Storia dell’ampelografia - Vinarte

Il vino nella storia – Una conoscenza tramandata e arricchita tra baroni e conti.

Il panorama ampelografico della prima metà dell’Ottocento fu segnato da una grande complessità e da molta confusione. In quel periodo era molto difficile destreggiarsi fra i vitigni, i loro nomi, i molti sinonimi locali e i termini dialettali; c’era insomma una grande incertezza che rendeva difficile capire quali fossero i più adattabili alle condizioni pedoclimatiche, quali fossero i più adatti alla vinificazione e quale fosse la loro produttività.

Fu nel corso dell’800 che, in Europa, ampi studi sulla materia portarono contributi molto importanti all’ampelografia, la disciplina che descrive e classifica i diversi vitigni.

Non possiamo per spazio citare tutti gli autori di opere sul tema, ma possiamo segnalare le principali opere con i rispettivi responsabili: in Francia, il conte Pierre Odart diede il suo contributo con la Ampélographie Universelle del 1849; Jules Guyot, a partire dal 1861 iniziò a pubblicare gli Etudes des vignobles de France; Victor Pulliat con Mille variétés de vigne, nel 1869, e Le Vignoble scritto a quattro mani con Alphonse Mas nel 1875.

In Germania due grandi autori di riferimento furono Johann Metzger, il barone Lamber von Bahu e J.L. Stoltz con la sua Ampélographie Rhénane pubblicata nel 1852. Anche in Spagna troviamo grandi trattati sull’argomento; il contributo che ebbe un grande peso in quel periodo fu quello di Simon de Rojas Clemente y Rubio, direttore del Real Jardin botánico di Madrid. Tra le tante opere non va dimenticata però anche quella di un ticinese d.o.c., la gustosa Monografia di don Pietro Vegezzi edita a Lugano, pubblicato dalla tipografia Ajani e Berra nel lontano 1886.

L’Italia non fu da meno e gli autorevoli studiosi di ampelografia furono molti. Nel 1825 a Milano fu pubblicato il lavoro di Giuseppe Acerbi, contenente anche monografie di altri autori, dal titolo «Dalle viti italiane o sia materia per servire alla classificazione, monografia e sinonimia, preceduti dal tentativo d’una classificazione geoponica delle viti».

L’Acerbi, professore di botanica e agronomia a Milano, pubblicò anche un apprezzato catalogo con la descrizione e classificazione di una collezione di ceppi di vite che aveva impiantato a Castel Goffredo (in provincia di Mantova).

In quegli stessi anni, il conte Giorgio Gallesio di Finalborgo (Savona), grande studioso di pomologia e ampelografia, stava realizzando il suo sogno, con l’obiettivo di creare la «Pomona italiana» ovvero «il trattato degli alberi fruttiferi contenente la descrizione delle migliori varietà di frutta coltivati in Italia, con la loro sinonimia e la loro coltura». Si trattò di una grande impresa editoriale che iniziò a Pisa nel 1817 e prese buona parte della vita del conte. Nel 1839, alla morte di Gallesio, l’opera era ancora lontana dall’essere completata. L’estrema cura con cui fu realizzata, l’edizione e le stupende tavole in folio a colori, la resero molto costosa, riservata essenzialmente all’élite. Nella Pomona si trovano raffigurati e descritti anche i loro sinonimi come: Albarola, Barbarossa, Barbera, Bizzarria, Brachetto, Canajola, Canetto, Claretta di Nizza, Colorino, Grovino, Dolcetto, Fuella, Lacrima, Liatica, Marzemina, Moscadella nera, Nebbiolo Canavesano, Piccolito, Pignola, Rossana, Rossese, Salamanna, Sangioveto, Trebbiano, Fiorentino, Vermentino, Vite di tre raccolte l’anno.

Un contemporaneo di Gallesio fu Giuseppe Giacinto Moris che, nel 1837, pubblicò la Flora Sardoa seu Historia Plantarum con la descrizione di molti vitigni sardi. Anche il marchese Leopoldo Incisa della Rocchetta, nella tenuta di Rocchetta Tanaro (Asti), si dedicò a studiare e collezionare vitigni locali e stranieri. La sua collezione ampelografica era interrata su tre zone: una sul colle di Montebruna, la seconda sul colle del Bricco, la terza in un vaso sino alla fruttificazione.

Nel 1852 creò un vivaio allo scopo di fornire «barbatelle di buona qualità» ai viticoltori. Le barbatelle venivano consegnate «prospere» e con radici di due anni. Tutte le varietà presenti nel vivaio erano tenute anche in vaso, a disposizione degli studiosi di viticoltura che avessero voluto studiarle.

Nel 1862 L. Incisa della Rocchetta, pubblicò il suo primo catalogo relativo a 105 varietà di uve. Di ogni tipo descrisse denominazione, caratteri, uso delle uve, terreno ed esposizioni in cui meglio prosperano le rispettive ceppaie. Fra le uve straniere citava: Tokay rosso e bianco, Teinturier, Bordò nero e bianco, Borgogna bianco, Cendrine, Douce Noir, Morillon Noir, Brachetto del Nizzardo, Malaga. C’era in questo catalogo una buona presenza di vitigni siciliani, sardi e in minor misura varietà toscane e dell’Italia meridionale. Il suo secondo catalogo fu pubblicato nel 1869 e contava 375 varietà delle quali molte erano straniere, cioè provenienti da Francia, Svizzera, Spagna, Ungheria, Crimea, Dalmazia, Germania, Cipro, Algeria.

Leopoldo Incisa era in corrispondenza con l’ibridatore francese Henri Bouchet e l’ampelografo Victor Pulliat, ma pure con il barone Antonio Mendola di Favara (Agrigento). Anche quest’ultimo personaggio creò una ricca collezione di vitigni provenienti dal Sudafrica e dall’Estremo Oriente. Il barone si dedicò anche agli studi su come ottenere nuovi vitigni attraverso la moltiplicazione per seme, purtroppo molti dei suoi scritti sono andati perduti.

Certamente uno tra i più autorevoli ampelografi del 1800 fu il conte Giuseppe di Rovasenda, che fece arrivare vitigni da tutto il mondo. La sua collezione di vitigni, con 4mila ceppaie, fu considerata la più ricca d’Europa. Il suo: Saggio di ampelografia universale fu pubblicato a Torino nel 1877 e poco dopo venne tradotto in francese da Caralis e Viala. Nel marzo del 1887, il conte Rovasenda venne chiamato a presiedere la prima Commissione centrale ampelografica istituita con Regio decreto.

Sant’Anna Dolcetto
Il Dolcetto è il vino ideale per tutti i giorni e tutti i pasti. Il fatto di denominarsi Dolcetto deriva dalla particolare sensazione gradevolmente e intensamente dolce dell’uva che, avendo un limitato tenore acido, appare appunto molto dolce.

Dolcetta l’uva, dunque, secco il vino come il Sant’Anna DOC, prodotto su due ettari con uve provenienti da viti con oltre 40 anni d’età, sulle colline intorno a Monforte d’Alba.

Prodotto con il sistema biologico, questo vino simbolo del bere quotidiano delle famiglie contadine di questa zona del Piemonte, dopo una fermentazione naturale con macerazione sulle bucce, riposa per dieci mesi in acciaio e poi in bottiglia per altri due.

Le uve curate con il massimo rispetto dell’equilibrio ambientale, bandendo tutti i trattamenti chimici e meccanici, ci donano un vino versatile, schietto e semplice, nel colore c’è una prevalenza di fucsia su un profondo rosso rubino, profumi eleganti che possono includere fragranze di bacche rosse mature. È, come dicevamo, un vino d’abbinare ai piatti semplici della cucina tradizionale, ma soprattutto è speciale con i risotti e in particolare con preparazioni di pollame e coniglio.

/ Davide Comoli