I clerici vagantes delle taverne - Vinarte

Vino nella storia – Il Medioevo? Un mondo in cui «Beve il papa, beve il re, bevon tutti senza regola, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella»

La Chiesa, dopo la distruzione apportata dall’epoca barbarica alle scuole laiche di origine romana, diventa l’esclusiva divulgatrice dell’istruzione. Siamo nel Medioevo. Ogni studente è quindi un clericus, e viene a far parte «dell’ordo clericalis», cioè degli uomini di chiesa, distinguendosi tuttavia dai sacerdoti e dai veri e propri monaci per aver ricevuto solo i cosiddetti «ordini minori», ragion per cui hanno garantito il godimento di parecchi privilegi che vanno dall’esenzione dei pagamenti dei tributi dovuti al potere civile, all’esonero dal voto di castità (peraltro molto elastico in questo periodo storico).

Sono poi «vaganti», perché si spostano da un ateneo all’altro, per frequentare le lezioni più rinomate nelle varie branche del sapere. L’Abate di Froidmont, Elinando (1179-1229 circa), scrive di loro con una certa stizza: «Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Parigi, gli autori classici a Orleans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo». Questi sono i «clerici vagantes», la loro casa è «todus mundus», un mondo invero costellato da traversie, pericoli e fatiche.

Delusi in molte aspettative, la posizione dei «clerici vagantes» è particolare all’interno della società, quasi non si sentono di appartenere alla Chiesa e criticano lo Stato. Alcuni di loro mettono in versi la propria visione del mondo in cui stanno vivendo, dando vita a Canzoni da intonare (meglio se in coro), non sotto le vertiginose architetture delle nuove cattedrali gotiche o nelle sale di qualche Rathaus, ma nella dissacrante e allegra atmosfera di una taverna. Dai loro carmi disinibiti, tra il tintinnio dei boccali e il vociare degli avventori avvinazzati, affiorano tre grandi passioni, i dadi, la taverna e l’amore, uniti tra loro da un unico denominatore: il vino.

Sono appunto questi «clerici vaganti», i goliardi a reintrodurre il vino in poesia dopo secoli di silenzio. Ancora oggi gli eruditi disputano intorno all’etimologia dell’aggettivo «goliardo»: alcuni sostengono che abbia radici in «galam» (cantare) o in «gualiar» (ingannare), ma altre ipotesi rimandano la radice a «Golia», il soprannome dispregiativo dato ad Abelardo dai suoi avversari, ma anche uno dei Maestri più amati dai «clerici vaganti».

Circa trecento composizioni poetiche ci sono state tramandate in un manoscritto conservato nella biblioteca dell’abbazia di Benediktbeuern, l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata nel VIII sec. da San Bonificio nelle Alpi Bavaresi, ed è appunto dal nome dell’abbazia che questi canti sono noti come Carmina Burana. Ed ecco allora il canto scritto in lode al vino, tradotto così: «Salve colore del vino scintillante, salve sapore senza eguali, degnati di inebriarci con la tua forza… Beato lo stomaco nel quale entrerai, beata la gola che solcherai, beata la bocca e le labbra che laverai. E dunque lodiamo il vino, esaltiamo i bevitori, sprofondiamo nell’inferno gli astemi».

La taverna, per tutto il Medioevo rappresenta un particolare microcosmo al cui interno vige una scala di valori diversa da quella espressa dalle società del tempo. È un mondo in cui regna l’uguaglianza, non esistono classi sociali e dove si venera l’unico dio pagano sopravvissuto allo spietato «repulisti» attuato dagli Ordini Religiosi: Bacco. In taverna, il povero e il ricco siedono allo stesso tavolo, dove tutti possono esprimersi in piena libertà, perché il vino è artefice dell’uguaglianza, perché è il medesimo per tutti e i goliardi ne sottolineano l’aspetto liberatorio e gioioso: «Questo vino buono, vino generoso, rende l’uomo più gioviale, probo e animoso», fra i suoi benefici, anche l’oblio degli affanni, «vino sors lenitur dura», col vino si lenisce la dura sorte.

Il professore Bartoli, nel suo libro I precursori del rinascimento, descrive in modo magistrale la fisonomia di questi scapigliati e liberissimi poeti erranti e ipotizza l’imbattersi nelle taverne con le prime squadre di costruttori di cattedrali che, a quel tempo, come i «clerici vaganti» vagavano, loro a innalzare le meravigliose opere che ancora oggi possiamo ammirare in tutta Europa. A giudicare da molte somiglianze che si rilevano nelle pur diverse opere, l’ipotesi non è poi così azzardata. Le sculture e gli intagli che raffigurano sconce e ridicole pose di frati, monache e scimmie ritratte, forse sono satire ispirate nelle menti di quegli scalpellini dalle gaudenti strofe di quei cervelli libertini. «Quando Bacco irrompe nella mente del poeta, compie cose mirabili, il vino non ispira solo la mente, ma anche il cuore, Bacco oltrepassa il petto dell’uomo e lo induce all’amore, blandisce la mente delle fanciulle, anche quelle più severe e le rende gentili […] chi non beve vino puro, non è capace di separare il vero dal falso, maestri e ministri astemi mancano di senso».

In un tempo dove imperversano lotte e divisioni, questi poeti offrono un mondo che accogli tutti i bevitori in un ebbro e giocoso girotondo dove… «Beve il papa, beve il re, bevon tutti senza regola, beve il signore, beve la dama, beve il soldato, beve il chierico, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella, beve il lesto, beve il pigro, beve il bianco, beve il negro, beve il povero e il malato, beve l’esule e l’ignoto, beve questa, beve quello, bevon cento, bevon mille».

Concludiamo con un verso tratto dai ventiquattro poemi del Carmina Burana, che tutti gli amanti del vino, più o meno consapevolmente, hanno scelto come loro motto: «O potores exquisiti, licet sitis sine siti» e cioè «Illustri bevitori, sappiate che per bere non è necessario avere sete».

Scelto per voi

Humagne Rouge Gilliard

Autentico tesoro del Vallese l’Humagne Rouge è un vitigno originario di questo Cantone, orgoglio della Maison Gilliard che dal lontano 1885 è leader indiscussa tra i produttori vallesani.

L’Humagne che questa settimana vi raccomandiamo seduce per il suo carattere; i suoi profumi selvatici si mischiano a fragranze di landa e bacche di bosco. Ottimamente vinificato, l’Humagne possiede morbidezza e corpo: è molto piacevole in bocca con tannini presenti, ma leggeri, e in finale, i frutti lasciano una piacevole scia sul palato, dando l’impressione di un vino di straordinaria adattabilità ai vari abbinamenti che vanno dalle carni bianche alle carni rosse cucinate in modi diversi; ottimo con un plateau di formaggi.

Noi lo abbiamo apprezzato molto nell’indovinato abbinamento con «Scaloppine di capriolo con spugnole».

 

 

/ Davide Comoli