapidi e con una buona finezza olfattiva.

    Il vigneto piemontese si estende per circa 50mila ettari, di cui oltre il 60% della produzione di vini (circa 2’600’000 ettolitri) è ottenuta soprattutto da uve rosse di monovitigno. Ma la ricchezza di questa regione, in cui i vini internazionali coprono circa il 6 % della produzione, è data dalla grande quantità di vitigni autoctoni coltivati, che ancora oggi costituiscono per l’appunto la gran parte della produzione regionale, in questa terra dove ben radicate sono le tradizioni.

    Molti di questi (che assaggeremo visitando le zone vitivinicole) sono vitigni semi-sconosciuti che devono la loro riscoperta all’impegno e alla tenacia di alcuni viticoltori.

    In Piemonte si produce vino in tutte le province, che possono essere suddivise in sei aree: l’Alto Piemonte, l’area pedemontana tra Saluzzo e Torino, il Monferrato Astigiano, l’Alto Monferrato, il Roero e le Langhe. Il vitigno più diffuso è la Barbera: da quest’uva derivano i vini rossi per antonomasia del Piemonte. Il secondo vitigno per diffusione (il terzo è il Nebbiolo del quale abbiamo già parlato) è il Dolcetto, che determina una decina di denominazioni: Alba, Diano d’Alba, Dogliani, Acqui, Asti, Ovada, Langhe Monregalesi, dei Colli Tortonesi, del Monferrato, Langhe.

    Tra i vitigni a bacca bianca nell’Astigiano troviamo il Moscato, che oltre a essere il vino dolce spumante più famoso al mondo, si vinifica anche non spumantizzato e in vendemmie tardive.

    Per gli amanti del turismo enogastronomico ecco qualche indicazione per andare alla scoperta di vini, magari un po’ rudi e austeri, da gustare senza fretta, aspettando che lentamente nel bicchiere rivelino la loro anima. Per coloro che conoscono a memoria i vari sentori dei vini più noti, consigliamo di visitare l’ampia zona pedemontana, a volte montana, che si estende tra Pinerolo e Saluzzo e tocca le montagne ai confini della Francia: siamo sulle pendici montane delle valli Chisone, Germanasca e Val Pellice.

    In queste valli – dove NebbioloBonarda, Freisa, Dolcetto, Barbera, alle volte insieme, danno origine a vini rossi e rosati – la viticoltura è praticata da secoli. La particolare storia che ha segnato queste valli (definite le Valli Valdesi), ha creato una straordinaria varietà di vitigni e un eccezionale patrimonio ampelografico, che rischiava di andare perso dopo l’invasione fillosserica. Oggi, grazie al riaffermato desiderio di tutelare la singolarità della viticoltura locale, alcuni appassionati enologi e viticoltori locali si stanno impegnando nel recupero degli storici vitigni di queste valli.

    Andare quindi a provare vini le cui radici vanno così in profondità nella storia è uno stimolo per ogni amante della sacra bevanda. L’occasione ci è stata data a Pinerolo, dove abbiamo degustato, accompagnati dai pregiati prodotti caseari locali (stupendi il seirass – ricotta piemontese – profumato al timo serpillo e il plaisentif, vale a dire il formaggio delle viole), il rosso Ramié – che prevede l’utilizzo dei vitigni Avané, Avarengo, Neretto e Plassa – un vino fruttato, leggero e fresco, e il Doux d’Henry, prodotto in circa 4500 bottiglie a vendemmia, dagli intensi profumi di mora e ciliegie che sfumano nel dolce; è l’ideale compagno per un piatto di salumi. Coltivato sulle colline intorno a Saluzzo, il Quagliano è invece un vino dal colore rosso tenue, con note di viola, dal sapore dolce e dai sentori di fragole; ideale se abbinato a una crostata di frutti di bosco.

    Da Pinerolo raggiungiamo la A5 in direzione delle colline moreniche del Canavese, un po’ più a nord troviamo il Carema, un Nebbiolo allevato a pergola e che può invecchiare per decenni.

    Fuori da San Giorgio Canavese, e passato Caluso, arriviamo sul piccolo lago di Candia, dove ci fermeremo per la notte. Siamo nella patria dell’Erbaluce; in autunno i grappoli di questo vitigno si accendono di riflessi ramati, leggermente rosati, con i quali si producono intriganti Spumanti, un Bianco fermo che abbiamo abbinato a una frittura di lago, ma soprattutto un Passito molto complesso, nel quale senza vergogna abbiamo a fine pasto intinto i famosi torcèt prodotti nella vicina Agliè.

    / Davide Comoli

  • Nel Decameron della Firenze medievale

    Il vino nella storia – L’ironia di una bevanda il cui consumo ha trovato spazio anche in alcune delle novelle boccaccesche

    I vini che compaiono nei testi letterari della Toscana medievale diventano una chiave di lettura del ruolo che essi ricoprivano nella vita quotidiana.

    Si può notare come il vino sia collegato a tre classi di valore. La prima è quella delle virtù terapeutiche e mediche: il vino viene infatti considerato come elemento in grado di mantenere la salute. La seconda classe è quella dei valori sociali: esistono infatti vini adatti per determinate celebrazioni, vini per la festa e vini popolari. La terza classe comprende quei vini capaci di intaccare le buone norme, dando origine a scene di lussuria e sfrenatezze varie, vini quindi che per le persone assennate vanno evitati.

    Si capisce dagli scritti che il bevitore medievale fiorentino aveva una scelta grande di vini. Un ritratto della vita fiorentina dell’epoca è rappresentato nel Decameron, l’opera di Giovanni Boccaccio composta da cento novelle scritte tra il 1349 e il 1353.

    La classificazione dei vini era all’epoca un’operazione complessa: l’aspetto fondamentale tra vini forti e vini deboli passava attraverso la concezione degli «umori», dove assumeva una forte rilevanza l’opposizione caldo/freddo, cui si sovrapponeva e quasi sostituiva l’opposizione organolettica dolce/acido. La corretta scelta del vino si doveva quindi basare sull’analisi dello stato sanitario del bevitore (età e condizioni di vita), ma si teneva conto anche della stagionalità, così pure del regime alimentare.

    Nel trattato di dietetica di Michele Savonarola (sembra sia stato lo zio del più famoso «Girolamo»), si trova chiaramente descritta la classificazione dei vini dell’epoca. I vini «piccoli» (cioè poco alcolici/deboli) sono caldi al «primo grado», i vini più potenti sebbene ancora relativamente «piccoli» sono caldi al «secondo grado», le Vernacce e le Malvasie (vini dolci e più alcolici) sono caldi al «terzo grado», l’acquavite o acqua ardente è calda al «quarto grado». Su queste basi il Savonarola conclude scrivendo che «il vino, prima che un piacere, diventa un sostegno fondamentale per la buona salute, che conforta, corrobora, difende l’organismo».

    Esempi di queste regole, non sempre seguite, vengono presentate dal Boccaccio (1319-1375) nell’epidemia di peste che colpì Firenze nel XIV sec. nella prima giornata nel suo Decameron. Alcuni, «racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo», cercano di proteggersi dal morbo seguendo principi morigerati, isolandosi dagli infermi e utilizzando il vino seguendo le regole della dietetica medica del periodo in modo «temperato». Altri invece di opinione opposta preferiscono godersi la vita per quanto possibile e di «bere assai (…) e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura»

    Nella Firenze del 1300 esistevano comunque precise regole dietetiche per il consumo del vino. Così in estate si consigliavano vini «freddi», cioè vini deboli eventualmente con aggiunta d’acqua, «rinfrescare alquanto con freschissimi vini» troviamo sulle pagine del Decameron. In inverno al contrario sono consigliati vini «caldi» più forti e più dolci come le Vernacce e le Malvasie, perché si pensava che questi vini avessero la virtù di scaldare il corpo in inverno, di suscitare l’appetito, di scaldare lo stomaco e di facilitare la digestione. In quel periodo la teoria di collegare il vino alle condizioni atmosferiche era condivisa da tutti e non solo dai medici. Infatti nelle fonti mediche medievali spesso si trova il consiglio di servire il vino «secondo quello che il tempo richiede».

    Nel Decameron il potere riscaldante e corroborante del vino «caldo» è sempre presente. Nella decima novella della seconda giornata, si racconta del giudice pisano Riccardo di Chinzica «magro, secco e di poco spirito» che dopo la prima notte di nozze passa quasi all’altro mondo, tanto che alla mattina «convenne che con Vernaccia e confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornava».

    Il vino dolce e alcolico era il più costoso e quindi più prestigioso rispetto ai vini deboli e aciduli. Come tali questi vini erano segni di ricchezza e abbondanza, collegati quindi a occasioni solenni quali matrimoni oppure banchetti in onore di ospiti illustri. Sempre nel Decameron, in molte novelle si respira l’atmosfera di sfarzosi banchetti dove il «vin Greco», la «Malvasia», la «bella e buona Vernaccia», vengono offerti in «scatole di confetti e preziosissimi vini», dove «bevendo e confettando» gli ospiti si riconfortano bevendo «vini finissimi» che accompagnano grossi capponi.

    In una novella il Boccaccio racconta che gli ambasciatori papali in missione a Firenze insieme a messer Geri Spina, passano ogni mattina davanti alla bottega del fornaio Cisti, divenuto ricchissimo, e che viveva in modo splendido. Fra le tante cose buone possedeva «i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero nel contado». Cisti, per onorare gli ambasciatori del papa, offre il suo buon vino bianco scelto, travasandolo da un piccolo orcioletto in «quattro bicchieri belli e nuovi». Oltre a riscaldare il sangue i vini bianchi dolci e potenti sono immancabilmente collegati alla trasgressione e alla lussuria.

    Quando il Boccaccio descrive la casa di campagna dove si rifugiano le sette fanciulle e i tre giovani che per dieci giorni racconteranno a turno le novelle del Decameron, a proposito di vini dolci dirà: «con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne». Più avanti aggiunge «non è bello per i giovani correre alla lussuria bevendo Malvasia fin dal mattino, ma per le donne è ancora peggio», come mostra la novella della figlia di Soldano di Babilonia, che in una cena beve vari vini mescolandoli, tant’è «più calda di vino che d’onestà temperata» e senza vergogna accetta proposte sconvenienti.

    Con il suo repertorio di situazioni, tipi e burle narrate di volta in volta da Panfilo, Neifile, Filomena, Dionèo, Fiammetta, Emilia, Filòstrato, Lauretta, Elissa e Pampinea, il Decameron ha conservato nei secoli la sua fama di libro «ameno».

    Anche gli ordini religiosi non si sottraggono alle canzonatorie, infatti il Boccaccio lancia strali contro i frati che appaiono grassi e coloriti, che possiedono scorte opulente di leccornie come «alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono più tosto a’ riguardanti».

    Le regole di assunzione dei vini vengono ancora chiamate in causa nelle ultime pagine del Decameron, dove lo scrittore vuole rispondere a probabili accuse contro la morale contenute nelle novelle, Boccaccio difende la propria opera servendosi di paragoni con il vino: «Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi (…) et a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, perciò che nuoce a’ febbricitanti, che sia malvagio? (…) Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle».

    / Davide Comoli