Curiosità Archivi - Pagina 5 di 13 - Vinarte
  • Andar per vini in Emilia

    Bacco giramondo – Continua il viaggio nelle regioni d’Italia, dividendo in due la terra delle città medioevali e della Riviera adriatica – Prima parte

    Regione cerniera tra l’Italia continentale e quella peninsulare, l’Emilia Romagna si apre a nord verso la «Bassa» Padana e accompagna il fiume Po verso la sua foce: la via Emilia divide questa parte dal versante sud e più orientale, dove la Romagna viene bagnata dal Mare Adriatico.

    Nata nel 1860 sulle ceneri dei ducati di Parma e Piacenza, di Modena e Reggio, di Ferrara e delle terre che lo Stato Pontificio possedeva a nord di Roma, questa regione vanta zone molto differenti tra loro, tipologie e vitigni diversi, tradizioni che alle volte sembrano molto distanti l’una dall’altra, tutte sfumature mantenute grazie anche al fatto che sia gli emiliani sia i romagnoli tengono molto alla loro identità. In rispetto, dunque, a queste differenze, il dividere la regione in due articoli separati ci sembra cosa logica, e partiremo dall’Emilia solo per scelta casuale.

    L’archeologia colloca la coltura della vite in questa regione molto indietro nel tempo: reperti dell’età del bronzo (1700 a.C.) rimandano gli albori della viticoltura a quell’epoca. Ma come testimonia lo scrittore latino Varrone, furono gli Etruschi a far compiere un salto di qualità alla coltivazione delle viti in questa zona, portando nuovi vitigni nonché adeguate tecniche produttive.

    Sta di fatto che quando il console romano Marco Emilio Lepido nel 187 a.C. fece costruire la via consolare Emilia, di certo constatò con ammirazione la successione di vigne e l’abbondanza di vino. Non per nulla, autori latini scrivevano di questa regione lodandone l’eccezionale produzione fino a 312 hl/ha! Sebbene nessuna fonte si domandi se tanta abbondanza corrispondesse ad altrettanta qualità.
    Tra il XIII e il XIV secolo, compaiono il Trebbiano, che a detta di Pier de’ Crescenzi «fa nobile vino e ben serbatojo» e la Malvasia; nel XVII secolo compare anche il Lambrusco, come figlio delle viti menzionate da Catone, il quale avrà un successo strepitoso. Il XIX secolo vede invece la crisi fillosserica che distruggerà il 90 per cento dei vitigni della regione.

    Lungo la direttrice della Via Emilia, scendendo verso sud, si attraversano le provincie emiliane – con l’eccezione della provincia di Ferrara, situata poco più a nord-est: ebbene il vigneto emiliano si estende per circa 28mila ettari.

    La parte nord-occidentale è quella dei Colli Piacentini e, percorrendo la Strada dei Vini, sembra di entrare in una fiaba fra castelli, borghi e pievi, sulle valli Tidone, Trebbia, Nure e Arda. Qui il vino più rappresentativo è senz’altro il Gutturnio (Barbera e Croatina), un rosso di buon corpo, simile ai rossi dell’Oltrepò Pavese, d’abbinare con tipici Pisarei e fasò. Accanto a lui troviamo un bianco leggero e talvolta frizzante, l’Ortrugo, prodotto da uve omonime, da provare con i ravioli burro e salvia, senza dimenticare i profumati e gustosi salumi piacentini.

    Proseguendo il nostro itinerario incontriamo l’incantevole Castellarquato, castelli da sogno e dolci colline ricoperte di vigneti, ci fermiamo in Val Trebbia per un ristoro dell’anima nell’Abbazia di San Colombano a Bobbio. Gustiamo qui il Trebbiano e a Monterosso Val d’Arda una profumatissima Malvasia di Candia, Moscato, Trebbiano Ortrugo. Scendendo verso Parma, fate una sosta a Vigoleno, dove si produce una chicca enologica come il Vin Santo di Vigoleno, in cui entrano pure vitigni come il Sauvignon e la Marsanne.

    Proseguendo per Parma, la viticoltura si concentra nelle zone pedecollinari, dove il Sauvignon è il vitigno più rappresentativo e i vitigni coltivati fanno pendant con quelli sopraccitati. Abbiamo poi apprezzato molto lo Spumante Metodo Classico prodotto con uve Pinot NeroChardonnay Pinot Bianco, gradevolissimo aperitivo, quando ci siamo fermati nel Parco Regionale nell’area compresa tra i fiumi Taro e Ceno, dove paesaggi rurali incoronano prodotti agroalimentari di assoluta eccellenza (prosciutto di Parma, salame felino, tartufo nero di Fragno e naturalmente il parmigiano reggiano).
    Varcando il confine della provincia di Reggio Emilia si entra nel regno dei vini frizzanti: qualche chilometro prima del capoluogo inizia l’area del Lambrusco, tra Montecchio, Gualtieri, Cavriago e comuni limitrofi, si produce il Reggiano Lambrusco Salamino, gradevole e fresco, forse il più leggero e beverino fra tutti gli altri Lambruschi. Salendo lungo le pendici dell’Appennino troviamo Bibbiano e raggiungiamo Canossa, con i ruderi del castello di Matilde. Bagnati da un frizzante e leggero Bianco di Scandiano, prodotto con uve Sauvignon (qui chiamato Spergola), abbiamo gustato il «Gnocco fritto» e «l’Erbazzone», una torta salata a base di Parmigiano Reggiano DOP ed erbette.

    Il nostro viaggio ci porta a visitare le acetaie dell’aceto balsamico tradizionale di Modena DOP e a entrare nelle cantine dove si vinificano le diverse varietà di Lambrusco. Il più famoso è molto probabilmente il Lambrusco di Sorbara, ma quelli con più corpo e violacei sono il Lambrusco Salamino di Santa Croce e il Lambrusco di Castelvetro, sono questi dei vini semplici che affondano le radici nella più autentica tradizione popolare della provincia di Modena.

    Poco prima di Bologna facciamo una deviazione verso nord-est in direzione della provincia di Ferrara, verso la fascia di costa tra il delta del Po e la foce del Reno, unica zona della provincia a vantare una produzione vitivinicola, caratterizzata dalla coltivazione di vitigni che crescono bene sui terreni sabbiosi. Il vitigno più famoso è il Fortana, le cui origini potrebbero risalire alla civiltà etrusca che aveva fondato la civiltà di Spina. I vigneti di costa, allevati su dossi sabbiosi, tra i boschi di lecci con viti basse, hanno resistito al flagello della fillossera, e sono infatti a «pied franc», senza portainnesto americano.
    La DOC Bosco Eliceo Bianco e Bosco Eliceo Rosso, è prodotta con uve FortanaMerlotTrebbiano e Sauvignon. Sono vini unici nel loro genere; assolutamente da provare in una delle tante trattorie della valle di Comacchio, è il Bosco Eliceo Rosso con «l’anguilla alla brace».

    Chiude il panorama della vitivinicoltura dell’Emilia una zona completamente diversa da quelle precedenti. Il nostro viaggio continua, infatti, in provincia di Bologna, percorrendo la strada dei Colli Bolognesi. L’inizio dei vigneti di Sangiovese ci fa capire che siamo vicini alla Romagna: piccoli gioiellini enologici si trovano cammin facendo tra i crinali e le vallate appena fuori Bologna, fino ai confini della Toscana.

    Tra i vitigni cosiddetti internazionali ritroviamo anche il Barbera e un Bianco prodotto con uve Albana, sebbene il più caratteristico sia senza dubbio quello prodotto con le uve Pignoletto, utilizzato anche per la produzione di vini frizzanti e spumanti, leggeri e particolarmente piacevoli. Consigliamo comunque di provare il Pignoletto Classico DOCG, vino morbido e sapido, per accompagnare un piatto di «Tagliatelle di castagne con pancetta e pecorino».

    Il nostro viaggio continuerà sul prossimo numero dedicato alla rubrica «Bacco giramondo» verso la Romagna, regione che dal punto di vista vitivinicolo non ha nulla da spartire con l’Emilia.

    Scelto per voi

    Gamay Gilliard

    Con il suo colore violaceo, una sostenuta acidità e tannini abbastanza leggeri, morbido che quasi vi strega, il Gamay della maison Gilliard di Sion dona un vino dalla stupefacente intensità olfattiva, dove predominano il cassis, la ciliegia e, tra i profumi floreali, la violetta.

    Vitigno di origine borgognona, il Gamay ha subito trovato il suo habitat ideale sui terreni granitici del Vallese, dove la natura s’avvicina molto ai terreni del Beaujolais-Villages e trova i suoi terroirs ideali tra Martigny e Saillon.

    Facile da bere, per il suo tasso alcolico ragionevole, il Gamay va bevuto giovane e, per la sua natura fruttata, lo raccomandiamo con piatti di salumeria, carni bianche cucinate in modi diversi e piatti di formaggio. Nella stagione fredda lo abbiamo provato con una fondue chinoise: una meraviglia.

     

    / Davide Comoli

  • I vitigni secondo Virgilio e Columella

    Vino nella storia – A confronto i punti di vista di un poeta e di un agronomo ante-litteram

    Nell’età aurea di Roma, in seguito alla stabilizzazione delle condizioni politiche, fu reso possibile e s’incoraggiò il ritorno alle campagne; la viticoltura e l’enologia rappresentarono due aspetti importanti per la vita economica e sociale di quel periodo.

    Già antecedentemente, personaggi come Catone (234-149 a.C.) e Varrone (116-27 a.C.), avevano composto trattati di agricoltura, ma nell’epoca più fiorente dell’impero si aggiunsero Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) e Lucio Giunio Moderato Columella (I sec. d.C.).

    Come sottolinea quest’ultimo, il vino oltre che prodotto per la necessità famigliare come alimento, diventa un mezzo di scambio e un indubbio reddito sia per chi lo produce che per chi lo commercia. Con calcoli precisi e dettagliati, Columella sottolinea i vantaggi economici che può dare un vigneto «per chiunque sappia unire la scienza alla diligenza». Il guadagno che può dare un vigneto, secondo quanto afferma, è molto superiore a quanti sono aggrappati alla produzione di ortaggi.

    L’agronomo, così potremmo chiamarlo ai giorni nostri, fa una distinzione fra le uve da vino e le uve da tavola, e nella sua classificazione divide le uve da vino in tre gruppi, a seconda del vino che si ottiene. Le più pregiate – Columella è un grande estimatore delle uve italiche – erano le Aminee, coltivate in Campania e in Sicilia, dalle quali si ottenevano i vini AmineoLucano Murgentino. Nello stesso gruppo aveva posto le uve provenienti dall’Etruria, chiamate Apianae, perché attiravano le api, e le uve Eugeniae, coltivate sui Monti Albani, entrambe molto dolci.

    Nel suo trattato, De re rustica, suggeriva per ogni vitigno il terreno più adatto, consigliava pure di impiantare varietà diverse sullo stesso terreno, e di tenerle separate per ottenere vini più pregiati.
    La vendemmia partiva ad agosto e arrivava fino a novembre con la piena maturazione delle uve. Le uve venivano cernite e pigiate nel «calcatorium» e quindi torchiate nel «torcularium»; infine il mosto veniva messo nei «dolia». Il «mostum lixivium» era il mosto che, prima ancora della pigiatura, usciva a seguito della compressione delle uve le une sulle altre: mescolato al miele, era impiegato per produrre il dolcissimo «mulsum».

    Columella a parte, nell’età di Augusto, si affermò nel campo letterario un mantovano figlio di proprietari terrieri. Aveva studiato retorica a Roma, dove aveva avuto come condiscepoli il futuro Cesare Ottaviano Augusto e Marco Antonio: stiamo parlando di Publio Virgilio Marone. Nella Roma di allora era molto popolare, possedeva una casa sull’Esquilino donatagli dall’imperatore, sebbene preferisse risiedere nello splendido e più tranquillo golfo di Napoli.

    Il grande vate della poesia latina nutrì una particolare sensibilità nei confronti della natura (ai giorni nostri sarebbe di sicuro un leader nel movimento Verde): sensibilità che pur essendo già presente nelle sue Bucoliche, si esprime in modo compiuto nelle Georgiche. Nei quattro libri delle Georgiche parla della coltivazione dei campi, di coltura degli alberi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura. Ma quest’opera non è un vero e proprio manuale di agricoltura come invece è il De Re Rustica di Columella; Virgilio è un poeta non un agronomo.

    Nel suo lavoro Virgilio canta i doni di Cerere e di Libero (Bacco), di Fauni e Driadi e dei numi agresti che proteggono i campi. Così l’aratro, i graticci di corbezzolo, i segnali della grandine, i venti, i terreni, i giorni propizi per i lavori nei campi diventano poesia. L’opera delle Georgiche inizia con l’intento di cantare Bacco e, attraverso di lui, i pampini autunnali e i vini che spumeggiano nei tini durante la vendemmia. Ammettiamo che leggendo Virgilio abbiamo avuto l’impressione che i versi componessero un’opera sì di un grande poeta ma, ad esser sinceri, anche che l’autore non fosse stato un grande intenditore e nemmeno un buon bevitore.

    Il poeta invita il padre Leneo, uno dei tanti nomi di Bacco, a tingere con lui le gambe nude nel mosto nuovo. Con questa immagine introduce l’argomento, in tutto 160 versi, del libro delle Georgiche. Per quanto riguarda i vitigni, Virgilio accosta quelli italici ai celebri vitigni della Grecia. In poche parole spiega che i frutti della vite non sono gli stessi dappertutto, c’è uva e uva, c’è vino e vino, ma l’uva e i vini italici non sono secondi a nessuno: «Ci sono le uve di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche, s’addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini; e la psitia migliore per il passito e il Lageo leggero, che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua, le uve purpuree e quelle precoci, e come ti potrò cantare o Retica? Però non sfidare le cantine del Falerno! Vi sono anche le viti Aminee, vini robustissimi, a cui cedono il passo quello di Timolo e persino il Faneo, re dei vini; e l’Argitide, quella più piccola, quella con cui nessun’altra può rivaleggiare o per quantità di succo o per durata di anni».

    Virgilio continua dicendo che le specie e i nomi dei vitigni e dei vini sono così numerosi che non si possono citare tutti, né si può indicare il loro numero. Chi volesse conoscerlo dovrebbe sapere «Quanti grani della pianura libica si agitano allo Zefiroo, quando l’Euro si abbatte più furioso sulle flotte e sapere quante sono le ondate dello Jonio che arrivano sulle sponde».

    Molto probabilmente con le Georgiche voleva rinnovare la letteratura del poeta greco Esiodo (le Opere) collegandosi alla tradizione latina della letteratura e poesia, composte di parti didascaliche (opere in prosa e in versi) con l’intenzione di celebrare Roma.

    Per questo tra i suoi progetti vi era un poema che si sarebbe intitolato Res Romanae, e c’era pure l’intenzione di celebrare le imprese di Augusto. Queste idee, ampiamente discusse con Mecenate (Arezzo 69 circa a.C. – Roma 8 d.C.) munifico protettore di molti artisti, condussero alla realizzazione dell’Eneide. Pure in una sua parte l’Eneide contiene alcuni momenti dedicati al vino, in quest’opera che è la celebrazione virgiliana dell’epopea di Roma: partito dai desolanti lidi di Troia, Enea brinda con il vino alla realizzazione delle profezie «Ora libate a Giove con coppe, invocate pregando il padre Anchise, e ancor ponete sulle mense il vino».

    L’Eneide è un’opera da leggere d’un fiato, soprattutto per gli amanti delle fiction; oltre che avvincervi, rinfrescherà i vostri ricordi scolastici. Virgilio dedicò dieci anni a quest’opera, ma la morte gli impedì di finirla: si spense a Brindisi nel 19 a.C.

    Scelto per voi

    Le Chicche rare

    Coltivati tra i 430/600 m d’altitudine, i vigneti del Canton Neuchâtel (sesto cantone vinicolo), beneficiano della presenza del lago. Questo, infatti, funziona da tampone termico contro il calore estivo e i rigori dell’inverno. Essendo appoggiato ai contrafforti delle Alpi Jurassiane, il vigneto che copre quasi 600 ettari è anche protetto dalle piogge e dalle correnti umide che arrivano da ovest. La Caves des Coteaux si trovano tra i villaggi di Boudry e Cortaillod, i vigneti crescono su terreni formati da vecchie rocce ricche di calcare e molasse sabbiose.

    La cantina produce una vasta gamma di vini, l’Oeil de Perdrix che oggi vi proponiamo è composto da solo «Pinot Nero» vinificato in rosato, dal piacevole colore che ricorda il rosa salmone, le sue note olfattive ricordano il melone, le pesche bianche e tra i fiori il geranio, morbido e fresco in bocca, è un vino elegante.

    L’ Oeil de Perdrix è un vino da bere giovane e potrebbe accompagnare tutto un pasto, ma noi lo raccomandiamo con piatti un po’ esotici, provatelo con il pollo al curry.

    / Davide Comoli

  • Profonda, fertile, povera, argillosa, vulcanica

    Bacco giramondo – Continua il viaggio alla scoperta dei vini della Campania – Seconda parte

    In Campania le aree adatte alla viticoltura si trovano un po’ ovunque, grazie ai terreni sciolti, profondi e fertili, ricchi di ferro, sabbia, argille e scorie vulcaniche. Anche l’ottima base ampelografica, la perfetta esposizione, gli inverni miti, le estati tiepide, le piogge concentrate nei periodi autunnali e il clima temperato, rendono naturale la diffusione della viticoltura in tutta la regione.

    Possiamo quindi affermare, senza timore di essere smentiti che, oltre alle splendide isole e le zone intorno al Vesuvio, anche il vino ha la sua parte nell’attirare in Campania migliaia di appassionati intenditori di questa bevanda.

    Oltrepassato il confine con il Lazio, nella fascia costiera compresa tra Formia, Mondragone e Sessa Aurunca, entriamo in provincia di Caserta, nella zona di produzione del Falerno del Massico; nome che ricorda il famoso vino prodotto nell’antichità, sebbene nessuno può dire quanto del vecchio ci sia in quello prodotto oggi. Noi possiamo al massimo affermare che comunque quello provato da noi a Caianello, prodotto in prevalenza con Aglianico e Primitivo e gustato con il classico «capretto con piselli all’uovo» non verrà certo dimenticato.

    Sta crescendo pure l’interesse per l’Alto Casertano nei dintorni di Caiazzo, dove viene coltivato il Pallagrello Bianco, che con le sue note aggrumate è l’ideale compagno per il polpo e le patate al forno.

    Riprendendo la strada verso Napoli, facciamo sosta a Caserta per visitare la famosa Reggia eretta dal Vanvitelli, dove nei pressi gustiamo un ottimo Asprinio vinificato con il metodo Martinotti, gustando, e dove se non qui, l’immancabile «Pizza». In provincia di Napoli, le aree più interessanti per la viticoltura sono quelle sulle colline litoranee, in particolare quelle dei Campi Flegrei, della penisola Sorrentina – dove i terreni sono ricchi e profondi, e i vigneti nell’area dei Monti Lattari sono a terrazze –, del Vesuvio, delle isole di Capri, Ischia e Procida.

    Nell’area di Napoli, le varie tipologie di terreni donano realtà vitivinicole differenti, Falanghina Piedirosso, dai quali si ottengono vini freschi e moderati, ma di modesta struttura: vengono coltivati nelle sabbie silicee dei Campi Flegrei.

    A Capri la vite (piccola produzione) viene allevata a pergola o spalliera, in loco si produce una Falanghina di media struttura, da bersi con un’estiva «insalata di vermicelli». Nell’isola di Ischia i terreni in genere sono lavici e tufacei, i vigneti si trovano in zone scoscese del vulcano spento Epomeo (788 m). Ischia fu probabilmente la prima colonia greca VII a.C. durante le loro peregrinazioni nel Mediterraneo, a cui diedero il nome di «Pithekoussai» (isola dei grandi vasi di terracotta) e gli Eubei che la colonizzarono portarono senza ombra di dubbio la viticoltura. I vitigni più coltivati sono per quelli a bacca bianca il Forastera e il Biancolella, per i rossi il Piedirosso: indimenticabile questo vino che annaffiò il nostro «coniglio all’ischitiana» in una lontana Pasqua.

    L’Irpinia, in provincia di Avellino, esprime tre eccellenze in campo enologico, il Fiano d’Avellino, il Greco di Tufo e il Taurasi.

    Situati sulla media collina i vigneti del Fiano sono formati da argille ricche di fosforo e potassio. La zona eletta per la sua produzione è quella del Lazio: lo consigliamo da bere un po’ maturo, magari con una «frittata di friarelli» con abbondante formaggio grattugiato, oppure alla famosa minestra maritata, dove alle carni di maiale e gallina, vengono aggiunte sette differenti erbe.

    Il Greco di Tufo è prodotto nel cuore dell’Irpinia, dove troviamo miniere di zolfo e cave di tufo, è un vitigno che matura in ottobre, dona dei vini sapidi con sentori di ginestra e fiori di sambuco, con un piacevole retrogusto di nocciola tostata, da provare con dei crostacei.

    La zona del Taurasi comprende diciassette comuni (tra cui Taurasi). Qui la vite viene coltivata a spalliera bassa, e il vino prodotto è considerato uno dei migliori vini prodotto nel mezzogiorno d’Italia, è frutto del vitigno Aglianico (almeno 85 per cento), il quale è un vitigno originario della Magna Grecia: il suo nome deriva dalla volgarizzazione del termine «ellenikon». Prima di essere commercializzato deve obbligatoriamente invecchiare tre anni di cui uno almeno in botte, 4 anni e almeno 18 mesi in botte per la «Riserva». Questo vino ha un colore rubino intenso tendente al granato, con note di ciliegie, fragole e in opposizione cuoio e spezie amare. È un vino molto complesso, da abbinare a piatti di carne a lunga cottura.</p

    Prima di scendere verso Salerno, risaliamo verso la provincia di Benevento, dove si producono quasi la metà dei vini della regione e si nota una notevole trasformazione a livello qualitativo, ne è testimone la D.O.C.G. Aglianico del Taburno. Qui ci troviamo alla confluenza del fiume Isclero nel più conosciuto Volturno, dove il monte Taburno (1394 mslm) domina la vallata circostante e la cittadina di Dugenta, dove vengono coltivati pressoché tutti i vitigni campani. Qui è nata la D.O.C. Sannio, dove abbiamo provato l’autoctono Sciascinoso, vino da bere giovane, con profumi intensi di prugna e mirtillo, abbinati a «salsicce di bufalo»; pasto per digerire il quale ci siamo fatti aiutare dal liquore «Strega» prodotto in queste zone.

    In provincia di Salerno incontriamo la D.O.C. più meridionale della Campania; è un’area vastissima e variegata, con terreni poveri a sfondo argilloso e privi di materia organica. La vite viene coltivata nel territorio sud-ovest nelle vicinanze del fiume Calore. Dal punto di vista qualitativo troviamo la D.O.C. «Costa d’Amalfi» con i 13 comuni della costiera, dove il Biancolella e la Falanghina da bere con «spaghetti con la colatura di alici di Cetara», caratterizzano il vino bianco, mentre il Piedirosso, l’Aglianico e il Sciascinoso, il rosso.

    Scendendo più a sud, troviamo nel grande Parco del Cilento la D.O.C. omonima e gli otto comuni che producono la D.O.C. San Lorenzo, dove abbiamo concluso il nostro viaggio bevendo un fresco rosato prodotto con uve Barbera/Sangiovese, con un saporito «vermicelli marechiaro»: frutti di mare, gamberi, pomodori freschi, aglio, pepe e prezzemolo.

    /Davide Comoli

  • Plinio, il primo enologo

    Bacco giramondo – Lo scrittore comasco dedicò ben venticinque capitoli della Naturalis Historia alla viticoltura e al vino, più qualche altra annotazione sparsa qua e là

    Nei nostri articoli citiamo (e citeremo) spesso il nome di Plinio il Vecchio. Certo è che questo famoso personaggio dell’antichità non ha bisogno di presentazione, ma pensiamo che in questa nostra rubrica dedicata al vino, bisogna conoscere meglio quest’uomo dai molteplici interessi. Per questo non ci pare giusto non spendere qualche parola per chi alla vite, al vino, alle tecniche di vinificazione e affinamento ha dedicato addirittura un intero libro della sua monumentale opera, la Naturalis historia.

    Gaius Plinius Secundus, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio, per meglio distinguerlo dall’altrettanto celebre nipote Plinio il Giovane (61-113 d.C.), illustre letterato sotto l’impero di Traiano, nacque a Como nel 23 d.C.; al termine di una brillante carriera militare amministrativa, nel 79 fu nominato ammiraglio della flotta imperiale di stanza a Capo Miseno.

    Con la sua vasta cultura, spaziò in tutti i campi del sapere, lasciandoci la testimonianza nella più vasta e completa opera enciclopedica dell’antichità. Nei suoi 37 libri, l’opera affronta tutti i temi che a quell’epoca presentavano interessi scientifici. Partendo dal II libro con la cosmologia, prosegue con la geografia fisico-politica, le scienze naturali, la zoologia e la botanica, la medicina e la farmacopea per concludere nel 37esimo libro con le pietre preziose. Nel primo libro, con geniale intuizione, Plinio compilò per ciascuno dei 36 argomenti i vari indici, inserendo anche le relative fonti.

    Coerente sino alla morte a una vita interamente dedicata alla scienza, fu certamente la vittima più illustre dell’eruzione del Vesuvio che nel 75 d.C. distrusse e sommerse con la lava Ercolano, Stabia e Pompei. Plinio infatti accorse con le sue navi nel generoso tentativo di salvare i superstiti, ma anche con la curiosità di vedere da vicino quello straordinario fenomeno della natura.

    I 25 capitoli riguardanti in modo specifico la viticoltura e il vino, li troviamo nel XIV libro, ma l’argomento peraltro non è esaurito in quella sede. Nel libro VXII infatti tratta dell’arboricoltura, e descrive dettagliatamente i problemi relativi all’esposizione delle vigne, all’innesto, ai metodi di coltivazione e alle malattie delle piante.

    Mentre si rimanda al XVIII libro, l’elenco degli usi medicinali della vite e dei suoi derivati, naturalmente vino compreso.

    Lo spazio che Plinio dedica alla vite è molto: perché? Lo spiega lui stesso: «rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dare impressione con questa risorsa di aver superato le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo. Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore» (N.H. XIV, 2).

    Nella sua opera, Plinio ha trattato pochi altri temi con altrettanta dovizia e cura. Nessun dubbio sull’importanza del vino da parte dell’autore, a cui si attribuisce addirittura lo sviluppo dell’umanità, che lui stesso evidenzia: «Noi uomini dobbiamo al vino la prerogativa di essere i soli esseri viventi che bevono senza avere sete» (N.H. XXIII, 23).

    Il libro dedicato alla viticoltura è da sempre sul nostro comodino, le sue pagine si leggono con molto interesse, in primis perché ci fanno conoscere il punto in cui all’inizio della nostra era si trovava la conoscenza nel campo enologico e poi perché contengono molte curiosità e una serie di vivaci annotazioni.

    Ad esempio, Plinio cita l’anno «magico» del vino, che continuava ed essere il 633esimo dalla fondazione dell’Urbe (per noi il 121 a.C., anno in cui era Console Lucio Opimio, i cui vini erano diventati i leggendari «opimiani»). Annata della quale ancora sul finire del I sec. d.C. si consumavano i vini «vecchi di quasi duecento anni e ormai trasformati in una sorta di miele amaro» (N.H. XIV, 55).

    Sui quali vini era lecito peraltro lasciarsi andare alle più bizzarre stranezze, come quella nel celebre banchetto di Trimalcione, descritto nel Satyricon di Petronio (50-60 d.C. circa), in cui vengono servite «anfore di cristallo accuratamente sigillate che portano etichette con la scritta Falerno Opimiano di cento anni».

    Nel XIV libro non può non stupire il lungo e dettagliato elenco delle varietà di viti già allora conosciute e presenti nella Penisola. Tra le più diffuse Plinio cita: la vite Aminea, le Nomentane, le Apiane, le Murgentine. Queste le principali e poi vengono elencate l’Albano, il Barino, il Cecubo, il Formiano, il Mamertino, ma sono moltissimi i vini che l’autore elenca nel suo XIV libro e magari in futuro li descriveremo. Addirittura, Plinio arriva a stilare una classifica che oseremmo dire potrebbe imbarazzare qualche esperto dei nostri giorni.

    Al primo posto pone il Cecubo, prodotto nei pressi di Terracina, poi viene il Falerno, prodotto da viti allevate sulla fascia tra Lazio e Volturno; seguono i vini dei Colli Albani a pari merito con quelli della costa sorrentina. Alla fine del lungo elenco con grande saggezza Plinio scrive: «Non c’è dubbio che ad alcuni piacciono più certi tipi di vino, ad altri, altri vini e che di due vini provenienti dallo stesso tino, uno migliore, superi in qualità l’altro, per quanto affine, grazie al recipiente che lo contiene, ovvero a circostanze casuali. Motivo per cui ognuno proclamerà sé stesso giudice del vino migliore». Al termine della sua approfondita dissertazione, Plinio, individuando per primo (2000 anni or sono!) l’importante ruolo del terreno, scrive: «(sul vino) influiscono la regione e il tipo di terreno, non l’uva, è quindi inutile voler enunciare tutte le specie perché una vite dà risultati diversi secondo i luoghi».

    Sempre dal XIV libro, apprendiamo curiosità interessanti, scopriamo infatti che fu Giulio Cesare il primo, all’epoca del suo terzo consolato, a servire audacemente durante un banchetto 4 tipologie diverse di vino: il Falerno e il Mamertino, di provenienza italica, e il Lesbio e il Chio, vini greci (N.H. XI, 97). Sotto l’impero di Tiberio (42 a.C.-37 d.C.), nacque invece la moda di bere a digiuno «e di far precedere di preferenza il vino alle vivande, procedura anche questa straniera e caldeggiata dai medici che si distinguono sempre per qualche novità» (N.H. XIV, 143).

    Per meglio mettersi in mostra a Tiberio (successore di Augusto), un certo Novello Attico da Milano, proconsole della Gallia Narbonense, divenne famoso per aver ingollato quasi d’un fiato, al cospetto dell’imperatore, tre corgi (= 10 l) di vino; al bevitore valse l’inequivocabile soprannome di «Tricorgius».

    Questa, onestamente, non la conoscevamo, ma grazie al capitolo 18 del XIV libro, veniamo ad apprendere che poco prima della battaglia di Azio (dove ne uscì sconfitto), Marco Antonio (sì, proprio quello di Cleopatra), rese pubblico un trattato scritto da lui sulla propria ubriachezza.

    Concludiamo, per gli interessati, dicendo che nel libro XXIII si parla delle virtù medicinali della vite e del vino in ben 23 capitoli degli 83 complessivi.

    Scelto per voi

    Le Chicche rare

    Pioniere del marchio «Vinatura», per contraddistinguere i vigneti che seguono i criteri della produzione integrata, Stefano Haldemann nel suo vecchio rustico a Gudo, che funge da cantina, imbottiglia vinificando in maniera separata vitigni rari quasi dimenticati. E lo fa raccogliendo su diverse parcelle, molte delle quali situate in zone alle volte ripide e impervie. Riservato e caparbio, Stefano continua a considerare il vino come un alimento accessibile a tutti, da qui la sua politica nel contenere i prezzi.

    Indimenticabile per noi un pomeriggio sotto il pergolato del suo rustico, trascorso a degustare la sua Bondola che profumava di ciliegie/amarene.

    La sua passione per i vitigni d’altri tempi lo ha portato a realizzare «Le Chicche rare»: più di venti vitigni dell’area Lombarda/Piemontese e qualche altro legato all’immigrazione in Francia, compongono questo vino tributo a «Pro Specie Rara».

    «Le Chicche rare» non è un vino da abbinare a piatti raffinati e ricercati, ma è un vino da bere assolutamente fresco 13°/14°, sulla terrazza nelle serate o nei pomeriggi d’estate, abbinato a piatti semplici della nostra cultura contadina. Il suo profumo farà tornare bambini molti di noi e ricordare le cantine dei nostri nonni.

    / Davide Comoli

  • «Campania Felix»

    Bacco giramondo – Una piacevole rassegna sui vini di questa regione italiana – Prima parte

    Affacciata sulla costa del Mar Tirreno la Campania è una regione dal territorio piuttosto eterogeneo, con le aree interne decisamente montuose, alle quali seguono in direzione ovest aree collinari e pianeggianti, fino a raggiungere la fascia costiera che scivola nel mare, dal quale emergono alcune isole di una certa estensione come Capri, Ischia e Procida.

    Ricco in genere di acque, il territorio campano è molto fertile e accoglie diverse colture agricole, tra le quali un posto di assoluto primo piano è quello ricoperto dalla vite, la quale ha scritto pagine indimenticabili nella storia della produzione del vino con nomi che sono rimasti indelebili nella memoria degli uomini come il Falerno, il Cecubo, il Caleno e altri ancora. Il nome Campania apparve nel V sec. a.C. e servì a designare il fertile territorio intorno a Capua, «l’ager campanis».

    Dal punto di vista storico-vinicolo, la zona più interessante della Campania è situata tra il monte Massico e il fiume Volturno. Molto probabilmente la coltivazione della vite in questa regione è antecedente al XII sec. a.C., quando prima gli Etruschi dal nord e dal centro, in seguito i Greci via mare, cominciarono a insediarsi in queste terre, dove trovarono popolazioni che già conoscevano l’arte della viticoltura: a loro fu sufficiente migliorare le tecniche di vinificazione e di coltivazione. Ne conseguì un’estensione della coltura di vitigni di grande pregio, tanto che più tardi, in età romana, i vini della «Campania Felix» allietavano le mense dei senatori e patrizi romani, ed erano considerati tra i più rinomati di  quell’epoca. Lo spazio tiranno non ci permette di parlarvi di questi vini, ma ci riserveremo il piacere di descriverli in altra sede.

    La caduta dell’Impero Romano e l’inizio del Medioevo vedono una crisi profonda dell’agricoltura, comune peraltro a tutta la Penisola. Intorno al X sec. d.C. si riscontra un certo risveglio: nel 1529 Sante Lancerio dà un quadro eccezionale dei vini campani citandone nella sua opera I vini d’Italia, ben 53 e quasi nello stesso anno Giovanni Battista Della Porta nel suo Villae Libri XII evidenzia la fiorente viticoltura campana. Con il sec. XVII, il panorama vinicolo si modifica e inizia un certo declino con la prevalenza di alcuni vitigni su altri.

    Solo verso la fine degli anni 70 del secolo scorso si ha un cambio di tendenza e nell’ultimo decennio la Campania sembra voler riprendere il ruolo di leader qualitativo della produzione vitivinicola che fu sua nei secoli passati. La varietà dei terreni e dei climi che questa regione offre determinano anche una straordinaria moltitudine di tipologie di vini e di caratteristiche organolettiche, anche nei vini che derivano da analoghi vitigni.

    Il vigneto campano si estende per ca. 24’000 ettari, i sistemi di allevamento più diffusi sono il guyot e il cordone speronato, ma resistono forme più antiche (l’Italia è la nazione al mondo con più forme differenti d’allevamento al mondo, Etruschi, Greci e Romani, hanno lasciato le loro tracce). Troviamo quindi la pergola e l’alberello, senza dimenticare l’alberata aversana, nella quale le viti si arrampicano su filari posti tra 2 pioppi, con i grappoli che si possono trovare fino a 15 m dal suolo. Probabilmente è la particolare conformazione dei terreni uno dei motivi dell’eccezionale varietà di vitigni autoctoni: sono più di 100 quelli riconosciuti, la maggior parte a bacca bianca, che danno una produzione estremamente frammentata.

    Questa valanga di vini, provenienti da zone differenti, trovano il giusto matrimonio con i piatti della cucina campana, considerata una tra le più salubri della gastronomia italiana, forse l’emblema della cucina mediterranea, ricca di colori e di profumi, in grado di regalare sensazioni saporose, sia con i piatti di terra che di mare.

    Andiamo quindi a conoscere qualcuno di questi vitigni allevati nel vigneto campano. Tra i vitigni a bacca bianca spicca la Falanghina: il nome viene associato a due «diversi vitigni» la Falanghina dei Campi Flegrei che dà vini delicati da bere giovani e la Falanghina del Sannio, i cui vini hanno più struttura e sono più longevi.

    Un altro vitigno interessante è il Greco, le cui uve maturano in ottobre e donano vini da bere in gioventù, ricchi di profumi fruttati e floreali (biancospino-gelsomino), ma notevoli soprattutto al gusto, con spiccata mineralità.

    Il Fiano è un vitigno che matura verso la fine di settembre, con le sue uve si ottengono vini molto interessanti, soprattutto a livello olfattivo, donandoci sensazioni di straordinaria complessità. Il Coda di Volpe deve il suo nome alla forma del grappolo, utilizzato spesso in uvaggio con la Falanghina; viene, soprattutto nella provincia di Benevento, vinificato in purezza e dona vini morbidi e di corpo. L’Asprinio è un vitigno antichissimo, già il nome dice tutto sulla sua acidità, questa sua particolarità lo rende adatto alla produzione di vini spumanti piacevolmente profumati.

    Il Pallagrello Bianco, regala note aggrumate e di frutta esotica ai vini in cui viene usato come uvaggio. Andremo prossimamente alla scoperta delle zone dove questi vitigni vengono allevati, in modo da conoscere meglio questa regione che racconta storie di civiltà millenarie.

    Tra i vitigni a bacca nera il più diffuso è l’Aglianico, che ha nella tannicità e nella potenza le migliori prerogative del vino prodotto, che possono essere diverse a dipendenza dell’ambiente pedoclimatico e che per la sua complessità ha pochi eguali nel panorama enologico.

    Il Piedirosso, chiamato localmente «Per’ e Palummo» (piede di colomba) per il colore rossastro della parte alta del raspo, è l’uva più diffusa nella provincia di Napoli, soprattutto nelle isole, il vino prodotto esprime profumi di frutti a bacca rossa (ciliegie) con tannini delicati.

    Altri autoctoni sono il Pallagrello Nero, il Casavecchia, la Guarnaccia il Tintore e lo Sciascinoso, che rappresentano ottimi complementari per la produzione di vini ottenuti dalle uve più coltivate. Soprattutto in provincia di Salerno troviamo anche il Merlot, il Sangiovese e il Cabernet Sauvignon.

    Scelto per voi

    Rosato Alghero

    Con i suoi quasi sette milioni di bottiglie prodotte, Sella & Mosca è la più grande realtà produttiva della Sardegna. Negli ultimi anni ha conosciuto un’importante crescita qualitativa, focalizzata soprattutto su bianchi prodotti con uve tradizionali, ma il grosso della produzione è rappresentato da vini rossi. Oggi per voi abbiamo scelto il Rosato Alghero, prodotto con la vinificazione in rosato delle uve Sangiovese e vitigni autoctoni. È un «blend» dal colore rosato buccia di cipolla, fragrante e delizioso, dai profumi di lamponi, mele e petali di rose, con un’intrigante intreccio aggrumato e un nonsoché di profumo di mare. Al palato è salino e fresco con un finale lungo e piacevole. Il Rosato Alghero è un ottimo vino da usare come aperitivo per le prime tipiche serate all’aperto, ottimo con pomodori e melanzane gratinate, Caesar salad con pollo e noi lo consigliamo con brodetti o zuppette di pesce. Provatelo con una «zuppa di vongole o cozze» dove entrano i pomodori, aglio, prezzemolo, olio extravergine d’oliva e fette di pane abbrustolito.

    / Davide Comoli

  • Magister bibendi, il cerimoniere

    Abbandonando il ruolo di moderatore nei dibattiti filosofici che aveva nel symposion greco, rimane la figura del «simposiarca» che però a Roma si chiama Magister bibendi, che tende ad assumere in modo più marcato il profilo di vero e proprio antenato del sommelie

    Come nella lingua greca, dove vengono usati due distinti termini: àeraton per il vino puro e òinos per la bevanda a cui era stata aggiunta acqua, anche nella lingua latina, durante la cerimonia di preparazione del vino da servire, troviamo due voci diverse. Merum era il vino puro, derivato dalla vendemmia e conservato in anfora, vinum era invece la bevanda che miscelata con acqua, veniva servita a tavola. E come accadeva presso i greci, sulle tavole di Roma, nessuno beveva del merum senza allungarlo con l’acqua a meno che l’annata fosse stata funestata da piogge torrenziali e quindi il mosto che ne usciva, dato la povertà delle uve, era già stato allungato in cantina (Marziale ep. 1,56).

    L’acqua con cui tagliare il merum doveva essere di ottima qualità, e a questo punto vorremmo far notare ai lettori come nessun popolo abbia mai avuto a disposizione giornalmente tanta acqua quanto i romani, soprattutto in epoca imperiale, si parla di ca. 1000 l al giorno per cittadino. Ci permettiamo di citare i principali acquedotti che fornivano Roma: Aqua Appia (312 a.C.), Anio Venus (272 a.C.), Aqua Marcia (146 a.C.), Aqua Julia (35 a.c.), Aqua Virgo (22 a.C.), Aqua Claudia e Anio Nova (38-52 d.C.), volute da Caligola e da Claudio.

    Il merum che saliva dalle cantine contenuto nelle anfore di una forma che potevano essere trasportate per mano o nei pithoi di dimensioni più piccole. In media erano dei contenitori della capacità di 20-30 litri, resi impermeabili con strati di pece o resina, spalmato sulle pareti interne, dai quali al momento del consumo, il merum veniva travasato in recipienti da tavola filtrandolo con appositi colini. Il travaso era una vera e propria cerimonia e come tale veniva celebrata dal magister bibendi, e vissuta dai commensali che assistevano. Era insomma l’occasione, come succede oggi in certe degustazioni, per esibire un po’ di teatro.

    La filtrazione era molto importante, non solo per separare il liquido dalla feccia, che nel tempo si era andata a depositare sul fondo dell’anfora, ma anche per eliminare i frammenti di pece o resina che si erano eventualmente staccati dalle pareti interne, ed anche perché a quel tempo non esistevano i tappi né cavatappi, aprendo quindi la bocca dei contenitori si doveva per forza far cadere all’interno dello stesso dei pezzetti di argilla, calce o ceralacca con cui erano state tappate.

    Il magister bibendi su di una tavola attingeva da un’hydria l’acqua, versandola in dosi che reputava giuste in un «cratere» mischiata al merumpreparando così il vinum. Sul pianale c’erano pure delle ciotole contenenti miele per addolcire il vinum e diversi aromi vari come il finocchio selvatico, farina di mandorle, origano, artemisia, ecc., inoltre c’era una serie impressionante di mescoli e altri colini. La preparazione del vinum da parte del magister bibdendi, potrebbe essere paragonata alla performance fatta da un abile sommelier dei giorni nostri, durante la decantazione di un vino maturo.

    Una volta completata e resa omogenea la miscela, la si poteva attingere direttamente dal «cratere» oppure servito in un oinoche, per mezzo di uno schiavo detto minister vini, che lo versava nei vari vasi potori.
    In ogni banchetto era presente un arbiter costui stabiliva la quantità d’acqua da aggiungere. Lo faceva per evitare che una ubriacatura collettiva facesse degenerare il convivio. L’arbiter veniva scelto di volta in volta tra i commensali, ma siccome aveva l’obbligo di restare assolutamente astemio, di certo possiamo affermare che la carica non fosse molto appetita. Andò che alla fine si decise di affidare la designazione ad un sorteggio per mezzo di dadi.

    Simile al nostro bicchiere era il poculum, all’inizio di legno o di terracotta e più tardi di metallo o vetro. Molto usato per il vino era anche lo scyphus, una coppa fornita in anse. Per i raffinati c’era la phiala, una piccola coppa senza anse, ma in argento o addirittura in oro, un po’ meno popolare e meno larga della «patera», usata più che altro in ambito liturgico. Il calix spesso fornito di anse, era molto simile alle odierne (un po’ passate di moda) coppe per il moscato, ed è entrato a far parte della liturgia cristiana, così come il ciborium, una coppa modellata sul baccello di un frutto proveniente dall’Egitto (colocasia). Di capacità superiore al calix era il canthàrus (che era attribuito a Dioniso nelle varie raffigurazioni) ed era una coppa su un piede elevato così come il carchesium, caratterizzato dalle grandi anse che dal bordo scendevano fino alla base. Inoltre c’erano il cymbium e lo scaphium, sorta di bicchieri dalla forma di barca, riservato ai vini più pregiati, per le fastose cerimonie liturgiche veniva usato il rhytium un corno ornato d’oro. Per la ristretta cerchia delle persone ricche, per bere venivano usate le diatretae, delicatissime coppe di cristallo.

    Senza la pretesa di formulare giudizi, ci sembra di poter arguire che la bevanda chiamata vinum sorseggiata dai romani (ne parleremo prossimamente in modo dettagliato), aveva ben poco in comune con il vino a cui si è abituato il nostro palato. Nell’85 d.C. a Roma nel Forum Vinarium (possiamo affermare che fu la prima Enoteca al mondo), si elencavano più di 155 vini di diversa provenienza. Nei giudizi del più conosciuto studioso di problemi agricoli dell’epoca Columella Lucio Giunio Moderato (Cadice I sec. a.C. – Roma I sec. d.C.), che ci ha lasciato un trattato che riveste enorme importanza «L’arte dell’agricoltura» sta scritto: «Siamo costretti a bere il vino delle Cicladi, delle contrade iberiche e della Gallia. L’agricoltura sta infatti decadendo proprio perché quel poco che si fa è affidato agli schiavi, grandi proprietari non si occupano di niente se non di gozzovigliare e i cittadini non amano più il lavoro della terra».

    Scelto per voi

    Sauvignon

    Le origini dell’Abbazia di Novacella risalgono al 1142, quando il vescovo Hartmann ne fece la sede dell’Ordine Agostiniano.

    Novacella è la zona vitivinicola più a settentrione d’Italia: sui pendii che circondano il complesso, da secoli le vigne regalano pregiate uve bianche vinificate nella cantina dell’Abbazia. Questa settimana abbiamo scelto per le vostre tavole questo profumatissimo Sauvignon.

    Il vino si presenta con un colore giallo paglierino e all’olfatto si percepisce un bouquet di rara complessità, con aromi erbacei-varietali. Si percepiscono infatti profumi floreali-fruttati che s’intrecciano a note minerali e spezie dolci.

    Al palato stupisce la sua freschezza avvolgente, supportata da una lunga persistenza gusto-olfattiva tipica dei vini di questa zona altoatesina. Visto il periodo raccomandiamo di abbinarlo alle varie preparazioni dove l’ingrediente principe è «l’asparago», ma anche sui vari sformati di prodotti dell’orto.

    / Davide Comoli

  • Da secoli terra di vino

    Bacco Giramondo – Cuore della cultura mediterranea, la Puglia è ideale per la viticoltura

    La collocazione strategica della Puglia rivolta a oriente ha influenzato nel bene e nel male lo sviluppo di questa regione. Se da una parte ha favorito i contatti con altre civiltà, l’ha però sottoposta a pericolose scorribande di invasori. I mercanti fenici, che sbarcarono in Puglia nel 2000 a.C. circa, apportarono l’introduzione di nuovi vitigni e tecniche di coltura più efficienti. Un ulteriore apporto simile lo dettero anche i coloni greci, molto probabilmente colti da meraviglia nel trovare lussureggianti vigne e buoni vini.

    L’occupazione romana trovò dunque un territorio dove la viticoltura donava vini sicuramente gradevoli, tant’è che furono lodati da Orazio che li paragona al Falerno, da Plinio che lodò in particolare i vini di Taranto, e dal poeta Marziale che esaltò i vini di quelle «felici vigne». Anche dopo la caduta dell’Impero Romano, la viniviticoltura pugliese non subì forti tracolli e addirittura, nel 1194, con l’illuminato regno di Federico II di Svezia (grande appassionato tra le altre scienze di viticoltura) furono favorite la sperimentazione e la diffusione di nuovi vitigni.

    Incessante fu nei secoli successivi l’attività vitivinicola che trovò addirittura un particolare impulso quando nel XIX secolo l’Europa viticola fu messa in ginocchio dalla devastazione fillosserica. Ma anche in Puglia, un po’ più tardivamente, nel 1919, si abbatté infine il terribile flagello: ci vollero decenni con un’instancabile attività da parte dei viticoltori per ripristinare l’antico patrimonio vitivinicolo. Negli anni Settanta iniziò la riscossa enologica della Regione. Con i suoi quasi 87mila ettari vitati (il 15% del totale italiano), oggi il vigneto pugliese si distribuisce anzitutto in pianura 70% e in collina 29,5%.

    Negli ultimi anni si sta diffondendo il sistema d’allevamento a spalliera, anche se soprattutto nel Salento e in qualche zona del Barese resiste l’alberello e, per l’uva da tavola, il tendone.

    È da qualche anno ormai che si sente parlare di rinascita o se preferite rivoluzione del vino pugliese, questa regione che rappresenta il cuore della cultura mediterranea, è il luogo ideale per produrre vino, senza dimenticare la produzione dell’olio extravergine di ottima qualità. Dal punto di vista ampelografico c’è una valorizzazione sempre più convinta dei vitigni autoctoni.

    Tra le varietà a frutto nero ricordiamo, il Negroamaro, il Primitivo (forse imparentato, ma la questione è controversa, con lo Zinfandel della California), la Malvasia Nera, il Bombino Nero, il Somarello, l’Aleatico e l’Ottavianello, l’Uva di Troia e poi i soliti internazionali con il Montepulciano d’Abruzzo e il Sangiovese.

    L’inserimento di vitigni internazionali, le tecniche in vigna e in cantina perfezionate nel corso degli anni, hanno portato una crescita qualitativa anche nella produzione di uve a bacca bianca, tra le quali citiamo la Malvasia Bianca, la Verdeca, il Bombino Bianco, il Trebbiano Toscano, il Pampanuto, il Fiano Minutolo che non ha nulla a che fare con il Fiano campano, ma su sfondo leggermente muschiato; sul vino prodotto, percepiamo note di fiori bianchi, camomilla, bergamotto e litchi, molto interessante da provare con le tipiche «orecchiette con le cime di rapa». Non dobbiamo però dimenticare soprattutto, per la loro finezza dei profumi e la loro fragranza, i vini Rosati. Dai primi rosati da Negroamaro Malvasia Nera prodotti nel 1943, oggi questi vini dai colori che passano dal cerasuolo al corallo, sono molto richiesti e sono spesso i protagonisti nei matrimoni con la cucina della Regione, fatta di gustosi piatti di terra e di mare, da provare con le «zuppe di pesce» sia a Gallipoli sia a Brindisi.

    Appena superato il confine con il Molise, si entra nella Capitanata (l’antica Daunia) che corrisponde alla provincia di Foggia. Qui troviamo denominazioni consolidate come quella di San Severo alla quale da non molto si è aggiunta la D.O.C. Tavoliere delle Puglie. Le due zone stanno molto valorizzando la varietà locale a bacca nera chiamata in loco Sumarello, ma a tutti conosciuta come Uva di Troia, usata per la produzione di ottimi rossi e rosati in purezza.

    Quasi alle porte di Foggia di Lucera, troviamo il Cacc’e Mmitte (leva e metti) prodotto con Uva di TroiaMontepulciano e altre varietà a bacca rossa, usando un’antica pratica di vinificazione; è un po’ raro da trovare, ma se avete la fortuna provatelo con formaggi come il «canestrato», il caciocavallo podolico o con un pecorino stagionato.

    Il comprensorio settentrionale della provincia di Bari è dominato dall’antico castello di Federico II. Il Castel del Monte è un’area degradante della Murgia. I vini rossi più longevi e più complessi nascono da Uva di Troia e Aglianico, oppure da un «blend» tra una di queste varietà con il Montepulciano. Da provare pure l’ottimo rosato prodotto con il Bombino Nero, come pure i vari bianchi prodotti con Bombino BiancoPampanuto e i vari ChardonnayPinot Bianco e Sauvignon Blanc. Se potete, fermatevi poi a Trani a gustare il Moscato dolce dai profumi di zagara.

    Nella parte inferiore della Murgia Centrale, troviamo le D.O.C. GravinaGioia del ColleMartina Franca e Locorotondo (sempre in provincia di Bari), i vini più prestigiosi sono prodotti con il Primitivo che dona prodotti molto eleganti. Nella I.G.P. Murgia e Valle d’Itria, che si trova a cavallo tra le province di Bari, Taranto e Brindisi, con i vigneti VerdecaMalvasia BiancaMinutoloBianco d’Alessano, si producono gradevolissimi vini bianchi da abbinare alla classica «burrata» pugliese.

    Nelle soleggiate terre intorno al Golfo di Taranto, il Primitivo tocca vette di assoluto rilievo; a Manduria antichi ceppi di questo vitigno offrono vini imperdibili, ottimo con il «capretto al rosmarino» e se volete deliziarvi, provate pure il Primitivo di Manduria Dolce Naturale, con «fichi secchi mandorlati ricoperti di cioccolato fondente».

    Passando attraverso le Colline Joniche Tarantine si arriva nel Salento, a Salice Salentino, con le uve di Negroamaro lasciate sovra-maturare nella vigna, per donare la tannicità del vino prodotto, abbiamo gustato vini eccellenti. Qui nell’Alto Salento la terra è votata in modo particolare alla viticoltura, siamo in provincia di Brindisi e la Malvasia Nera con il Primitivo e il Susumaniello, per i vini rossi e rosati, la Malvasia Bianca, il Fiano, il Minutolo, per i bianchi, offrono un ventaglio eccezionale di degustazione.

    Non lasciate questi luoghi senza aver provato lo «strudel di ciliege» con l’Aleatico dolce. Nel Basso Salento, in provincia di Lecce, il Negroamaro regna incontrastato; ottimi pure i vini bianchi prodotti con vitigni locali, il Sauvignon e lo Chardonnay, da provare con piatti che trovate sulla costa a sud di Gallipoli, dove la gastronomia profuma di sapori mediterranei.

    Scelto per voi

    Scalandrino – Vermentino

    In provincia di Grosseto troviamo la Maremma per eccellenza, accogliente angolo di natura da scoprire, con la sua campagna suggestiva e dai suoi paesi in tufo. A Magliano in Toscana (località Banditaccia), troviamo la fattoria Mantelassi, all’interno di un paesaggio costellato di ulivi e vigneti.

    Accanto ai vini classici che riescono a esprimere un’idea precisa del territorio, qui troviamo lo Scalandrino, un Vermentino della Maremma. Fermentato in botti di rovere 4/6 settimane, è di un giallo paglierino intenso. Fragrante e molto fruttato, con note di pesca bianca, frutta esotica e accenti di pietra focaia, fresco, dal gusto salino, di buon corpo e vogliamo aggiungere di «pericolosa» bevibilità, da continuare a berne.Lo raccomandiamo per accompagnare un’insalata di mare o un risotto alla marinara; noi l’abbiamo provato con una frittura di mare, una meraviglia!

    / Davide Comoli

  • L’antica Roma, tra divieti e trasformazioni

    Vino nella storia – Nell’Urbe, dove la donna per molti anni avrà la proibizione di bere il nettare di Bacco, il ruolo di questa bevanda si trasforma da scioglilingua a piacere per il palato – Prima parte

    Racconta Catone il Censore (234-149 a.C.) autore di Liber de agri cultura, che nella Roma dei tempi di Romolo, i mariti potevano far valere sulle mogli il cosiddetto «ius osculi», il diritto del bacio. Il singolare privilegio aveva ben poco di romantico e non era di certo il preliminare di una qualsivoglia forma di approccio a scopo sessuale. In modo molto più prosaico si trattava di un controllo sul contenuto della cantina, dal momento che un bacio sulla bocca della moglie costituiva il modo più semplice per accertarsi se ci fosse stata violazione di uno dei divieti più rigorosi imposti dalla legge di Roma alle sole donne: vietato bere vino.

    Oggi ci scappa un sorriso pensando a quell’usanza, ma la cosa è più seria di quanto potrebbe sembrare, perché accertata la violazione le conseguenze erano molto spiacevoli. Plinio, il Vecchio, nel suo Naturalis Historia (Liber XIV – 1313) riporta: «La moglie di Egnatius Metellus, per aver bevuto vino da una botte, fu uccisa a bastonate dal marito, che Romolo assolse dall’imputazione di assassinio». E ancora Plinio ci informa che in tempi meno sanguinari «il giudice Gneo Domizio (192 a.C.) sentenziò che una donna aveva bevuto, all’insaputa del marito, più di quanto richiedesse il suo stato di salute e la condannò all’ammenda della sua dote». Che era pur sempre una grande legnata per la poveretta.

    Per assurdo che possa sembrare ai giorni nostri, quella legge era stata suggerita da problemi reali, facili peraltro da decifrare. Ai tempi della fondazione di Roma (754 o 753 a.C.), i luoghi in cui sarebbe sorta l’Urbe, erano una zona popolata da pastori, con un’agricoltura quasi inesistente. Per questo la vite, nel suo lungo cammino verso il nord della Penisola, aveva «saltato» la regione, installandosi invece in Etruria.

    Quando più tardi l’insediamento fondato da Romolo si era sviluppato lungo il corso del Tevere e aveva assunto l’aspetto di una città, il vino era considerato un bene che poteva, tramite l’importazione, essere usato con parsimonia. Così ci informa Plinio: «che Romolo libasse con il latte e non con il vino».

    Il vino nell’Urbe, come bene corrente arrivò solo in un secondo tempo nei bagagli di Numa Pompilio, etrusco e secondo re di Roma (715-672 a.C.) che oltre i campi volle che una vite, un fico e un olivo, fossero piantati come gesto simbolico nella piccola piazza che sarebbe diventata il Foro.

    Peraltro al frutto della vite, la Roma delle origini, dovette qualche dispiacere, infatti in poco più di cent’anni, l’area dei sette colli era stata occupata con grande facilità almeno due volte. La prima dalle armate dell’etrusco Porsenna e poi dai Galli di Brenno, il quale ai romani che timidamente mercanteggiavano, oppose il ferro della sua spada e l’inesorabile: «Vae victis!» (Guai ai vinti!). Quella volta gli dèi dell’Olimpo chiusero un occhio mandando Furio Camillo, che sopraggiunse mentre i Romani stavano pagando i tributi e che «con il ferro e non con l’oro» riuscì a salvare la patria. Ma torniamo al vino: con l’andar del tempo perfezionarono i loro sistemi di viticoltura e diventarono maestri anche nella sua produzione.

    Tutto è narrato con meticolosità dai vari Catone, Varrone, Columella, Plinio, solo per citarne qualcuno. Da notare però che anche in momenti più tecnicamente avanzati, la vendemmia e la pigiatura mantennero sempre il carattere di una solennità religiosa, dove il mistero della fermentazione conferiva sacralità al vino. Alla vite e alla viticoltura, erano preposti alcuni «dèi minori»: la dea Puta presiedeva alla potatura e il dio Termine presiedeva ai paletti che delimitavano le vigne, mentre ovviamente Bacco (Dioniso) per i latini, era a capo di tutto.

    Il vino incominciò a circolare in abbondanza sulle mense di Roma, al punto che la città arrivò a dotarsi di un «portus vinarius» (visitate Ostia antica) per l’arrivo e lo stoccaggio dei vini e di un «forum vinarium» per le contrattazioni. Da notare comunque che il commercio di vini restò in mano a quegli abili commercianti che erano gli Etruschi, come testimonia un’iscrizione del 102 a.C., la quale ha consentito di identificare i resti di un «magazzino del vino», in prossimità del Lungotevere della Farnesina, denominato «Cellae Vinariae Nova et Arruntiana»: il termine «Arruntiana» indica il nome Arrunte, di un certo etrusco che ne era il proprietario.

    Si andava affinando anche il palato dei consumatori e di conseguenza i vini venivano collocati in una graduatoria che ne riflettevano le qualità e più ancora i dettami della moda. Così pur avendo vigne sulle porte di casa, e cioè lungo le pendici dei Colli Albani, i gusti di Roma si orientavano piuttosto su vini prodotti e provenienti dalle isole dell’Egeo o dalle campagne della Magna Grecia.

    Questo, senza ombra di dubbio dimostra ancora una volta l’importanza che ebbe il vino nella società romana e greca.

    Anche la copiosità di vasi, anfore, brocche, crateri, mestoli, colini, coppe e ciotole, mantengono le stesse funzioni con gli stessi nomi greci. I musei ne sono pieni, testimoni del culto per la tavola.

    Quello che però ci colpisce è che a Roma sparisce il «symposion» inteso come incontro finalizzato al piacere di bere e conservare. Il vino non è più considerato soltanto come un mezzo per meglio stimolare la lingua e il cervello e neanche la conversazione libera e disinvolta. Nell’Urbe si mangia e si beve (come si fa oggi) senza secondi fini, per il solo piacere della gola e il poter partecipare a un rito collettivo.

    Il vino scorre a fiumi, ma non è più con una finalità «parafilosofica», ma alimentare, dove la figura del «simposiarca» a Roma si chiamerà «magister bibendi».

    Scelto per voi

    Triade

    Sulla sponda del fiume Ticino, sulle prime pendici del Ceneri che sovrastano la piana di Magadino, Davide Ghidossi, laureato a Changins, continua l’opera iniziata dal padre Gianfranco. Con grande passione, con uve provenienti da Cadenazzo, ha prodotto l’ottimo vino che vi presentiamo questa settimana.

    Triade è un vino affinato in barriques di secondo passaggio per 16 mesi. Tre sono i vitigni vinificati separatamente che lo compongono (da qui il nome), il Merlot, principe dei nostri vigneti, il Diolinoir (Robin Noir x Pinot Noir) e Gamaret (Gamay x Reichensteiner). L’unione dei tre vini ci dona un prodotto ricco di colore e di corpo, mentre i ricchi profumi di bacche rosse arricchiscono il Triade, con note speziate che restano a lungo nelle narici: caldo e piacevolmente fresco, dai tannini presenti e setosi. Lungo è il suo finale in bocca e per la sua struttura può rimanere qualche anno nella vostra cantina. Noi però lo vogliamo bere in questo periodo, come accompagnamento al «capretto nostrano» al forno o con delle costolette d’agnello al timo e rosmarino.

    / Davide Comoli

  • Dal più nobile dei vini siciliani

    Bacco giramondo – Marsala, Malvasia delle Lipari, Grillo, Mozia, Zibibbo, Frappato, Nero d’Avola e tanti altri – 2a parte

    Negli ultimi due decenni, la vitivinicoltura sicula ha fatto passi da gigante; un ruolo importante, oserei dire determinante, è stata l’introduzione dei vitigni internazionali, che magari in uvaggio con i vitigni tradizionali dell’isola hanno ridato nuova linfa alla produzione vitivinicola.

    Per chi non conosce l’isola consigliamo di seguirci in questo ipotetico percorso per meglio conoscere le zone vitivinicole di questo territorio affascinante, ricco di storia e di cultura, dove il sole lancia i suoi strali ardenti permettendo ai grappoli di maturare in modo ottimale e uniforme. Una prima parte è stata già esplorata nell’articolo del 1. marzo.

    La provincia di Trapani occupa circa la metà della superficie vitata dell’isola (45 per cento) e produce inoltre la maggior percentuale di vini D.O.C. in Sicilia, grazie soprattutto al Marsala, vero ambasciatore di questa provincia. Il Marsala, il più nobile dei vini siciliani, fu scoperto nel 1773 da John Woodhouse, un intraprendente inglese di Liverpool. È questo un vino da gustare con formaggi erborinati, soprattutto di capra.

    Vitigno simbolo del Trapanese è però il Grillo, che matura lungo i litorali sabbiosi/rocciosi della costa tra Marsala e Mazara del Vallo, fino alle colline calcareo/argillose lungo la strada che porta ad Alcamo. Trapani è un grosso distretto diversificato sia nella produzione sia nel paesaggio. Non si può lasciare questa provincia senza aver provato l’emozione di gustare il vino di Mozia (vino dei Fenici), riprodotto da un vecchio vigneto di uve Grillo, nella minuscola isola di San Pantaleo, situata sull’estrema punta dell’isola in un angolo ricco di sale e iodio. Il vino di Mozia riemerge dal passato, agli albori dell’enologia; è dolce e gradevole, con sentori di pistacchi, fichi secchi e sfumature di miele selvatico, da gustare con i dolci a base di mandorle di Erice.

    E che cosa dire, in questa dolcissima Sicilia, dello Zibibbo (dall’arabo Zabib, uva passa)? Così viene chiamato il Moscato d’Alessandria, coltivato sui terreni vulcanici dell’isola di Pantelleria. Il mio consiglio? Provate a creare un delizioso abbinamento tra questo dolce nettare e la classica «cassata siciliana».

    Scendendo verso sud, sulla strada che conduce a Sciacca, attraversata la foce del fiume Belice, entriamo in provincia di Agrigento, ricca di mare e cielo azzurro. Qui si respirano profumi balsamici che predispongono gli animi per meglio gustare i vini prodotti a Santa Margherita del Belice, Sciacca, Sambuca di Sicilia e Menfi con i sapori mediterranei della cucina locale.

    La base ampelografica è costituita per l’80 per cento di uva a bacca bianca: Catarratto, Trebbiano Toscano, Inzolia. Tra quelle a bacca rossa prevale invece il Calabrese (Nero d’Avola) e il Nerello Cappuccio.

    Dopo aver fatto degustazioni nelle varie cantine intorno al lago Arancio e a Sambuca, non perdetevi l’occasione di fermarvi a bordo mare nel villaggio di Porto Palo: indimenticabile resta nella nostra mente il grosso dentice al forno, condiviso con l’amico Paolo e altri, innaffiato dall’ottimo bianco locale.

    Dalla Valle dei Templi, prendete verso nord, attraversate Canicattì e raggiungete Caltanissetta. Quarta per quantitativi prodotti, è una zona in forte espansione sia per uva da tavola (allevata con grosse pergole) sia per uva da vino: curiosi i Barbera e i Sangiovesi provati qui; ottimo il rosso Frappato abbinato a eccellenti caciocavallo e formaggio pecorino; pranzo concluso con il classico amaro Averna prodotto in loco.

    Interessanti in provincia le D.O.C. Butera e Riesi. Poco più a nord-ovest raggiungiamo Enna, qui la viticoltura raggiunge i 1100 m s/m e le basse temperature primaverili possono danneggiare le viti. I comuni vitivinicoli più importanti oltre a Enna sono: Nicosia, Aidone e Piazza Armerina. Ma per appassionati di storia come noi, non possiamo lasciare la provincia senza fermarci a Centuripe, dove intorno al VI sec. a.C. fu scritta per la prima volta (in Italia) la parola «OINOS» (vino) sul coperchio di un otre di terracotta.

    Il vero leader dell’area vitivinicola Siracusana e Ragusana è il Nero d’Avola con l’80 per cento della superficie vitata; troviamo pure il Frappato, mentre di recente introduzione è il Perricone, ma il fiore all’occhiello della provincia di Ragusa è il Cerasuolo di Vittoria, centro da visitare a luglio durante la fiera del vino siciliano. Senza dimenticare di provare i due Moscati, quello di Noto e quello di Siracusa; forse il vitigno più antico d’Italia, arrivato con i coloni Greci attorno al VII sec. a.C.

    La viticoltura in provincia di Catania è fortemente influenzata dal vulcano dell’Etna, le forti pendenze, la variabilità del clima ma soprattutto la ricchezza minerale del terreno, condizionano non poco la maturazione e la produttività delle viti che si trovano sui versanti. Assolutamente da provare il Carricante, da cui si produce l’Etna Bianco Superiore, che dà il meglio di sé dopo qualche anno dalla vendemmia nel territorio di Milo e il Nerello Mascalese, veri spettacoli naturali, con i tronchi contorti vicinissimi tra di loro.

    Nel versante sud troviamo antichissimi vitigni che rischiano di scomparire, il Nebbiolo Cappuccio, la Visparola, da provare pure a Randazzo il vino prodotto dal vitigno Alicante (di origine spagnola), sopravvissuto alla filossera di fine Ottocento. Da poco si produce anche un ottimo Pinot Nero, da provare con il capretto pasquale.

    La provincia di Messina, in passato famosa per il suo Mamertino, è ora in una situazione piuttosto statica essendo una zona montuosa poco vocata alla coltivazione della vite. Ma sulle isole Eolie, e più precisamente a Salina e Stromboli, si producono dei vini passiti più nobili, come la Malvasia delle Lipari, ottenuto dall’omonimo vitigno: ha intensi profumi, ed è ottima con i dolci a frutta secca, come fichi, datteri, uva passa e confetture.

    Attraverso territori assai vari, colline, pianura, fascia costiera, si possono poi visitare, diretti a Palermo, le D.O.C. Contea di Sclafani, Monreale, Contessa Entellina. A questi ambienti corrispondono microclimi diversi che consentono di coltivare vitigni sia a bianchi sia a rossi, dai freschi Catarratto, Inzolia, Nero d’Avola e belle espressioni di Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon; indimenticabile a Monreale, il carpaccio di tonno e spada con un bianco prodotto da uve Sauvignon/Viognier.

    Il nostro viaggio termina a Mondello, davanti una bottiglia di Grillo che accompagna la pasta con le sarde preceduta da una profumatissima caponata di verdure. Confessiamo d’aver lasciato sull’isola un pezzo del nostro cuore.

    Scelto per voi

    Pinot Grigio Felluga
    Da decenni i vini con la classica etichetta fregiata da una carta geografica sono presenti su tanti mercati, mietendo molti successi per merito dei figli ed eredi di quel patriarca del vino che fu il friulano Livio Felluga. A ridosso del confine sloveno, tra Isonzo e lo Judrio, pendii esposti a mezzogiorno – protetti dalle Prealpi Giulie e favoriti dalla vicinanza del mare – creano le condizioni ideali per la produzione di ottimi vini bianchi.
    Il Pinot Grigio che vi consigliamo viene allevato con grande rispetto per la natura: riducendo al minimo gli interventi antiparassitari. Alla perfetta maturazione delle uve segue la naturale vinificazione e macerazione, dove il vino riposa sei mesi sui suoi lieviti. L’imbottigliamento avviene senza chiarifica.
    Questo Pinot Grigio, unico per il suo carattere, si presenta con un colore giallo dai riflessi ramati, e ci colpisce con le sue sfaccettature di frutta, fiori, mineralità e una stratificazione aromatica rara da trovare, che aggiunge un incredibile equilibrio e un’invidiabile persistenza aromatica. Vino molto versatile per antipasti misti, minestre corpose e piatti sia di pesce sia di carni bianche, preferibilmente lessate o arrostite.

    / Davide Comoli

  • I celti e l’arte del bottaio

    Vino nella storia – Tra le divinità più importanti del Pantheon gallico, Sucellus, ovvero «colui che batte bene»

    Da Le origini della viticoltura in Piemonte a opera del professor Filippo Maria Gambari, apprendiamo grazie ai numerosi corredi tombali etruschi ritrovati nella zona del Lago Maggiore, che la diffusione della viticoltura risale all’incirca quando a Roma regnava Tarquinio Prisco, quinto re di Roma (616-579 a.C.).

    La mancanza di grosse anfore vinarie, e i ritrovamenti di piccoli vasi potori e brocche dal becco di bronzo, portano il noto archeologo a supporre l’utilizzo di piccoli otri o addirittura di botti lignee di facile trasporto per vie d’acqua come l’idrovia Ticino-Lago Maggiore.

    Purtroppo, mancano prove e riscontri certi, ma è sicuro che la nascita della botte da vino gallica, descritta come vedremo da Strabone (21 d.C.) e da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), sia avvenuta nella Gallia Cisalpina.

    La tesi dell’impiego di piccole botti lignee per il trasporto fluviale è quindi anche a parer nostro più che una supposizione. Immaginare un drammatico naufragio che, dopo l’affondamento del barcone, metteva in salvo le botti contenenti il vino grazie alla loro capacità di galleggiare ed essere recuperate, non doveva essere probabilità remota, ma è meglio non far correre troppo la fantasia.

    Il vino è stato comunque veicolo di confronti e travasi di civiltà, da qui l’origine dell’apprendimento delle popolazioni Celtiche, che divennero un’eccellenza nella produzione e conservazione del vino nelle botti di legno. Tuttavia va ricordato anche solo per curiosità che i celti utilizzarono le prime anfore vinarie etrusche come «urne cinerarie»; non pensiamo che lo facessero per risparmiare, ma in ogni caso l’idea che le «ceneri» potessero risposare in un contenitore reso «sacro» dal vino ci regala un immenso sorriso.

    Mentre la cultura della vite e soprattutto la produzione del vino erano inizialmente ignote alle popolazioni celtiche nelle loro sedi transalpine, pare comunque indubbio che già molto prima della conquista romana i Galli calati nella Cisalpina avessero appreso dalle popolazioni indigene certe tecniche, che essi integrarono con le loro precedenti esperienze produttive. Notevole era l’abilità di questo popolo nella metallurgia e nell’oreficeria, inoltre i Celti erano esperti anche in tutte le pratiche di carpenteria. Un esempio importante di questa integrazione, come riferì lo storico dell’agricoltura italiano Emilio Sereni, è quello dell’impiego di tini e botti di legno ai fini della preparazione e della conservazione del vino. Un impiego delle botti completamente estraneo alla tradizione dei popoli mediterranei, che usavano come è noto, manufatti ceramici di varie dimensioni oppure otri di pelle.

    Di «botti di legno più grandi delle case», invece, ci parla non senza farsi meraviglia, Strabone nella sua Gheographiká (V,1,8) scritto verso il 18 d.C., parlando dell’abbondanza della produzione vinicola nella Padania. Così come di vino conservato in recipienti di vino cerchiati, ci parla Plinio (Gaius Plinius Secundus, Naturalis Historia, XIV 27, 132) per la regione alpina: «Circa Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt atque etiam hieme gelida ignibus rigorem arcent. Rarum dictu, sed aliquando visum, ruptis vasis stetere glaciatae moles, prodigii modo, quoniam vini natura non gelascit». «Nelle località alpine pongono i vini in recipienti di legno, li cerchiano e anche durante i rigori invernali, li difendono dal freddo con il fuoco. È cosa straordinaria, ma qualche volta si è visto che, rotti i recipienti, restano lì immobili masse di ghiaccio, quasi per prodigio, perché il vino per sua natura non gela». E aggiunge: «doliis etiam intervalla dari, ne inter sese vitia serpant atque contagione vini semper ocissima». «Le botti devono essere disposte a una certa distanza l’una dall’altra, a evitare che i difetti si diffondano tra di esse, perché il contagio del vino è velocissimo» (Plinio, N.H.).

    Scoperte archeologiche rivelano che le doghe erano fatte di legno di abete e larice, piegate e chiuse a incastro «Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt», tenuti insieme da cerchi di noce e salice.

    Strabone (Gheographiká) era pure rimasto impressionato dalla presenza di forni per la produzione della pece, che si otteneva dalla resina degli abeti rossi e che serviva a calafatare gli interstizi tra le doghe. Chissà com’era il gusto del vino che era stato in contatto tra legno d’abete e la pece? Quel che si sa è che perlomeno la pece garantiva una buona tenuta stagna.

    Le pratiche della carpenteria celtica ebbero una parte di primo piano, alcune parole inerenti all’arte del bottaio le possiamo ritrovare ancora oggi ad esempio dal gallico «bunda» ritroviamo il lombardo «bondòn» (il cocchiume – il tappo che chiude la botte), da «tunna» la «tonne» francese, e poi ancora: «brenta» per il trasporto a spalla di liquidi, «bonz», botte carreggiata, o in lombardo «bonza». Molte sono le fonti iconografiche di età romana che rappresentano nei territori della Gallia Cisalpina e Transalpina i trasporti di vino effettuati nelle botti per terra o per via fluviale.

    D’altronde possiamo aggiungere che la botte e il martello del bottaio, hanno una parte importante nell’iconografia di una delle divinità più importanti del Pantheon gallico, Sucellus, che presiedeva a quanto pare, alla preparazione della birra, la mistica bevanda celtica, alimento e gioia della vita d’oltretomba, e pertanto anche all’arte del bottaio, dato che il suo nome significherebbe «colui che batte bene».

    Il culto di Sucellus fu così diffuso in tutta la Gallia romana che molti musei, soprattutto francesi, offrono un gran numero di rappresentazioni di questo dio che impugna un mazzuolo a indicare che Sucellus era per l’appunto il patrono dei vignaioli gallici; quindi ricordatevi, quando andrete a Beaune (Borgogna), di conoscere questo personaggio, che di certo non usurpa il posto in cui è collocato nel museo del Vino della città.

    Scelto per voi

    Barbera d’Alba Superiore «Adriano»
    In località San Rocco Seno d’Elvio, piccola frazione di Alba, su suoli argillo-calcarei, adatti a produrre vini complessi e strutturati, i fratelli Marco e Vittorio Adriano coltivano, da lungo tempo e con grande rispetto per l’ambiente, i classici vitigni del Piemonte. Il Barbera Superiore che oggi vi consigliamo – e per i meno avvezzi al Piemonte, ci troviamo a pochi passi da Barbaresco – ci colpisce per la pulizia dei suoi profumi che richiamano la marasca, la prugna, il ribes, ma anche la viola e alcune spezie delicate. Pure il suo colore, che è di un rosso rubino profondo con riflessi viola-blu, ci fa capire che abbiamo di fronte un vino ottenuto dalla migliore selezione di uve. Al palato troviamo un vino molto armonico, con un ingresso tenue in bocca e una bella apertura verso la polpa del frutto. È il vino che vogliamo consigliare come regalo per la Festa del papà, da abbinare a primi piatti corposi, dove non manca il formaggio d’alpeggio, e al bollito misto, ma da non disdegnare nemmeno con una merenda tra amici con pane e salame.

     

    / Davide Comoli