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  • Dalla Franciacorta all’Oltrepò

    Bacco Giramondo – Continua il viaggio nella Lombardia vitivinicola

    La produzione vinicola della Lombardia non è certo importante come in altre regioni d’Italia, ma in questa area geografica che è la Franciacorta, formata da piccoli colli e ampie vallate situate a sud del lago d’Iseo (l’antico Sebino) e a est della provincia di Bergamo, ha saputo ritagliarsi un importante spazio internazionale nel mondo vitivinicolo grazie a un vivace dinamismo. Il «miracolo» Franciacorta è il risultato ottenuto grazie alla lungimiranza di produttori seri e motivati, dotati di grande energia, ma soprattutto innovazione. Inoltre il visitare i vigneti sparsi tra i vari villaggi, il degustare i vini nelle innumerevoli cantine situate talvolta all’interno di storici edifici, ci portano a rivivere le origini magistralmente raccontate da Gabriele Archetti nel suo Le origini della Franciacorta nel Rinascimento Italiano.

    Noi la «storia» delle bollicine della Franciacorta la troviamo nelle Cantine Guido Berlucchi a Borgonato di Corte Franca, con Paolo Ziliani che davanti la mitica «numero uno» imbottigliata nel 1961, ci racconta come è nato il mito Franciacorta, prima di passare a una indimenticabile e conviviale degustazione dei vari Brut, Rosé, Satèn e infine ai Millesimati.

    Il nostro itinerario continua in direzione di Brescia, dove costeggiando le colline, s’incontrano dei gruppi rocciosi che fan da corona al capoluogo di provincia. Sui ridenti colli intorno a Gussago, dove i terreni sono composti da un misto calcareo-argilloso con mescolanze di fanghiglie ereditate da diverse epoche geologiche, troviamo la D.O.C. Cellatica che produce vini rossi di buona sapidità e struttura dai vitigni Barbera, Schiava, Marzemino, Sangiovese Incrocio Terzi (incrocio tra Barbera Cabernet Franc). Sono vini ottenuti da uvaggi tra i vitigni sopracitati, da bersi abbastanza giovani che accompagnano piatti semplici durante le scampagnate in collina.

    A sud di Brescia potete trovare la D.O.C. Capriano del Colle, dove vengono prodotti interessanti vini bianchi, elaborati dal Trebbiano di Soave e un passito ottenuto dal semisconosciuto vitigno Invernenga.

    Scendendo verso il lago di Garda, tra i comuni Rezzato e Botticino, troviamo la D.O.C. Botticino, dove gli stessi vitigni rossi di cui abbiamo accennato, grazie al fortunato matrimonio con il terreno argillo-calcareo, talvolta marnoso, danno origine a vini dai profumi vinosi, intensi, caldi e giustamente tannici, il completamento ideale per una veloce merenda con salumeria e formaggi mediamente stagionati.

    La strada che ci porta verso Desenzano del Garda, ci ricorda che fin dai tempi antichi, grazie alla barriera delle Dolomiti che frenano i freddi venti, al lago di Garda veniva dato l’appellativo di «lago benefico» (Benacus), tant’è che le sue rive furono luogo di soggiorno per personaggi del calibro di Plinio, Virgilio, Strabone, Catullo.

    L’area collinare compresa tra Desenzano e Salò, tappezzata da ulivi e vigneti prende il nome di Valtènesi, orgoglio della zona è il Garda Classico Chiaretto, ottenuto da uve Groppello, Sangiovese, Barbera, caratterizzato dal colore rosato, dai profumi di rosa, viole, fragoline di bosco e lamponi; molto interessante è anche il rosso Garda Groppello, ottenuto da vitigno omonimo con il piccolo aiuto di Marzemino Barbera, dotato da intriganti profumi floreali e fruttati.

    Da Desenzano, riprendiamo la S236 in direzione di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, cittadina dall’illustre passato, per ritornare verso Solferino. Questo circuito a sud del Garda è formato da cordoni collinari concentrici. La sua posizione ne ha fatto nel corso della storia un territorio punteggiato da strutture difensive. Dal punto di vista enologico siamo nella D.O.C. interregionale del Garda, dove si producono vini di pronta beva, ottimi per allegri convivi. La sera ci trova nei pressi di San Martino della Battaglia, uno dei luoghi simboli del Risorgimento italiano, un ottimo Lugana (qui chiamato Turbiana) e un piacevole Marzemino leggermente frizzante.

    Al mattino di buon’ora imbocchiamo l’A4 posta a 1,5 km e alla periferia di Brescia entriamo sulla A21 dove usciamo a Stradella, siamo nell’Oltrepò Pavese. Questa è una terra generosa, ricca di una vasta gamma di vitigni, capace di produrre vini bianchi fermi, spumanti secchi e dolci, vini rossi sia da bere giovani sia da invecchiamento.

    Da Stradella prendiamo la SS10 e raggiungiamo Broni passando per l’antica via Emilia, consigliamo questa cittadina come punto di partenza per un giro tra i vigneti dell’Oltrepò. A sud-ovest, immerso in un paesaggio collinare, dove i crinali sono coperti dalla vite, si arriva a Canneto Pavese, che con Montescano, Castana e Pietra de’ Giorgi, è la patria del Buttafuoco (Barbera, Croatina e Ughetta), lo stesso uvaggio impiegato per il dolce e frizzante Sangue di Giuda.

    Dalla provinciale che costeggia la riva sinistra del torrente Versa, circondato da filari di viti, si raggiunte Montù Beccaria, le varie diramazioni ci portano a Santa Maria la Versa, considerata la capitale dello spumante sia metodo classico che Martinotti, usando i vitigni Chardonnay, Pinot Grigio, Riesling Italico, Riesling Renano, che oltre a esaltare le note fruttate e la loro freschezza, riescono a dare ai vini un’importante nota minerale, il Moscato Bianco, con cui si producono vini dolci, dalle note aromatiche.

    Una grande attenzione viene data al Pinot Nero a Santa Giuletta, in questa zona viene sfruttato tutto il potenziale di questo vitigno (Oltrepò ne è il maggior produttore italiano), per produrre rossi fermi d’invecchiamento, di grande eleganza, dai profumi di liquirizia. Notevole il metodo classico a cui è dato il curioso nome di Cruasé, ottenuto con macerazione a contatto con le bucce, è uno spumante dal colore rosa salmone, con suadenti sfumature di fragoline, melograno e arance sanguinella, che abbiamo abbinato a delle succulente «tartine con salmone affumicato, formaggio di capra e rondelle di cipolla» che aromaticità; senza dimenticare «da ultimo ma non ultimo», una bottiglia del vero simbolo enologico di questa terra, la Bonarda (Croatina), tipologia ferma, dal profumo di viole, abbinata a uno «stufato di lepre», che vino!

    Attraversiamo il Po nei pressi di San Zenone al Po, ci siamo diretti verso San Colombano al Lambro, unica D.O.C. in provincia di Milano, dove sulle colline argillose si coltivano gli stessi vitigni dell’Oltrepò, che ne tappezzano la superficie sino a Miradolo Terme. È ispirandosi a questi luoghi che il Francesco Redi (1626-1697) scrisse i seguenti versi, che di fronte alla distesa di vigneti prepotentemente ci tornano in mente: «il purpureo liquor del suo bel colle, / cui bacia il Lambro il piede, / ed a cui Colombano il nome diede, / ove le viti in lascivetti intrichi / sposate sono invece d’olmi a’ fichi.».

    / Davide Comoli

  • Così scrisse Pier De’ Crescenzi

    Vino nella storia – Molte le informazioni vitivinicole contenute nello storico Liber Ruralium Commodorum

    La raccolta del Liber de Vindemiis è la riduzione dei Geoponica, collezione di venti libri compilata nel X secolo a Costantinopoli, che all’epoca si trovava sotto l’imperatore Porfirogenito Costantino VII. Questa collezione, originariamente scritta in greco, è in parte tratta dall’opera perduta di Cassiano Basso del VI secolo e in parte attribuita ad altri autori. Fu poi tradotta dal giureconsulto Burgundio da Pisa che, trovandosi nel 1172 a Costantinopoli, ebbe modo di tradurre diverse opere dal greco, tra le altre le tre che rivestirono grande importanza per il mondo vitivinicolo medievale, ovvero: il V, il VI e il VII libro dedicato alla coltivazione delle uve.

    Al Liber de Vindemiis attinse ampiamente anche il bolognese Pier de’ Crescenzi (nasce verso il 1233) per il suo Liber Ruralium Commodorum (Libro dei benefici agricoli), arricchendolo però di numerose osservazioni e molti consigli personali che gli derivano dalle esperienze maturate nel suo peregrinare come «magistrato» per tutta Italia.

    In quel periodo storico, i liberi Comuni italiani erano retti da Capitani del Popolo o da Podestà ai quali veniva affidata la gestione della giustizia e l’amministrazione civile e militare. Questi uomini di comprovata onestà si avvalevano della collaborazione di esperti magistrati, gruppo del quale faceva parte Pier De’ Crescenzi.

    Lo troviamo nel 1269 a Senigallia, nel 1271 ad Asti, più tardi a Ferrara, Pisa, Brescia e allo scadere del secolo rientra nella nativa Bologna, dove si ritira a vita privata nella sua tenuta di Rubizzano alle porte di Bologna, dove tra il 1304-1309 scrive, grazie alla sua esperienza nella gestione dei suoi possedimenti, il De Agricoltura: 12 libri che comporranno il Liber Ruralium Commodorum. Oltre al già citato Burgundio da Pisa, altre sue fonti furono: Plinio, Columella, Catone, Varrone, Palladio e Alberto Magno dell’ordine domenicano; per compilare il capitolo dedicato alle virtù della pianta di vite, si avvale delle conoscenze di Dioscoride, Galeno, e Isaac Israeli (855-955), un autore poco conosciuto alle nostre latitudini, ma importante per poter capire gli effetti psicologici del vino nell’Occidente medievale.

    Dopo essere passata al vaglio dell’«Imprimatur» ecclesiastico (a quel tempo scardinare dogmi antichi, credo significava porsi in conflitto con la Chiesa, vedi tre secoli più tardi Galileo Galilei), l’opera suscitò subito un vasto interesse ed ebbe una grandissima diffusione «in folio». È soprattutto nel IV tomo che De’ Crescenzi si sofferma su norme di viticoltura (De vitibus et vincis et cultu carum, ac natura et utilitate fructus ipsarum).

    Nell’opera, l’autore precisa subito che l’habitat prediletto dalla vite è caratterizzato da una temperatura calda, perché ivi al contrario di quelli freddi dà prodotti migliori, a condizione però che il luogo di coltura sia asciutto (IV, 5fol).

    I terreni da evitare (sono da privilegiare quelli vergini o che non siano mai stati coltivati a vite) devono essere duri in modo che trattenendo l’umidità, possano mitigare l’aridità estiva. Buone le terre argillose a patto che non siano composte esclusivamente dall’argilla (IV, 6fol).

    De’ Crescenzi introduce l’utilizzo delle talee (un argomento ancora attuale) e raccomanda che siano colte in ottobre, mese in cui il «calore» solare è ancora nei rami, prima di ritirarsi con l’irrigidirsi della stagione, nelle radici: i tralci da tagliare debbono essere scelti dalla parte mezzana della pianta, perché sono i più fecondi. Prosegue poi entrando in merito agli scassi del terreno, indugiando su importanti nozioni tecniche, quali profondità e distanza tra le fosse (IV, 7fol). Importanti pure le indicazioni che vengono date sull’utilizzo delle «talee» e di vivaismo per quanto riguarda le «barbatelle». Una volta poste a dimora in terreno grasso mescolato a letame (metodo usato ancora sino a cinquant’anni or sono), vengono posizionate nel vigneto.

    Sulla base di una millenaria consuetudine, le viti erano piantate a stretto contatto con altre piante, talvolta alberi da frutto, in modo che queste ultime facessero da sostegno.

    Tra i sostegni vivi, l’autore consiglia l’olmo, considerato il migliore, a questo fanno seguito: acero, salice, pioppo, frassino, ciliegio, susino e simili; consiglia inoltre alcuni metodi di legatura, ricordando però di usare il salice e il pioppo solo in terreni umidi.

    Nel V «folio» intitolato De vitibus et vineis et cultu earum, sono trattate le virtù terapeutiche dell’uva e delle viti.

    De’ Crescenzi scrive tra l’altro che «Le foglie della vite sono molto medicamentose, perché puliscono le piaghe e le guariscono dopo averle cotte nell’acqua. Esse rinfrescano il calore dato dalle febbri e come per incanto fanno cessare i dolori di stomaco; esse aiutano pure le donne incinta; e fortificano il cervello».

    Divide pure i vitigni in bianchi e neri, classificando le uve in base alla «bontà», la quale viene espressa con diversi aggettivi, sottile, chiaro, potente, serbevole, dolce, che ci danno la misura dei criteri d’apprezzamento in epoca medievale.

    Appoggiandosi all’autorità di Isaac, conclude confermando che il vino «dà buon nutrimento e rende la sanità al corpo: e se si prende come si deve e quando bisogna, e quanto può sostenere la natura, conforta la virtù digestiva, così nello stomaco come nel fegato: perché è impossibile che si attui il processo della digestione senza il calore che conforta la virtù naturale e accresce la forza».

    All’inizio del Trecento, il nome del vino derivava solitamente dall’uva con la quale era prodotto. Quest’opera – ristampata più volte con ripetute difficoltà interpretative, talvolta insormontabili – riveste una particolare importanza come documento che presenta una panoramica interessante delle varietà di uva coltivate a cavallo tra il XIII e il XIV secolo nel nord e centro Italia.

    Quasi impossibile risulta però ai nostri giorni riconoscere tutti i 41 vitigni elencati dall’agronomo bolognese nel suo peregrinare lungo la penisola, perché nell’arco di sette secoli, molti sono stati i mutamenti che hanno interessato la struttura ampelografica italiana. D’altronde lo stesso De’ Crescenzi riconosce la difficoltà e il rischio a causa di sinonimie nel distinguere i vari vitigni: «multe diversis nominibus in diversis provinciis et civitatibus appellatur» («è chiamato con molti nomi diversi in diverse province e stati»).

    Di alcuni vitigni (una ventina), l’autore presenta una buona scheda tecnica, soprattutto per i bianchi, come la Schiava (Sclava), Albinaza (che noi pensiamo sia il Pigato) o il Trebbiano, ma ecco la lista dei vitigni elencati nell’opera: Schiava (Sclava), Trebbiano (Tribiana), Gragnolata, Malixia o Sarcula, Garganeca, Albinazza, Buranese (Buranexae), Africogna, Lividella, Verdiga, Verdecia, Moscato, Luglienga, Greca, Vernaccia, Berbigenes, Cocerina, Groposa, Fuxolana, Bansa, tra le bianche. Tra le uve nere: Grilla, Zisiga, Margigrana, Nubiola (Nebbiolo?), Maiolo, Duracla, Gimnaremo (Gunarone), Paternica, Pignuolo, Albatichi (Albarica), Vaiano, Dentina (Clentina), Portina (Porcina), Valminica, Tusca Melegono, Canatuli (Canaiolo), Canopum, uve silvestri chiamate Lambrusche e Pergole (Brumeste).

    A De’ Crescenzi bisogna comunque dare atto di aver dato il via, a partire dal XVI secolo, alla trasmissione scritta di conoscenze enologiche e viticole.

    / Davide Comoli

  • Dal lago di Como al lago d’Iseo

    Bacco Giramondo – Arriva in Lombardia il percorso tra le regioni d’Italia alla ricerca dei vini locali più interessanti

    Il poeta Virgilio (Mantova 70 a.C. – Brindisi 19 d.C.) scriveva: «tra fiumi, laghi, olivi, viti e bionde messi d’oro…» con tutta probabilità si riferiva alla terra in cui aveva avuto i natali, e cioè alle colline che fanno da contorno al lago di Garda. Luogo in cui oggi la viticoltura è una fonte importante di reddito. Le colline che si affacciano sulla Pianura Padana godono, infatti, di condizioni favorevoli alla coltura della vite grazie al clima continentale, con estati calde, inverni rigidi e stagioni intermedie spesso piovose.

    E proprio in corrispondenza degli anfiteatri morenici del lago di Garda e d’Iseo, laddove i rilievi prealpini lambiscono la fertile pianura, ritrovamenti risalenti all’età del bronzo (III millennio a.C.), dimostrano come in questi luoghi la coltivazione della Vitis vinifera silvestris fosse già praticata.

    I circa 23mila ettari vitati della regione sono disposti soprattutto in collina, ma le diverse zone vitivinicole, richiedono forme di allevamento molto diverse avendo differenti caratteri pedoclimatici.

    Molto diffusi nell’Oltrepò Pavese i sistemi «Guyot singolo» o «multiplo», nel bresciano e nel bergamasco, la «pergola trentina» e il «Sylvoz», sui rilievi collinari si possono ancora trovare vigneti allevati a spalliera, mentre sulle terrazze della Valtellina, dove regna la vera viticoltura «eroica», è molto diffuso il Guyot.

    Il 54 % del vigneto lombardo è occupato da vitigni a bacca rossa e trova l’Oltrepò Pavese come maggiore produttore (55 %) dei più di 1’300’000 ettolitri di vino annuali.

    Le principali zone vitivinicole sono: le colline del lago di Garda e quelle mantovane di origine morenica, la Franciacorta, il Bergamasco, l’Oltrepò Pavese e la Valtellina, da dove inizieremo il nostro itinerario alla scoperta dei luoghi di produzione dei vari vitigni che il panorama ampelografico lombardo ci offre.

    Uscendo da Como imbocchiamo la S340 dove lungo le rive del lago omonimo si alternano lussuose residenze trasformate in hotel, ville con ombrosi giardini e villaggi con accoglienti porticcioli, quasi alla fine della sponda occidentale ci fermiamo a Domaso, villaggio dai gloriosi passati vitivinicoli e che oggi, grazie a qualche piccolo produttore, sta cercando di tornare agli antichi fasti con la produzione del Domasino Rosso (Sangiovese-Merlot-Rossela) e l’ottimo Domasino Bianco (con l’autoctono VerdesaSauvignon Trebbiano), da bersi accompagnandolo con piatti di pesce di lago con risotto.

    Dopo esserci lasciati il lago di Como alle spalle, imbocchiamo la veloce superstrada che dopo Morbegno e Talamona, ci porta – oltre l’Adda, il fiume che scorre per tutta la Valle – ad Ardenno sulla sponda destra, da dove sulle soleggiate pendici scoscese ricomincia per più di 40 km l’incredibile terrazzamento costituito da muri di pietra che sostengono il patrimonio vitivinicolo valtellinese, uno spettacolo che un amante del dono di Bacco non può perdere. 1200 ettari di vigneto posizionati tra i 300/700 m s/lm, dove la pendenza oscilla dal 45 al 65 %: pensate al sudore che da secoli le generazioni di viticoltori hanno versato per creare questo territorio che non ha eguali al mondo.

    Qui tutte le operazioni vengono eseguite manualmente; è solo con tanta fatica che l’uomo riesce a trasformare i rigonfi grappoli di Chiavennasca in purpureo vino. Siamo di fronte a una vera «viticoltura eroica». Oltre alla Chiavennasca (è il nome locale del Nebbiolo), vengono coltivati la Pignola, vitigno di notevole vigoria, la Rossola e la Brugnola, ma è dalla Chiavennasca quasi in purezza che si ottengono i pregiati D.O.C.G. del Valtellina Superiore. Coltivato nelle sottozone di Maroggia nel comune di Berbenno, il Sassella prende il nome della chiesetta omonima nel comune di Castione (ovest di Sondrio), mentre il Grumello prende il nome dall’omonimo Castello (nord-est di Sondrio); l’Inferno, invece, potrebbe derivare dalle alte temperature estive che si possono raggiungere sui terrazzamenti ricavati nelle rocce; infine, troviamo la Valgella, che è la zona più estesa, circa 164 ettari, nei comuni di Chiuro, Teglio e Tresenda (nord-est di Sondrio).

    Dopo una giornata passata tra vigneti e degustazioni varie, accompagnate dagli immancabili stuzzichini di salumi vari e formaggi come il Bitto e il Casera, la sera ci trova ospiti dall’amico Angelo, dove la sorella Ilde ci prepara i suoi famosi pizzoccheri accompagnati da un morbido Sassella. Davanti al fuoco di un camino, con Angelo ricordiamo i tempi passati, mentre centelliniamo a brevi sorsi un mitico Sfurzat, il re dei vini di questa terra, prodotto con uve appassite: è un vino dai grandi profumi e potenza, dove le note tostate incalzano quelle di frutta rossa, con un finale che desta meraviglia.

    Al mattino di buon’ora imbocchiamo la S39 del passo dell’Aprica fino a Edolo, dove prendiamo la S42 che ci porta a sfiorare la parte nord de lago d’Iseo e puntiamo verso la Valcalepio, l’area viticola della provincia di Bergamo, situata sui rilievi delle Prealpi, dove si stanno facendo conoscere eccellenti produttori di bianchi realizzati con uve Chardonnay Pinot Bianco. Degni di nota sono però i rossi di carattere, prodotti da uve Cabernet e Merlot, come quello gustato a pranzo con risotto e salsiccia a Scanzorosciate, dove siamo venuti a gustare il Moscato di Scanzo D.O.C.G. (la più piccola denominazione italiana).

    Il Moscato di Scanzo è un vino con una lunga storia alle spalle, apprezzato già dai Visconti e dagli Sforza, signori di Milano, era molto gradito alla corte degli Zar di Russia. Questo vino sta avendo un secondo risorgimento dopo qualche anno passato in letargo. Il dolce nettare che stiamo gustando, profuma di note intense di rosa canina, incenso e spezie, date dall’appassimento, ed è il complemento ideale alla nostra mousse di cioccolato bianco e alla piccola pasticceria secca che ci è stata servita.

    A Seriate entriamo per un breve tratto sulla A4 per uscire poco dopo a Palazzolo in provincia di Brescia. Risaliamo verso nord seguendo il fiume Oglio in uscita dal lago d’Iseo e arriviamo a Capriolo, uno dei 19 comuni che formano il territorio della Franciacorta. Scendiamo quindi ad Adro e, immerso nei vigneti, arriviamo a Erbusco, dove sosteremo in questa splendida isola vitivinicola estesa su circa 900 ettari di colline di origine morenica.

    Le fresche brezze dopo aver attraversato il lago d’Iseo provenienti dalla Val Camonica, creano un microclima ideale, impedendo la formazione di nebbie invernali e umidità estive, dove lo Chardonnay 80% della superficie vitata, il Pinot Nero 15% e il Pinot Bianco, vendemmiati precocemente fanno della Franciacorta il «leader» italiano dei vini spumanti metodo classico, una terra caratterizzata da imprenditori seri e motivati che hanno saputo valorizzare questo territorio.

    / Davide Comoli

  • Dalla Teriaca all’Ippocrasso

    Vino nella storia – Quando il nettare di Bacco incontrò le spezie e finì sulle tavole degli aristocratici

    Il dotto pisano Burgundio (1110-1193), letterato, giurista, diplomatico, fu un personaggio celebre soprattutto per le sue traduzioni di testi medici, Galeno in modo particolare, fra l’altro scrisse un ricettario in cui si occupava di metodi di vinificazione. Testo, quest’ultimo, che venne copiato e ricopiato più volte, in modo quasi integrale nei secoli successivi da personaggi come: Pietro de’ Crescenzi, Corniolo della Cornia, Arnaldo da Villanova.

    Tra le curiosità che abbiamo trovato sfogliando una vecchia copia di questo celebre testo, una delle più stimolanti è lo spazio dedicato ai vini aromatizzati. Infatti nel XII sec. si sviluppò molto la moda delle spezie, grazie soprattutto alle navi della Serenissima che avevano ripreso i traffici con l’Oriente, praticamente interrotti con la caduta dell’Impero Romano.

    Il vino trattato con le spezie venne chiamato all’inizio con il nome di vinus odorifer o vinus aromaticus. Era in effetti difficile dare un nome a un prodotto composto da vino mescolato con l’alchimia o la magia. In ogni caso, all’inizio, erano vini per le sole mense aristocratiche. Uno degli aspetti che sicuramente contribuì al successo di questa formula, fu il ruolo che assunsero sia vino sia spezie nella preparazione di prodotti terapeutici. Di loro, l’inglese Bartolomeo Anglico (1190-1250), autore di una pregevole enciclopedia composta da 19 libri (De Proprietatibus Rerum) scrisse che «sono vini fatti con la forza di buone spezie e che sono adatti sia come bevanda che come medicina. In virtù delle spezie e delle erbe si cambia e si corregge il vino e gli si dà una virtù singolare e perciò quei vini sono completi e apprezzabili quando spezie e delle erbe sono incorporati ad esso in modo dovuto. Così il loro sapore, sono graditi al gusto ed eccitano l’appetito e confortano sia il cervello che lo stomaco e con il loro buon odore e profumo puliscono anche il sangue e lo purificano e vengono nelle parti interne delle vene e delle membra».

    È sempre grazie al dotto Burgundio che apprendiamo il nome della principale preparazione medica del passato: la Teriaca dal greco Theriaké che significa antidoto. L’invenzione della Teriaca è attribuita a Crateva, medico personale di Mitridate re del Ponto (133-64 a.C.). Il monarca viveva nel terrore di essere avvelenato, Crateva, dopo lunghi studi, mescolò tra loro ben 54 medicamenti cosiddetti «semplici» che aggiunse alla composizione del principe degli «antidoti». Nel 63 a.C. con Pompeo, portò a Roma la meravigliosa ricetta che venne in seguito usata da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone che, come molti altri monarchi, viveva nel terrore di essere avvelenato.

    Fu poi Claudio Galeno, con la sua autorità in campo medico, a sostenere la Teriaca. Tant’è che il medicamento continuò a essere usato per tutto il Medioevo e il Rinascimento: fu somministrato da medici e farmacisti, ottenendo grande fiducia, fino agli inizi del 1800.

    Uno dei componenti principali della Teriaca era costituito dalla carne di serpente cotta nel vino. Considerato l’essenza dell’immortalità, il serpente veniva cotto nel vino perché si riteneva che questo fosse in grado di impregnarsi dell’essenza immortale dell’animale, assumendo così potenza e valori magici. Si pensava o meglio si credeva che così facendo il vino potesse dare a chi lo assumeva la capacità di essere immune ai veleni e prolungare la vita, e che voi cari lettori, ci crediate o no, questa unione decisamente originale venne difesa per un lunghissimo periodo da moltissimi medici.

    L’elenco dei nomi dei medici che impiegavano ricette in cui nel vino venivano messe a macerare delle vipere è lungo, ma uno per tutti fu Galeno, il quale dichiarava che l’unico vino indicato per la Teriaca era il Falerno dolce, chiamato Faustiniano e lasciò scritto: «A chi si avvicina alla vecchiaia consiglio di bere la Teriaca spesso, ed in dose piuttosto elevata, sciolta nel vino, perché rinfranchi il calore naturale che comincia a languire». L’aspetto importante a livello enologico è il collegamento del vino alle erbe medicinali, in modo da preparare vini realizzati per i loro aspetti sensoriali, creati dall’unione di molti elementi sovrapposti in modo da adattarli piacevolmente agli uomini e alle complessioni dei pazienti. Lo dimostrano le ricette inserite negli antichi ricettari di pratiche enologiche, dove ritroviamo le stesse erbe e spezie che componevano la Teriaca: mirra, nardo, cinnamomo, pepe, salvia, rosmarino, assenzio, ecc. A partire dal 1200 ogni ricettario o testo di agronomia non poteva esimersi dal presentare un vino aromatizzato. Fu così che diventò necessario dare un nome al vino aromatizzato per eccellenza, quello che doveva accompagnare le mense dei nobili ed essere bevuto dagli aristocratici: Ippocrasso (Ypocras), vino di Ippocrate, collegato al medico greco, simbolo dell’arte medica.

    Gli scopi di questi vini erano vari, in certi casi si trattava di vini usati per scopi medicinali, in altri si trattava di migliorare vini carenti di aromi o per renderli almeno bevibili (leggere le opere di Arnaldo da Villanova). Di certo le ricette più divertenti sono quelle che ci ha lasciato il notissimo François Rabelais (1494-1553), il papà di Gargantua e Pantagruele che, forse non tutti lo sanno, fu anche uno dei medici più colti del suo tempo.

    Come per i suoi romanzi, Rabelais, che senz’altro era un estimatore e un conoscitore di vini e spirito vivace, ci descrive con stile satirico la diversità delle erbe usate per l’aromatizzazione. Questo per far capire la differenza tra il vino bevuto per il piacere e l’idea del vino bevuto come medicina, sottolineando bene la distinzione tra le erbe e le spezie. Per questo, quando egli parla di Ippocrasso è ben lontano di paludarsi con vesti da sapiente medico, ma invita a bere senza troppe remore e trarre piacere dal buon vino, con gaiezza e leggerezza.

    Visitando la Devinière, la sua casa natale nella Loira, ci pareva di udire le sue grasse risate, mentre ci offrivano il bianco di casa (Chenin Blanc) con un pizzico di cardamomo, zenzero e un po’ di zucchero; e sinceramente va detto che questo novello Ippocrasso non era niente male.

    Figlio del suo tempo, lIppocrasso, vino saporito e profumato, contribuiva a innalzare lo status symbol di chi lo offriva ai suoi ospiti; era, insomma, segno di un’elevata posizione sociale servire l’Ippocrasso in quest’epoca in cui nasce la «follia delle spezie» e per questo diventò l’elemento che completava i pranzi di gala. Ma dato che si parla di spezie, bisogna sfatare la convinzione errata secondo cui l’uso di queste servisse a coprire le puzze dei cibi mal conservati: leggendo attentamente le ricette medioevali, si nota una grande volontà di trovare nelle spezie nuove armonie ed equilibri ben meditati, per dare ai cibi e alle bevande nuove sensazioni organolettiche.

    Per tornare all’Ippocrasso, il momento più consono per il suo consumo era a fine pasto con i confetti, il marzapane e dolcetti vari, come oggi d’altronde si fa con i vari Porto e Marsala.

    / Davide Comoli

  • Da Padova alla Marca Trevigiana

    Bacco giramondo – Scorrazzando tra i colli veneti per degustare le perle di una terra ricca di vitigni autoctoni

    Bagnoli di Sopra è un piccolo villaggio della pianura sud-orientale che troviamo tra le provincie di Padova e Venezia, facilmente raggiungibile dopo pochi chilometri dall’uscita per Padova ovest.

    Terreni molto variati consentono di ottenere in questa zona vini di ottima qualità, già conosciuti in epoca romana; il solito Plinio aveva definito questi vini: saporem alienum, cioè diverso da altri da lui provati. Oltre ai soliti vitigni internazionali, troviamo tra i rossi il Refosco dal Peduncolo Rosso, il Tai Rosso, la Turchetta, la Corvina e la Cravara, la Marzemina Bianca e la Sciampagna tra le bianche.

    L’uva storica è però l’autoctona Friularo, imparentata con il Raboso. Il Friularo è un vitigno che matura molto lentamente, dai grappoli molto scuri e concentra negli acini zuccheri, acidità e piacevoli profumi. Oltre alla tipologia di vino secco, lo troviamo in versione Bagnoli Friularo Vendemmia Tardiva, con uve raccolte dopo San Martino; vino che accompagna in modo stupendo l’anguilla ai ferri e, nella versione Passito, può valorizzare il cioccolato fondente.

    Lungo la Strada del Vino tra Valdobbiadene, Treviso e Conegliano, è possibile ammirare tratti dovele vigne s’inerpicanocon una pendenza taleda costringere i viticoltoria orientare i filaridi traverso e girapoggio

    Percorriamo una decina di chilometri verso Strà, dove ci inoltriamo lungo la bucolica striscia di terra chiamata Riviera del Brenta, il cui fiume omonimo è l’ideale proseguimento del Canal Grande. Ci fermiamo a Mira, dove Bruno, un caro amico di vecchia data, ci rifocilla con gli stuzzicanti «cicchetti veneziani» (baccalà mantecato, polpettine di gamberetti, sardelle in saor, e via elencando), innaffiando il tutto con un frizzante Verduzzo, dalle vivaci sfumature verdognole, mentre sul Brenta di fronte a noi passa il Burchiello diretto a Venezia, carico di vocianti turisti.

    Da Mestre raggiungiamo poi l’uscita di Noventa di Piave in direzione Salgareda-Vazzola, entrando per un breve tratto nella D.O.C. Lison-Pramaggiore. L’Adriatico poco distante e il terreno ricco di carbonato permettono la produzione di vini ricchi di sostanze aromatiche, qui il Merlot e i Cabernet sono i vitigni più coltivati. Lison-Pramaggiore rappresenta inoltre una delle maggiori realtà nazionali per la produzione dei vini BIO. Come i vini della D.O.C. Piave, dove arriveremo tra poco: qui si trovano vini prodotti con un buon livello tecnico, che si contraddistinguono per un bel rapporto prezzo/qualità, ma attenzione perché quantità non significa qualità.

    Dal punto di vista vitivinicolo la provincia di Treviso presenta una grande ricchezza di vitigni. Le migliori zone sono quelle collocate nella parte più settentrionale della provincia, vale a dire Montello, Colli Asolani, Colli di Conegliano e Valdobbiadene, dove la vigna ha da sempre trovato gli ambienti e i terreni adeguati alle sue esigenze; clima temperato, esposizioni luminose e suoli magri. Siamo sulla sponda sinistra del fiume, in una zona detta Grave del Piave, per la presenza di ghiaie affioranti su cui la vite ha trovato larga diffusione: questa è la patria dell’autoctono Raboso, vino dai profumi di viole e di more, con un’acidità marcata, rustici tannini e di buona struttura.

    A Cimadolmo giriamo a destra e attraversiamo il Piave in direzione di Spresiano, passando sulla grande isola detta Grave di Papadopoli, formatasi in seguito all’alluvione del 1832. Passando in queste zone, il ricordo torna alla nostra fanciullezza, quando nonno Giovanni (1894) «caporalmaggiore», mi raccontava dei suoi ricordi di guerra in queste zone e del terribile anno passato nelle trincee lungo il corso del fiume Piave.

    Attraversiamo Volpago del Montello sulla S248 dove sostiamo in una storica cantina per poter provare un Venegazzù, rosso di taglio bordolese, Cabernet Sauvignon 40%, Merlot 30%, Cabernet Franc 20% e Malbec 10%, maturato in botti grandi per 48 mesi; un vino capace di resistere al tempo con efficacia.

    Siamo nella zona del Montello e dei Colli Asolani, un gruppo collinare disposto a corona a nord ovest della cittadina di Asolo. Ai piedi del Montello troviamo il centro di Montebelluna, sulla sponda destra del Piave, su terreni composti da ghiaia e argilla. Come per il Venegazzù, i vitigni rossi internazionali, che abbiamo sopracitato, danno vini dai profumi di marasca e leggermente erbacei.

    Tra i bianchi si è valorizzato il Manzoni Bianco e la Bianchetta Trevigiana, ma stiamo per entrare nel regno del vitigno Glera da cui si ottengono diverse denominazioni di Prosecco, in loco infatti il vino di punta è il Colli Asolani Prosecco D.O.C.G., menzione arrivata nel 2008.

    Riattraversiamo il Piave e arriviamo al Valdobbiadene, siamo nella Marca Trevigiana, racchiusa tra il citato Valdobbiadene, Vittorio Veneto e Conegliano: racchiusa tra queste tre cittadine, la zona è ormai internazionalmente conosciuta per il vino Prosecco, che si può trovare e degustare in tutte le sue sfaccettature, nelle numerose aziende vinicole sparse lungo le strade che si inerpicano tra i pendii, alle volte molto ripidi, dei colli ricoperti di vigne.

    Approfittando della luce delle lunghe giornate estive, ritardiamo il nostro arrivo in albergo, facendo un giro tra le pendenze dei colli delle frazioni di Saccol, Santo Stefano e San Pietro di Barbozza, 107 ettari di vigneti destinati al cru del Cartizze.

    L’aperitivo da noi provato, un Prosecco Superiore di Cartizze 2018, di un giallo paglierino, con un fitto perlage, al naso profuma di pera sciroppata e camomilla, ottimo per stuzzicare l’appetito, così come il Prosecco Superiore Rive Extra Dry 2018, metodo Charmat, dal brioso perlage, dai sentori di mela, buccia di pera, ananas e miele di tiglio, che ha accompagnato il nostro risotto al radicchio, preceduto da filetti d’acciughe ripiene di un impasto di olive, capperi e origano. A titolo d’approfondimento, la menzione Rive sta a indicare un vino prodotto nelle vigne più scoscese; oltre al Glera possono intervenire piccole quantità di PereraVerdiso e Bianchetta, che donano profili diversi ai vari Prosecco.

    Percorrendo la Strada del Vino tra Valdobbiadene, Treviso e Conegliano, è possibile ammirare dei tratti dove le vigne s’inerpicano con un’inclinatura che sfiora il settanta per cento e costringono i viticoltori a orientare i filari di traverso e girapoggio: è uno spettacolo che riempie l’anima fermarsi a guardare le vigne e la campagna circostante o sostare per una degustazione. Basterà seguire i cartelli e andare dove porta l’ispirazione del momento.

    Una breve sosta a Refrontolo per un panino con la «soppressa» e un Prosecco Frizzante rifermentato in bottiglia a cui seguirà un calice di profumato, dolce e vellutato Refrontolo Passito, prodotto con grappoli di Marzemino su graticci, una vera chicca!

    Alle porte di Vittorio Veneto, visitiamo il Museo della Battaglia e approfittando della sosta, acquistiamo un’altra gemma di questa terra, il dolcissimo Torchiato di Fregona, dagli intensi sentori di miele d’acacia.

    La S51 ci riporta quindi a Conegliano, una tappa piacevolissima sia per l’arte sia per la cucina, dove il classico poenta e osei chiude in magnificenza la giornata, accompagnato da uno strutturato Colli di Conegliano Rosso. E prima di rientrare in Ticino, la mattina dopo visitiamo la Scuola Enologica fondata nel 1876, un’istituzione molto attiva che forma decine di giovani enologi, luogo che è considerato la culla della spumantistica del Prosecco.

    / Davide Comoli

  • Omar Khayyâm: il poeta del vino e delle rose

    Vino nella storia – Dall’Iran, le trasognate quartine di un erudito che godeva di grande stima presso i sapienti e i potenti del suo tempo

    Omar Khayyâm è uno dei massimi e più celebri uomini di cultura dell’Iran. Non sappiamo quasi nulla della sua nascita, eccetto che  avvenne in uno degli anni della prima metà del V secolo dell’Egira (migrazione), nel 1030 d.C. circa. Anche della sua vita abbiamo notizie molto scarse e, per quel poco che sappiamo, sono frutto di aneddoti e antichi riferimenti alla sua opera o alla sua persona. L’immagine che ci è pervenuta mostra un uomo molto saggio e attento a tutto ciò che lo circonda.

    Senz’altro Omar Khayyâm fu un uomo molto erudito che godeva di grande stima e privilegio presso i sapienti e i potenti del suo tempo: oltre a sapersi districare in matematica (sua l’introduzione all’algebra), fisica, astronomia (fece parte della commissione incaricata di riformare il calendario secondo calcoli astronomici), filosofia e medicina (seguendo Avicenna), fu anche un poeta, e a noi piace pensare a lui come un umanista in anticipo di qualche secolo sull’Umanesimo.

    Impossibile non provare ammirazione e rispetto per un tal personaggio che, pur apparendo quantomeno controverso, per alcuni fu ateo, scettico, propenso alla bestemmia; per altri invece (tra cui noi), fu un filosofo e autore di versi intrisi di filosofia epicurea, i quali ripetono spesso un vecchio refrain, già espresso da molti prima di lui: «Bevi e sii felice». Attenzione però a non dedurre dalle Quartine che Omar Khayyâm fosse un uomo dissoluto, noncurante, fu invece solo un grande estimatore e bevitore di vino. Nel linguaggio dei poeti, il vino assume spesso il significato di mezzo per arrivare alla felicità e tranquillità della mente. «Sappi che l’attimo è una bottiglia» recita il poeta, e invitava ad afferrarlo questo attimo «Carpe diem!», Orazio, più di dieci secoli prima.

    È solo grazie al letterato inglese Edward Fitzgerald (1809-1923), affascinato dai bei versi, se l’opera di Khayyâm divenne nota: egli, infatti, nel 1859 li traspose nella propria lingua e fu subito un successo. Evidentemente il pensiero di Khayyâm interessa ancora molta gente visto che le sue Quartine sono tradotte nei quattro angoli del mondo. Forse anche personaggi come Baudelaire e Neruda si ispirarono a lui.

    Nato e vissuto in area musulmana e in modo inequivocabile di cultura islamica, in un periodo in cui in Europa l’imperatore Enrico IV e il pontefice Gregorio VII, dentro le mura del castello di Matilde di Canossa, si scontravano su chi avesse il diritto di nominare i vescovi, Omar Khayyâm è per noi «enofili» un vero «Maestro».

    La poesia che ci è giunta dall’antica Persia – vedi Abu Nawàs (760-815 d.C.), Hafez (1319-1390) – è intrisa di suoni e colori tipici del mondo orientale, del profumo delicato dei fiori, dei colori delle pietre preziose e degli accordi del liuto pizzicato da giovani fanciulle. Ma tra questi poetici arabeschi, il vino occupa una posizione di rilievo e Omar Khayyâm ne è un fine estimatore: «Rosa rossa è il vino, la coppa è d’acqua di rosa. Nel fior di cristallo riposa un rubino vergine. Nell’acqua della vite, sfolgora un rubino fuso». Nelle sue quartine ritroviamo molta saggezza, come quella che contiene un impensato invito alla moderazione nel bere: «Se bevi vino, bevilo insieme ai sapienti. O insieme a una bella fanciulla dal volto di tulipano; non prenderne molto, né di frequente, né in pubblico. Ma poco, ogni tanto e in segreto». Ma molto probabilmente, come capita a tutti noi, si tratta della debolezza di un attimo, dettato chissà da che cosa, perché subito dopo aggiunge: «O Khayyâm, sei ebbro di vino, sta lieto. Se te la spassi con belle dal volto di luna, sta lieto. Poi che ogni cosa del mondo nel nulla finisce, pensa che tu sei nulla, ma già che ci sei, sta lieto».

    Cari lettori che ci seguite, vi dobbiamo confessare che un piccolo volume delle opere di Khayyâm è sempre inserito nella nostra borsa da viaggio insieme alle cose necessarie (medicamenti e igiene personale), i temi trattati, che vanno dal trascorrere del tempo, ai piaceri, alle tristezze, il senso della vita e della morte, grazie al vino (per cui Khayyâm fu accusato di empietà) come simbolo vengono legati tra loro da un filo doppio. Spesso la lettura di queste quartine ci ha fatto compagnia, donandoci momenti di serenità, aiutandoci a godere della vita con un po’ più di filosofia e distensione.

    La lettura delle quartine possiede uno stile e un’eleganza trascinanti: il poeta non adorna i suoi scritti e non ostenta la sua arte, sa di essere ironico, senza mai essere canzonatorio, non è mai ostile al prossimo e con parole dense di riflessione, offre consigli e ammonimenti. Qualche volta Khayyâm avverte l’opportunità di fornire un ragionevole motivo per la sua grande passione per il vino: «Se io bevo vino non è per un mio piacere personale e non è per sregolatezza o sprezzo della religione o della morale. No. È solo per respirare una boccata d’aria fuori da me stesso».

    Sappiamo dagli aneddoti che Khayyâm rifiutò spesso alte cariche che gli venivano offerte, preferendo una piccola indennità che gli consentisse di dedicarsi ai suoi studi: «Felice, in questo mondo colui che condur seppe libera vita. E sempre contento di quel che Dio donava, ebbe libera vita. Da ogni momento dell’esser suo, seppe trarre allegria sana. E, amor puro e vino schietto, fare gaia e libera la vita». Altre volte, magari in momenti negativi, sfida il difficile terreno religioso, ponendo i suoi problemi direttamente al Creatore: «Tu sei il Creatore, e me così Tu creasti, così follemente amante del vino e delle belle canzoni! Poiché così mi formasti già fin da prima del Tempo, per qual mai ragione poi nell’Inferno mi getti?».

    Problemi che, tuttavia, grazie alla vicinanza di una fanciulla e un calice colmo di vino possono essere risolti: «Da una mano la coppa, e dall’altra le belle trecce. Seduti al bordo di un prato di buon paesaggio e gaiezza. E bere, bere, non pensando alla sfera ove girano i cosmi. E bere, bere da crollare, ebbri insieme del vin d’ebbrezza».

    In molti versi del Corano, il Paradiso viene presentato come il luogo dove si realizzano tutti i desideri, fiumi di latte, vino speziato, miele, giovani fanciulle di bellezza straordinaria, ma il poeta pur non negando tutto ciò… «Dicono: Domani avremo le Huri, il celeste Gange. Ruscelli di zucchero e latte, polle di miele e vino! Intanto, empi la coppa e dammi vino di quaggiù: un solo zecchino supera la beltà di mille promesse».

    Grazie alla nostra guida Mohamoud, nel maggio di qualche anno fa, giungemmo alle porte di Nishapur, nell’Iran nord-occidentale, dove con grande emozione abbiamo visitato il luogo dove Omar Khayyâm fu sepolto. Spirava un leggero vento che faceva cadere i fiori di pesco dai rami sopra il muro che circonda il giardino. In quell’oasi di pace, lo stormire delle foglie ci portò alla mente una delle quartine più famose: «Sotto un rosaio, accanto un idolo, a un ruscello col vino, gusterò la mia gioia, finché vorrà il Destino. Fin quando fui, sono e sarò, nel mesto mondo, bevvi, bevo e berrò».

    / Davide Comoli

  • Da Soave ai Colli Euganei

    Bacco giramondo – Prosegue il viaggio enogastronomico nella regione del Veneto

    Sul numero del 3 gennaio 2022, giunti con il nostro viaggio tra le regioni vitivinicole italiane nel Veneto, avevamo concluso la giornata a Pescantina. Lasciandoci alle spalle Verona, imbocchiamo la SR11. Superato San Martino Buon Albergo, nota località termale, arriviamo a Soave, cinta da turrite mura medievali, dalla cui Rocca lo sguardo spazia sulle circostanti colline ricoperte da una fitta selva di vigne.

    Sono ben più di seimila gli ettari vitati che fanno di Soave la D.O.C. italiana con la più alta produzione di vini bianchi fermi. L’importante Cantina Sociale ci ospita per una visita. Qui, sui rilievi collinari delle valli d’Alpone, del Tramigna, dell’Illasi e di Mezzane, il vitigno Garganega ha trovato l’habitat ideale per la produzione di grandi vini bianchi: le radici di questo vitigno traggono infatti nutrimento da suoli di origine vulcanica, ricchi di calcare e fossili marini.

    Appena aperto al naso è leggermente chiuso, il nostro Soave Classico ricorda lo zolfo, ma subito dopo ci dona un’esplosione di fiori di campo e si percepisce in modo chiaro la mela renetta. Diverso è il Soave Superiore D.O.C.G., che oltre alla Garganega 70%, contiene una parte di Trebbiano Veronese, che dona struttura, e Chardonnay con profumi di frutta tropicale e note di ginestra dal lungo finale. I biscotti secchi appena sfornati fanno da corona a un vero principe: il Recioto del Soave, ottenuto da grappoli fatti appassire sui graticci o appesi ai fili (picai); dal colore dorato, è un concentrato di frutta disidratata e miele, dolce e vellutato, emana poi note di fiori d’arancio e l’inconfondibile finale di mandorle.

    Ci dirigiamo verso nord, attraversiamo Monteforte d’Alpone risalendo l’omonima valle tra vigne e frutteti, svoltiamo a destra e arriviamo a Roncà, situata su un antico cono vulcanico, della parte più orientale dei Monti Lessini, ma la nostra meta è il vicino borgo di Santa Margherita, famosa per il suo vino bianco Durello, prodotto con 85 % dell’autoctona uva Durella e il restante 15 % di Pinot Bianco. Lo Spumante Lessini Durello D.O.C. è stato un aperitivo molto apprezzato, soprattutto per la sua mineralità che svela la natura vulcanica del «terroir».

    Lasciamo la provincia di Verona ed entriamo in territorio vicentino. La distanza dalla zona del Soave è minima e la liaison tra le due zone è data dal vitigno Garganega, che però in questa zona matura su terreni calcarei-argillosi. A Gambellara questo vitigno è senz’altro il simbolo del territorio: viene prodotto in versione ferma, spumante e passito. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter gustare anche il Vin Santo di Gambellara, prodotto solo nelle annate migliori, dopo aver goduto del bianco locale con il classico «Riso e bisi».

    Ritorniamo sulla SR11, attraversiamo Montecchio, dove dai due castelli intitolati a Romeo e Giulietta, si ha una bella vista sulla pianura e su Vicenza. Dopo qualche km, svoltando a sinistra, prendiamo la 349 in direzione Thiene e poco prima del grosso centro manifatturiero svoltiamo a destra in direzione di Breganze.

    La zona della D.O.C. Breganze è situata su un’area collinare con dei tratti pianeggianti, tra i fiumi Astico e Brenta, favorita da un clima mite, dove crescono anche gli olivi. Molto diversi sono i terreni che troviamo in quest’area, infatti i suoli sono vulcanici-calcarei, di colore giallo-biancastro, fertili, compatti e ricchi di ghiaia lungo il corso dei due fiumi. In questa zona i vitigni internazionali hanno trovato un luogo ideale per la loro maturazione. Oltre a questi, sui 450 ettari vitati, troviamo il Bianco Friulano, i rossi locali come il Marzemino, il Gruaja, il Pedevenda e il Groppello.

    Ma il vero gioiello della D.O.C. Breganze è il vitigno Vespaiola. Da notare che vitigni con il nome simile li ritroviamo anche in altre parti d’Italia e si possono accomunare per la predilezione delle vespe, dovuta alla ricchezza di zuccheri propria del frutto. Da questo vitigno si ottiene il Vespaiolo, un bianco molto indicato con le preparazioni a base di asparagi, ma soprattutto, elaborato con i grappoli più spargoli, letteralmente attorcigliati a coppie di lunghe fila di spaghi (localmente chiamati torcolati), lasciati appassire, appesi alle travi delle soffitte e vinificati il febbraio successivo alla vendemmia. Il Torcolato è invece il vino immagine di questa zona. Dal colore ambrato, ricco di sentori di frutta candita, rose appassite, fiori d’arancio, uva passa e miele speziato, è un vino ricco che non finisce di stupirci, lungo sia all’olfatto sia al gusto.

    I vini rossi di prestigio in questa zona sono prodotti con le internazionali uve Merlot Cabernet, vinificati sia come monovitigno, sia in «blend», che non hanno niente da invidiare ai «cru» bordolesi. Degno di nota è pure il Pinot Nero (la zona vanta una delle superfici più coltivata a questo vitigno della penisola), che con le sue note di fragoline di bosco e lamponi, è stato l’ottimo compagno dei «Torresani allo spiedo» (piccioni cotti al fuoco di legna), gustati alla sera a cena a cui hanno fatto seguito le ciliegie sotto grappa della non lontana Marostica.

    Ritornando verso Thiene abbiamo preso la S349 direzione Vicenza e quindi la S247. A sud di Vicenza si estende un paesaggio modellato dai Colli Berici, caratterizzato da un alternarsi di pianura e colline immerse nei vigneti: qui sorgono alcune tra le più belle ville del Palladio. Dal punto di vista vinicolo la zona è la patria della D.O.C. Colli Berici, dove vengono coltivati oltre ai soliti «internazionali» la Garganega e il Manzoni Bianco (Riesling Renano x Pinot Bianco) e il Tai Rosso, che degusteremo dopo aver visitato la stupenda Villa Valmarana ai Nani, immersa tra le vigne e aver goduto, «gioia per gli occhi», lo straordinario ciclo di affreschi di Giovan Battista e Giandomenico Tiepolo e subito dopo una delle migliori opere del Palladio: la Rotonda di Villa Almerico Capra. Dopo aver nutrito lo spirito, passati per Castegnero, procediamo verso Nanto, lungo la Strada del Tocai Rosso, ci immettiamo di nuovo sulla S247 e dopo un paio di chilometri giriamo a destra, dove situato sulle pendici orientali dei Monti Berici arriviamo a Barbarano Vicentino, comune di tradizione vinicola, dove si coltiva il vitigno simbolo della zona, il Tai Rosso, che in questo luogo prende il nome di Barbarano. I vari formaggi e salumi locali, tra cui il prosciutto crudo Veneto Berico-Euganeo, sono i degni compari dello spuntino che esaltano i fragranti ricordi di ciliegia e viole ritrovati nel nostro Tai Rosso. A Ponte di Barbarano si gira a destra e si entra in provincia di Padova, siamo nella zona dei Colli Euganei, famosi per le terme, ma pure per i vini. Isolati sia dalle Prealpi sia dai Monti Berici, i Colli Euganei con un’altezza massima di 600 m, si trovano a sud di Padova. Siamo a Rovolon, da cui si gode un magnifico panorama su Abano Terme e la pianura sottostante.

    L’ottima esposizione e le rocce sedimentarie marine rendono possibile la coltivazione di numerosi vitigni e la conseguente produzione di molti vini diversi, da bersi giovani.

    Amici di lunga data ci hanno accolto al Montegrande di Rovolon. Un floreale Pinello (l’autoctono Pinella) ha aperto le danze, il Serprino Frizzante (Glera) ha accompagnato una «torta salata alle erbette», il Manzoni Bianco è stato il compare delle «seppie al tegame», il Rosso Gemola 2013 (Merlot 20%, Cabernet Franc 30%), caldo, balsamico con ricordi di resina, sposo del «fegato alla veneta con cipolle bianche», il famoso Moscato Fior d’Arancio D.O.C.G., dagli avvolgenti profumi di zagara, l’ideale partner della «Tarte Tatin».

    / Davide Comoli

  • Cronache vinarie del XII-XIII secolo

    Il vino nella storia – In quel periodo bianchi e rossi venivano imbarcati in grossi tonneaux di circa mille litri

    Montsoreau è un piccolo villaggio della Loira (Coteaux de Saumur). Accanto al suo castello – costruito con il tufo, fece da cornice a un famoso romanzo di Alexandre Dumas – si trova l’Abbazia di Fontevraud, nella quale si trova la tomba dei Plantageneti. I nostri viaggi enologici sono incappati spesso in luoghi dove storia e vino s’intrecciavano raccontandoci molte leggende: qui a Fontevraud, la storia ci avvolge nel suo manto e ci sembra di rivedere, come in tante pellicole, le gesta di Riccardo Cuor di Leone, Enrico II e della regina di Francia Aliénor d’Aquitania.

    Siamo nella prima metà del 1100, periodo in cui la città di Bordeaux s’ingrandisce e s’abbellisce di molti edifici, mentre la viticoltura s’insedia dove prima c’erano zone pietrose, paludose, terreni sino ad allora privi d’agricoltura, disboscando anche le foreste che circondavano la città; molti ceppi di vite sono impiantate nei terreni acquitrinosi sulla riva sinistra della Garonna. Iniziano in questo modo per Bordeaux viticolture reale, vescovile e borghese, unite tutte sotto lo stesso vessillo: quello del profitto.

    Sposando Aliénor, Enrico II assume anche il titolo di Duca della Guyenne, titolo che gli permette, nel 1178, di accordare alla città della Rochelle, dove fa costruire un nuovo attracco per le navi, una «Charta» grazie alla quale viene concesso agli armatori dell’Île d’Oléron il diritto di giurisdizione marittima sia dell’Atlantico sia del Baltico.

    Grazie al porto, la Rochelle diventa la base commerciale più importante per il commercio marittimo dell’Atlantico, attirando molte imbarcazioni di grossa stazza. La sua posizione sul mare permette a imbarcazioni dal grosso pescaggio di salpare dal suo porto. Le cronache riportano di vascelli che potevano caricare sino a 170 tonneaux de vin, quindi una quantità molto superiore alle barche a fondo piatto che faticosamente da Bordeaux dovevano risalire l’estuario, provenienti dalla bassa Dordogna e dalla zona oggi conosciuta come Entre-Deux-Mers.

    Non avendo conosciuto guerre, il territorio intorno alla Rochelle in poco tempo si copre di vigneti e i suoi vini vengono inviati in parecchie corti del nord, facendo cadere i vini di Bordeaux in una piccola crisi. Sono giunti fino a noi i nomi dei vitigni coltivati all’epoca nel Poitou: Cherière era un vitigno bianco e si pensa che sia l’antenato dello Chenin Blanc dei giorni nostri e un rosso chiamato Chauce, forse l’antenato del Pinot Nero.

    Come abbiamo accennato il vino veniva imbarcato in grossi tonneaux di circa mille litri, da qui la nascita della parola «tonnellata» che sta a indicare ancora oggi la stazza delle navi.

    Nel 1189 in pieno conflitto famigliare con i figli Riccardo Cuor di Leo-ne e Giovanni senza Terra, Enrico II rende l’anima a Dio. L’erede Riccardo, che incarna gli ideali cavallereschi dell’epoca, scialacqua in breve tempo l’ampio patrimonio paterno, partendo per la III crociata (1190), lasciando in disastrose condizioni economiche l’Inghilterra. Approfittando di questa situazione, Giovanni senza Terra, con la regia di Aliéron che tesse le trame, cerca d’impossessarsi del trono.

    Filippo II di Francia, non perde l’occasione e attacca con caparbietà i possedimenti di questi suoi pericolosi vassalli, conquistando la Normandia, con la vittoria di Bouvines nel 1214. Per premiare questa impresa a Filippo II viene aggiunto il titolo di «Augusto», colui che «augebat rem publicam» («accresce la repubblica»).Possedere delle vigne ed essere in grado di servire vini pregiati ai nobili ospiti in visita aumentava il prestigio del nobile di turno: era infatti un onore ricevere per poi restituire il favore.

    Con il ritorno di molti nobili dalla III crociata, arrivano anche nuovi vitigni, portati lungo le rotte mediterranee della Terrasanta. In quel tempo erano molto apprezzati i vini bianchi dolci prodotti da uve Moscato e Malvasia, lasciate ad appassire al sole, che senza dubbio erano ricchi di alcol con un alto tenore zuccherino residuo, come i vini di Corfù, Zante e Cipro, divenuta nel 1192 un feudo cristiano. Molto apprezzato era l’Osoye, l’antenato del Moscatel de Setúbal, ma anche vini di Grenache, rossi poco zuccherini, ma possenti.

    Fino alla caduta (3 agosto 1224) del suo porto, la Rochelle continua a inviare in Inghilterra migliaia di tonneaux di vino: i documenti dell’epoca lo dimostrano. Sentendosi abbandonata, la città passa dalla parte francese. È il momento che Bordeaux attendeva, fedele alla corona inglese. Grossi carichi di vino provenienti dalla Guascogna, risalgono la Garonna, il Tarn, la Dordogna, verso l’estuario facendo rotta lungo la costa inglese, usando Bordeaux come scalo intermedio. Un documento parla addirittura di mille tonneaux di «Clairet», il famoso vino di una notte, inviato a Gloucester per la festa di Pentecoste del 1226.

    Il trovatore normanno Henri D’Andeli, nato a Rouen alla fine del XII secolo, scrisse nel 1230 un poemetto di 204 versi in omaggio a Filippo Augusto, per onorarlo dopo la sua dipartita (1223). Filippo Augusto era molto amato per aver reso il regno di Francia uno dei più potenti della sua epoca. Famoso per il suo forte appetito, ma soprattutto grande bevitore, disprezzava il vino rosso e amava i buoni vini bianchi (sempre solo bianco!). Il poemetto è passato alla storia come: La Bataille des vins.

    Vede Filippo II presidente a un concorso di vini che si producevano sia dentro sia fuori dal regno, per eleggere il migliore. Come assistente, non sceglie né un vigneron né un negoziante di vini, ma un prete inglese, forse per dimostrare quanto gli inglesi fossero degli ottimi conoscitori, ma soprattutto grandi clienti. Peccato che il prete, ubriaco fradicio, muoia dopo appena tre giorni di degustazione.

    Il Re, sempre lucido, nomina vincitore il bianco di Cipro (quale Papa) e un vino bianco di Aquileia (come Cardinale), mentre, quali tre re e tre Conti, quasi tutti vini del nord della Francia, che sgominano così molti vini rossi. Nessun vino proveniente da Tolosa, da Albi o della Languedoc viene nominato.

    / Davide Comoli

  • Nella terra dell’Amarone

    Bacco giramondo – Le colline del Garda e della Valpolicella-Veneto – Prima parte

    Alcuni reperti fossili di ca. 40 milioni di anni fa, rinvenuti nella «pescaia» di Bolca di Vestenanova sui Monti Lessini, avevano fissato nella roccia l’immagine di alcune foglie ed infiorescenze delle Ampelidee, progenitrici dell’odierna Vitis vinifera sativa.

    L’uomo non era ancora comparso sul pianeta e per ritrovare altri segni degni di nota sul nostro tema, si deve arrivare all’era delle palafitte, lungo le coste del lago di Garda, sia sulla sponda bresciana, sia a Peschiera e Lazise nel Veronese, dove furono rinvenuti vinaccioli ed utensili collegati «forse» a rudimentali processi di vinificazione. Questo testimonia l’intenso legame che il Veneto ha con la viticoltura. Forse è proprio in virtù di questa secolare tradizione che il territorio di questa regione si presenta molto vario e ricco dal punto di vista ampelografico.

    Intorno al 1000 a.C. i Veneti si insediarono nella regione, seguiti tra il VII e V sec. a.C. dagli Etruschi e dai Reti Arusmati, il loro incontro portò un certo successo nell’arte della vinicoltura. La fama del vino Retico arrivò con la dominazione romana e più tardi con le invasioni barbariche, che portarono alla decadenza la coltura della vite. Intorno all’anno 1000 la coltura della vigna pare diventare l’attività prevalente, prosperando sotto la Serenissima Repubblica di Venezia.

    Tra momenti di alta produzione e altri più drammatici come l’inverno del 1709 e la «filossera» del secolo scorso, oggi il Veneto è la principale regione italiana per quantità di uva prodotta, ma anche per la produzione di vini, quasi 9 milioni di ettolitri, su di una superficie vitata di ca. 80’000 ettari, dove un ruolo di particolare rilevanza per la penetrazione nei vari mercati, è stata data dal «fenomeno» Prosecco, ma è il Soave, con le sue varie tipologie di vini e i suoi 7000 ettari collocati sulle colline della parte orientale di Verona, che detiene la palma del «più esteso vigneto d’Europa».

    I quasi 19’000 kmq del territorio Veneto, vengono occupati dal 56,4% da pianura, 29,1% da montagna e il 14,5% da collina, sui quali predomina un clima temperato subcontinentale, dove l’azione mitigatrice del Mar Adriatico e la protezione dai venti freddi del nord data dalle Alpi, svolgono un ruolo molto importante.

    Il Veneto presenta dei terreni molto variegati che permettono ai vari vitigni di esprimersi su diversi livelli di qualità. Sulle sponde limitrofe al lago di Garda (sponda veronese), troviamo due diverse zone, dove i vitigni come il Corvina, Rondinella, Molinara, Rossignola e Corvinone, si esprimono in modo diverso. Sui terreni morenico-glaciali della zona di Bardolino, troviamo vini freschi e fruttati, mentre in Valpolicella con i suoli ricchi di argilla, arenaria e calcare, danno vini ricchi di colore, corpo, speziatura e mineralità. Per ottenere vini più ricchi di profumi è diffusa la pratica «dell’uvaggio», la Corvina assicura colore, profumi fruttati, floreali e acidità, la Rondinella apporta corpo, profumi speziati e armonia, la Molinara acidità e un gusto delicatamente amarognolo.

    Uscendo dalla A4 provenienti da Milano, usciamo a Peschiera del Garda e bordeggiando il lago arriviamo a Lazise, piacevole borgo lacustre, dove ci concediamo una piccola pausa concedendoci un buon bicchiere di Lugana, qui chiamato Turbiana, dai piacevoli profumi di fiori bianchi, agrumi e albicocche, la sua struttura suggerisce di abbinarlo ad un piatto locale come la «tinca con polenta». Questa è una terra tutta da bere, dove i vini si sposano a meraviglia con i piatti della tradizione scaligera. Proseguiamo in direzione nord, verso Bardolino, celebre per l’omonimo vino rosso. I suoli morenici e l’escursione termica tra il giorno e la notte, permettono di ottenere un vino dai sentori di ciliegia, frutti di bosco e una piacevole speziatura. Il Bardolino Superiore Classico è stato il primo vino rosso veneto ad ottenere nel 2001 il riconoscimento D.O.C.G.

    Il rosa intenso, il frutto rosso quasi di macedonia e i profumi leggermente floreali del Bardolino Chiaretto che abbiamo gustato nella pausa di mezzodì, è stato il giusto abbinamento alla nostra «insalata estiva di pesci di lago».

    La Valpolicella è la zona collinare che si estende a nord di Verona, solcata dai corsi d’acqua di tre torrenti (qui chiamati «progni»), che dai Monti Lessini scendono verso l’Adige, formando 3 valli parallele, dove il paesaggio è dominato dai vigneti e da eleganti dimore. Qui allevati con la classica «pergola veronese» i vitigni sopracitati e in misura minore la Forselina, la Negrara e l’Oseleta, danno vini di prestigio come: il Valpolicella Superiore, il Ripasso della Valpolicella, l’Amarone e il Recioto.

    Arrivando da Bardolino, entriamo in quella che viene definita la zona Classica di produzione dei vini della Valpolicella, caratterizzata da 5 aree geografiche che producono vini dalle caratteristiche organolettiche differenti. A Sant’Ambrogio, famoso anche per il suo marmo rosso, su terreni calcarei, si ottengono vini longevi, strutturati e di una contenuta acidità. Scendendo a valle lungo il torrente, arriviamo a Fumane, i vigneti si trovano su rocce calcaree stratificate e i vini ottenuti hanno delle note floreali, morbidi, di corpo e una buona longevità in cantina. Salendo la Valle del progno Marano, raggiungiamo il villaggio che porta lo stesso nome, è questa una delle zone più coltivate, situata tra i 300-400 m, i suoli sono costituiti da vulcaniti basaltiche, i vini prodotti sono molto eleganti, con intensi profumi di ciliegia e prugna secca, con una buona acidità. In loco abbiamo provato tra l’altro un Recioto della Valpolicella Classico 2014, dal colore rubino molto concentrato, al primo impatto olfattivo ci ha colpito il sentore di erbe officinali, seguito subito da profumi di confettura di frutta matura, con un finale che ci ha avvolto in un abbraccio di cacao e spezie, lo abbiamo provato con i «bussola», delicati biscotti con pinoli, canditi, mandorle, cioccolata a pezzi, pepe e noce moscata, il ricordo dei quali ci fa tornare l’acquolina in bocca. Forse il moderno Recioto è l’erede prodotto più di 2000 anni fa con uve appassite.

    Scendendo una piacevole vallata bordata da colline di cipressi, arriviamo nel tardo pomeriggio a Negrar. Questa zona vanta la produzione dei «cru» più prestigiosi: su un suolo argilloso-limoso, le uve danno vini di grande struttura e longevità, con un’eleganza fuori dal comune. Nel tardo pomeriggio passando da Pedemonte, dove visitiamo la Villa Serego-Boccoli (XVI sec.), progettata dal Palladio, attraversiamo San Pietro in Cariano, storico centro politico e amministrativo della Valpolicella, dove su terreni alluvionali chiude a sud la zona Classica, producendo vini dalle note balsamiche e speziate.

    Con gli amici Piero ed Ercole, alla sera ci fermiamo a Pescantina, dove in località Ospedaletto siamo ospiti della famiglia Tommasi, nel complesso seicentesco di Villa Quaranta. I «bigoli (specie di grossi spaghetti) con il sugo d’anatra», vengono innaffiati da un’intrigante e fresco Valpolicella Superiore, mentre la classica «pastissada de caval» (stufato di cavallo con pomodoro), viene esaltata da un magnifico Amarone de Buris 2008, una vera eccellenza, quasi impenetrabile alla vista, con un’incredibile concentrazione di frutta rossa: un vino grandioso che raggiunge i vertici dell’eccellenza, che il nostro anfitrione ha voluto con grande signorilità condividere con noi.

    / Davide Comoli

  • Nelle vigne del Signore

    Vino nella storia – Quel che si deve ai monaci dei secoli XII-XIII: dai Benedettini delle origini, passando dai Cluniacensi, fino ai Cistercensi

    Il vino è sicuramente uno dei temi attorno al quale, sia pure con gli equivoci sfondi delle taverne, si sviluppa quel poco di poesia laica che il Medioevo è riuscito a farci pervenire. Il vino, tutto sommato, resta una delle poche fievoli luci che riescono a illuminare quelli che noi chiamiamo «secoli bui».

    Una luce che, forse grazie ai Clerici Vagantes, riesce a trovare uno spiraglio nello spazio lasciato di proposito aperto nei massicci portoni dei monasteri, per permettere l’ingresso alla bevanda sacra a Bacco. Uno spiraglio incredibilmente lasciato socchiuso dalla rigida Regola di San Benedetto, disposta a fare concessioni riguardo il prodotto della vigna.

    Nel capitolo XL della Regula Benedicti, intitolato De mensura potus (La misura della bevanda; ovvero La quantità del bere), si ritiene che – in linea di massima – per ogni monaco «un’emina* di vino al giorno sia sufficiente» (*misura greca che equivale a circa ½ litro), e non trascura di aggiungere che «quelli ai quali Dio dà la forza di astenersene sappiano che avranno una ricompensa particolare». In ogni caso continua: «se le esigenze locali o il lavoro o il caldo d’estate richiederanno di più, stia al superiore giudicarlo, badando che in nessun caso subentri sazietà e ubriachezza». Alla base di questa concessione della Regola, c’è una considerazione che poggia sul buon senso: «Siccome oggi non è possibile persuadere i monaci, acconsentiamo almeno che non si beva fino alla sazietà, ma con moderazione, perché il vino fa apostatare anche i saggi».

    Quanta saggezza! Se proprio il peccato non si può evitare, che almeno lo si commetta senza suscitare troppo scandalo.

    Per questi peccati minori («veniali» cioè «perdonabili»), nel Medioevo la Chiesa con un colpo di genio, s’inventa anche il luogo per l’espiazione: il Purgatorio.

    Il secolo XI ebbe un inizio (994) e una fine (1109). Fu il secolo che dipanandosi, diede avvio a un profondo cambiamento nella storia dell’Europa occidentale: l’assoluta affermazione della superiorità e centralità della Chiesa di Roma, l’innalzamento a legge indiscutibile di tutte le norme elaborate a Roma e il passaggio in secondo piano di tutte le altre Chiese locali.

    In quel tempo già molti monasteri si erano un po’ allontanati dalla Regola benedettina; la tolleranza agli eccessi di carne e di vino era divenuta a poco a poco un’abitudine. E proseguì fino a produrre una reazione contraria. Una grossa spinta al ritorno a un modello di vita monastica che accentuasse gli aspetti penitenziali e ascetici della Regola benedettina, perseguendo con maggior rigore la povertà e l’isolamento, fu data dall’Abbazia di Cîteaux (Cistercium), fondata nel 1098 da Roberto Molesme. Nel 1119, l’abate Stefano Harding formalizzò la proposta religiosa contenuta nella Carta Caritatis, con la quale i Cistercensi rifiutavano inizialmente i diritti signorili e quelli connessi con il controllo delle chiese. Anche se alla fine del XIII sec., certi ideali cominciarono a venir meno, la regola Cistercense ci ha lasciato un’immagine positiva della figura del monaco, non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche per quel che concerne la gestione economica.

    Più dei Benedettini delle origini, i monaci Cluniacensi, e ancora di più i Cistercensi, diventano dei viticoltori. In Borgogna questi ultimi creano tra il XII e il XIII sec., una «corona» di vigne, acquisendo (senza eccedere nel bere), un solido sapere viticolo ed enologico. È certo che stabilirono il rapporto che esiste tra «terroir» e vitigno, forse in modo empirico. Vuole la leggenda che i monaci, per analizzare il suolo, mettevano in bocca piccole particelle di terra, sia quelle ricevute in dono quanto quelle strappate alla boscaglia.

    Alla fine del XIII sec., i climats, così erano e sono tutt’ora chiamati gli appezzamenti vocati alla viticoltura, si distinguevano e venivano identificati per il loro aspetto fisico (Montrachet, e Mont Chauve), per la loro pedologia (les Perrières, les Grèves, les Gravières), per le loro particolarità botaniche (les Charmes, les Genevrières). Sfruttando il materiale di cava essi non lesinano il materiale per le loro chiese e con lo stesso ardore, edificano luoghi per la fermentazione delle uve e capaci cantine ove stoccare il vino. La cantina di vinificazione del castello di Clos de Vougeot è lunga 27 metri, larga 16 e alta 6, mentre la vicina cantina sotto lo Château di Gilly, poteva contenere sino a 2mila «pièces» (botti da 228 l).

    Oggi qualcuno avanza seri dubbi sul ruolo dei Cistercensi nelle nostre campagne: gli storici sostengono che essi abbiano beneficiato di una dinamica già in atto da tempo nelle campagne europee. Ma per noi che scriviamo quei Monaci rimangono i dissodatori, dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia alla Andalusia; per noi, essi hanno creato radure nelle fitte foreste, provetti idraulici hanno domato fiumi e drenato paludi, pionieri della rotazione triennale sono riusciti a ottenere alti rendimenti agricoli; per noi hanno selezionato grandi vitigni.

    I cellieri Cistercensi costruiti nelle regioni viticole più rinomate, per la maggior parte hanno resistito al tempo come ad esempio Eberbach, nel cuore dei vigneti di Rheingau al già citato Clos de Vougeot o a La Bussière, sempre in Borgogna. Per questo motivo i Cistercensi costituiscono una testimonianza primaria nella produzione del vino nel Medioevo insieme ad altri Ordini.

    Tempo fa, spinti dalla passione enologica e dalla voglia di capire meglio il mondo del Monachesimo medioevale, abbiamo cercato delle «appellations» di vini che avessero un’origine monastica, attualmente ce ne sono 109 in Francia, 45 in Germania, 27 in Austria, 17 in Italia, 12 in Svizzera, 9 in Portogallo, 7 in Spagna, 5 in Grecia e 2 dubbiose in Gran Bretagna.

    Scelto per voi

    Michel Genet Champagne

    La famiglia Genet ha una lunga storia radicata a Chouilly, villaggio situato lungo la D3 tra Épernay e Ay.

    Antoine, Vincent e Agnes hanno voluto onorare il padre dando il nome a questo Gran Cru brut nature, prodotto solo con uve Chardonnay; un blanc de blanc che ci stupisce per i suoi aromi floreali e vegetali.

    La complessità dei sentori di tostato, frutta secca e mandorle fresche che vengono espresse nel palato dallo Chardonnay con la maturazione – al quale non manca un tocco di mineralità e un finale che ricorda l’ananas maturo – fanno di questo Champagne l’ottimo partner per il brindisi di fine anno, sia come aperitivo sia come compagno su una lunga serie di piatti, dai pesci con salse saporite al pesce affumicato o ai piatti di carne aromatizzati con spezie orientali.

     

    / Davide Comoli