Bacco alle esposizioni universali - Vinarte

Il vino nella storia. Molti i premi assegnati alla qualità dei prodotti francesi e italiani che, nelle manifestazioni del passato, sono stati portati a conoscenza del grande pubblico.

Dalle grandi fiere commerciali che si tenevano in Europa già nel tardo Medioevo, dove si vendevano i più diversi tipi di mercanzia, sono in seguito nate le esposizioni universali. La prima mostra di questo tipo si tenne in Inghilterra nel 1756. Nel 1824 ci furono le prime fiere di Philadelphia e di New York. Fu nella seconda metà dell’Ottocento che si delinearono tre tipologie di mostre: la prima fu industriale, dedicata a una tipologia specifica di un Paese, tale fu l’esposizione di Berlino del 1877, dove si presentavano i prodotti in cuoio. Un secondo tipo di mostra, molto diffuso in USA era dedicato alla commemorazione di un avvenimento storico. Il terzo tipo, l’esposizione universale, aveva invece obiettivi internazionali. Era, quest’ultima, sponsorizzata da un governo nazionale e presentava una grande varietà di prodotti. Nel 1851 per questa occasione a Londra fu costruito il famoso Crystal Palace.

Nel 1855 a Parigi si tenne, per volere di Napoleone III, la sua prima esposizione universale presso gli Champs Élysées. Fu proprio in questa occasione che la Camera di Commercio di Bordeaux incaricò la Chambre des courtiers de commerce della Borsa di Bordeaux, di redigere una lista di tutti i crus dei grandi vini rossi e bianchi di quel dipartimento. In questa lista figuravano 58 nomi di crus classés per i vini rossi e 21 per i vini bianchi. Per i rossi si segnalavano particolarmente quelli dell’Alto Médoc e per i bianchi quelli della zona del Sauternes. I crus rossi vennero suddivisi in cinque classi di qualità e prezzo, mentre i bianchi furono ripartiti in due classi, precedute da un unico premier crus, che fu Haut Brion, a cui fecero compagnia i tre grandi del Médoc ossia: Chateau Lafite, Margaux e Latour. Questa classifica, ritenuta da alcuni un po’ parziale, si mostrò decisamente azzeccata e segnò un importante momento per la storia del vino francese.

Meno conosciuta, ma forse la più importante di quel periodo, fu la fiera di Vienna del 1873. Più di sette milioni (cifra incredibile anche ai nostri giorni) di persone visitarono i padiglioni eretti nel Prater, il famoso parco viennese, dove furono esposti 26mila prodotti diversi. L’anno dopo l’Unità d’Italia, correva il 1862, i vini italiani per la prima volta parteciparono a un’esposizione internazionale e nel 1867 fu la volta di Parigi ad accogliere e a risvegliare un certo interesse da parte del mercato internazionale per i vini della Penisola. Qualche anno dopo, era il 1873, a Vienna, i vini italiani dimostrarono con i fatti di aver raggiunto un notevole livello qualitativo e fioccarono molti riconoscimenti.

I premi più importanti nell’ambito dei grandi vini rossi furono assegnati al Piemonte e alla Toscana. Barolo, Nebbiolo, Barbera furono classificati tra i Perfetto, lo stesso riconoscimento fu dato per la Toscana al Chianti del barone Bettino Ricasoli. Ad altri vini toscani come: il Vin Santo, il Pomino, l’Artimino, il Carmignano e il celebrato Montepulciano furono assegnati diplomi di stima. Per i vini bianchi sia secchi sia dolci, la parte del leone andò alle regioni del meridione e in modo speciale alla Sicilia e alla Campania. Per quest’ultima furono premiati il Capri ed il Lacryma Christi. La Sicilia ebbe davvero un considerevole numero di riconoscimenti, soprattutto con il Marsala Ingham e Florio. Se questi furono i top delle classifiche del Giurì internazionale di Vienna, si segnalarono altri vini italiani come: il Nasco e la Vernaccia per la Sardegna, il Sassella per la Lombardia, il Valpolicella per il Veneto, il Picolit e la Ribolla da Udine e Gorizia. Ebbero menzione i vini di Conegliano, lo «sciropposo» Trebbiano e il Sangiovese di Cesena e Forlì e l’Aleatico di Bari.

Il punto ancora debole dell’enologia italiana era identificato nella produzione di spumanti, una tipologia di vini che si sarebbe affermata con successo negli anni successivi. Sul finire del 1800, Carlo Gancia a Canelli (AT), si segnala per la spumantizzazione del Moscato Bianco, un vino che ottenne subito un grande successo sui mercati internazionali, sino a diventare il vino aromatico spumante più diffuso nel mondo. Già sul finire del 1700, il Moscato Bianco si era distinto come elemento fondamentale per la produzione di un altro vino che fece epoca, il Vermouth. Il vero «Vermouth di Torino», il migliore, il più pregiato, doveva essere preparato a partire dal Moscato di Canelli. Sul finire dell’Ottocento, al culmine dell’epoca Liberty, erano già realtà affermate diverse storiche case produttrici. Per la preparazione di questo «vino aromatizzato» ogni ditta puntava sulla combinazione di diversi ingredienti, che consentivano di ottenere un’ottima armonia fra il vino base e i diversi ingredienti aromatici. Per ottenere profumi, aromi e sapori, si utilizzava in modo particolare l’assenzio. Da notare che Vermouth è il nome tedesco dell’assenzio. Altre sostanze utilizzate erano l’achillea, il dittamo, la centaurea minore, il cardo santo, il camedrio, la salvia, il sambuco e insieme a queste piante officinali, la cannella, l’issopo, la radice di angelica, di galanga, di genziana e la buccia d’arancia. Il fenomeno Vermouth con la sua ampiezza fu senza dubbio uno dei pilastri dell’industrializzazione enologica piemontese.


Fendant Châtroz

Il Fendant (vitigno Chasselas) rappresenta più del 30 per cento del vigneto Vallesano. Il suo nome deriverebbe dalla particolarità dei suoi acini maturi, dove buccia e polpa si fondono insieme sotto la pressione delle dita senza che il succo defluisca. Vino simbolo del Vallese, il Fendant è per eccellenza il vino d’aperitivo e dell’accoglienza. Molto sensibile all’impronta del territorio, il Fendant ci lusinga con i suoi sottili aromi come quello dello Châtroz, proveniente da vigne terrazzate a ovest di Sion, che godono di un clima meridionale e ben ventilato, i ceppi crescono su terreni calcarei, regalandoci un vino ricco di note minerali, dal gusto morbido, che nelle grandi annate, magari un po’ invecchiato, ci dona note di miele e noci. Accompagna molto bene i piatti della tradizione Vallesana, carne secca, crauti e in questo mese, dove si sta volentieri davanti al camino acceso, vi invitiamo a ripristinare il caquelon per le vostre fondue, la raclette e tutti i piatti a base di formaggio.

 

/ Davide Comoli