Curiosità Archivi - Vinarte
  • Nella terra vitata del Roero

    Bacco giramondo – Terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo ideale per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati – Piemonte 3a parte

    Usciti da Torino sulla S29 arriviamo a Montà, siamo nel Roero, qui le «rocche», forre profonde e scoscese, frutto di erosione, emerse milioni di anni or sono dal mare, danno una connotazione esclusiva a questa zona del Piemonte.

    Una manciata di chilometri e arriviamo a Canale, la nostra prima tappa, famosa per le sue succulenti pesche. Questo borgo agricolo è anche il luogo in cui – grazie ai fratelli Enrico e Marco Faccenda (Cascina Chicco) – facciamo conoscenza delle specialità enologiche di tale lembo piemontese. Un ricco piatto di salumeria roerina (antico vanto di casa Faccenda) di cui sottolineiamo il «prosciutto cotto al forno», c’invita alla degustazione.

    Qui, terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo soffice; un’ideale situazione per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati. Un profumato e fresco Nebbiolo, vinificato in bianco «Metodo classico», apre la degustazione seguito da una Favorita, un bianco molto beverino. L’Arneis è un po’ il simbolo del Roero e dona un vino bianco con note olfattive molto interessanti, fresche e fruttate, piacevolmente amarognolo, ma noi chiudiamo con un prestigioso Roero Valmaggiore rosso, ottenuto da uve Nebbiolo, vino potente, ma armonico, vellutato e dai profumi delicati, ma soprattutto di facile beva.

    Stivate alcune bottiglie di nettare, ringraziati Enrico e Marco Faccenda, ripartiamo per il nostro giro nel Roero. I colori dell’autunno creano meravigliosi quadri con il profilo delle colline ricoperte di vigne dopo la vendemmia. Colline spesso impreziosite dalla sagoma di un castello, una torre, un edificio sei-settecentesco, o anche solo da una chiesetta o una cappella di campagna che emergono dalla trama dei filari. Sempre sulla riva sinistra del Tanaro che divide il Roero dalle Langhe, troviamo Priocca, Govone, Castellinaldo e, tra il su e giù dei rilievi ricoperti con l’albero sacro a Bacco, arriviamo a Castagnito.

    Ilaria, la proprietaria, ci accoglie con cordialità e, senza troppo tergiversare, ci serve un fumante «civet di lepre» (salmì) marinato per giorni nel Dolcetto, con crostoni di polenta. Meritevole da menzionare è il Barbera d’Alba prodotto da vecchie vigne, dal colore rubino intenso, note di spezie dolci al naso iniziali, poi amarena, cassis e lieve cacao, che ben si sposa con la portata calda. Ilaria poi ci vizia servendoci delle pere «madernassa» cotte nel vino con zucchero, cannella e chiodi di garofano. Sono pere dalla buccia sottile, di piccole dimensioni, che si trovano su alberi isolati sparsi tra i vigneti tra Canale, Guarene e Castagnito.

    Si riparte: Guarene, Piobesi, S. Vittoria d’Alba, Cinzano dove è d’obbligo una visita al museo che raccoglie la storia del bicchiere. Una breve deviazione per il piccolo villaggio di Pocapaglia, circondato da un paesaggio di calanchi e burroni, spettacolo mozzafiato al tramonto. Quattro chilometri e siamo a Bra per la notte. La generosa cittadina, oltre a distribuire i suoi eleganti palazzi intorno a via Vittorio Emanuele II e con la vicina Pollenzo, è la capitale del buongusto (Slow-Food). Un piccolo assaggio di «carne cruda» con lamelle di tartufo bianco e un carrello di formaggi con differenti mieli delle valli piemontesi, tome varie, formaggelle del bec, robiole, seirass, gli erborinati Castelmagno e il raro Murianengo, sono sostenuti da un giovane Nebbiolo d’Alba. A tal proposito va detto che il Nebbiolo di questa zona deve essere bevuto piuttosto giovane per meglio apprezzare i suoi aromi floreali e fruttati, per la sua media struttura gradevolmente tannica. La classica panna cotta è invece servita con un Birbet, che tradotto dal dialetto significa birichino (è il nome che nel Roero viene dato al Brachetto), dolce e dal caratteristico sentore di muschio.

    L’indomani raggiungiamo Verduno, dove dal giardino del castello sovrastante le vigne di Pelaverga, dalle cui uve si trae un vino cerasuolo, fragrante e speziato, si gode un fantastico colpo d’occhio sul susseguirsi ininterrotto di colline che offrono squarci di possente bellezza.

    La Morra, Novello, Barolo con il suo castello e il museo del vino. Il lettore ci perdoni se abbandoniamo veloci le Langhe sabaude e barocche per inoltrarci in quelle più aspre e parimenti ricche di storia. Stiamo infatti attraversando i filari dei cru più prestigiosi del Nebbiolo, quelli che produrranno il Barolo (re dei vini e vino da re); la zona del Barolo comprende il territorio di undici comuni.

    A Monforte scendiamo lungo i vigneti che ricoprono la collina, attraversiamo le frazioni di Perno e Castelletto, arriviamo a Castiglione Falletto con il castello dalle torri cilindriche. Purtroppo lo spazio concessoci c’impedisce di soffermarci di più sul binomio inscindibile di vino/cucina di questo territorio. Qui sembra che il tempo si sia fermato: che emozione la vista dei filari colorati dall’autunno che accarezzano i fianchi dei poggi. Rari «ciabòt» (casotti per gli attrezzi) sono i testimoni di un passato recente e ci ricordano il romanzo La malora scritto dal grande albese Beppe Fenoglio. Arriviamo a Serralunga d’Alba, che ospita la Casa di Caccia di Bela Rosin, dove si consumò la tresca con Vittorio Emanuele II.

    A Diano d’Alba le vigne di Dolcetto producono un vino di pronta beva, Grinzane Cavour. Un anfiteatro di colline nel cui mezzo il Tanaro disegna una esse: siamo ad Alba, da sempre questa piccola città è il cuore delle Langhe. Alla sera mentre si va a cena, percorrendo la piazza che dal Duomo va nella via Maestra, l’aria si riempie di una densa nuvola di nocciole tostate (la tonda gentile) di cacao, ma si percepisce pure in sottofondo il profumo acuto e penetrante del tartufo. Come un sacerdote officiante «il patron» arriva con un carrello dove in piatti di porcellana presenta le fumanti catetiche, sette polpe di carne, i sette ammennicoli e le sette salse d’accompagnamento, poi comincia a tranciare i tocchi armato di un grosso coltello e forchettone.

    Un Barolo Bussia 2011 granato intenso con accenni di viola, rosa e ribes e dai tannini fitti, ma ben integrati e dalla persistenza lunga è il degno «compare» del nostro «bollito misto». Una tazza del brodo di cottura con una nuvola di Dolcetto, prima di passare al raro formaggio: un Castelmagno invecchiato 40 mesi, e a Barolo Le Ginestre 2013, di grande struttura e complessità.

    Al mattino risaliamo la collina di Altavilla e raggiungiamo la frazione di San Rocco Seno d’Elvio, luogo natale dell’imperatore romano Elvio Pertinace (126-193), ucciso dopo 87 giorni di regno. Un’impervia strada ci porta a Treiso, situato in un anfiteatro di marna bianca: siamo nel regno del Barbaresco. Treiso è un piccolo paese da cui si gode una straordinaria scenografia sulle vallate sottostanti. Seguendo le insegne delle molte cantine, arriviamo a Barbaresco, arroccato su una collina allungata con la sua torre costruita intorno all’anno 1000. I vigneti disegnano colline e valli in una splendida conca, dove ci sono le vigne dei grandi cru (Rabaja Asili). Ritornando indietro tra i filari di Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Moscato, si arriva a Neive; da questo piccolo gioiello dopo una pausa pranzo lasceremo le Langhe.

    Cardi gobbi con fonduta di Castelmagno e tartufo vengono impreziositi da un raffinato Barbaresco Cottà 2015, mentre (quando ce vò ce vò) un Barbaresco Sorì Tildin 2015 del mitico Gaja, elegantissimo, di un rubino granato luminoso, enfatizza i classici «Tajarin» al tuorlo d’uovo, dove non viene lesinato il Bianco d’Alba.

    Il bunet al cacao e dolci gianduiotti si sposeranno a meraviglia con il Barolo Chinato che seguirà, altra gemma dell’Enologia piemontese.

    / Davide Comoli

  • La bevanda allungata del Platina

    Vino nella storia – Il nettare di Bacco secondo Bartolomeo Sacchi

    Il rinnovato interesse che caratterizzò la cultura umanistica in tutte le sue espressioni, in Italia e più in generale in Europa, favorì un grosso fermento in tutti i campi portando «l’uomo» a riacquistare la consapevolezza delle proprie potenzialità. Dopo i secoli ritenuti bui del Medioevo, grazie a questa poderosa spinta nasce «l’uomo nuovo». Il rinnovato interesse per l’uomo favorì tra l’altro il moltiplicarsi dei trattati di gastronomia, questo anche grazie alle condizioni economico-sociali molto migliorate rispetto al passato.

    Il merito della diffusione dei testi, senza nulla togliere alla bravura degli autori, va indubbiamente alla competenza e al successivo evolversi dell’invenzione della stampa. La vigorosa spinta intellettuale prodotta da questa corrente portò soprattutto le varie nobili corti della penisola a reagire alla lunga astinenza medievale, indulgendo nel lusso e nel fasto che non riguardava solamente le classi più elevate con i rispettivi personaggi, ma anche il popolo. In questa gara nell’esibizione di opulenza e vari privilegi, possiamo senza dubbio alcuno porre al vertice la Corte Pontificia, con i Papi e i suoi alti prelati, spesso più uomini di mondo che ministri di Dio.

    Ed è proprio qui, in questa sede, dove intrighi, nepotismi, voltafaccia repentini e favori alle grandi famiglie romane (Orsini, Colonna, Caetani, Altieri, Borgia, eccetera), nasceva una delle maggiori opere della letteratura gastronomica italiana la: De honesta voluptate et valetudine (L’onesto piacere della mensa e la salute), scritta in latino (lingua degli umanisti) nel 1475 dall’insigne Bartolomeo Sacchi detto il «Platina»; nato nel 1421 a Piadena (in latino Platina) nel cremonese, morì di peste («pestilentia extintus est») il 21 settembre 1481 a Roma.

    Egli dapprima seguì la carriera delle armi e solo più tardi si volse alla lettere, già in età matura. Nel 1457 lo troviamo a Firenze, dove ha cordiale dimestichezza con Cosimo e Pietro de Medici, e nel 1461 Francesco Gonzaga, secondogenito del marchese Lodovico, viene eletto Cardinale e sceglie il Platina come segretario; gli sarà sempre prodigo di affettuosa e benevola protezione, salvandolo due volte dalla prigione dove era stato relegato dal Pontefice Paolo II.

    Grazie a una cultura umanistica che comportava una certa deontologia morale, il mal costume dell’epoca gli procurò non pochi dispiaceri, soprattutto da parte di Paolo II, del quale con tutto il rancore che aveva dentro nel suo Liber de vita Christi ac omnium pontificum (Un libro sulla vita di Cristo e di tutti i Pontefici, opera dedicata al successore di Paolo II), Sisto IV del Rovere 1473, scrisse: «Hebbe così in odio gli studii della humanità et così li dispreggiava e vilipendeva, che tutti quelli che vi davano opera soleva egli chiamare heretici».

    Ma non divaghiamo, il De honesta voluptate et valetudine è suddiviso in dieci libri per un totale di 423 capitoletti.

    Nel libro I ci sono chiari riferimenti a precetti igienici dell’abitazione, sonno, amplesso, esercizi fisici, parla del cuoco e di alcuni frutti. Nel II ancora frutti, latte e formaggi; nel III frutta secca, droghe, erbe profumate; nel IV preparazione delle verdure, animali domestici e selvatici da pelo; nel V animali domestici e selvatici da piuma. Nel libro VI inizia poi il ricettario vero e proprio e si rifà al Libro de Arte coquinaria (Libro di arte culinaria, vanto della nostra Val di Blenio, circa 1450) di Maestro Martino. A capo 121 (Cibaria Alba) il Platina scrive: «Il mio amico Martino di Como dal quale son tratte in gran parte delle cose che scrivo» e vivacizza le ricette con fatterelli, notizie e personaggi.

    Nei libri che seguono tratta del modo di cucinare le vivande ed elenca le varie salse. È nel libro X che alla fine tratta del vino e degli accorgimenti per placare le emozioni. Di seguito trascriviamo dunque alcuni passaggi del suo De vino, pur non condividendone totalmente le dichiarazioni: «La cena e il pranzo senza bevande, non solo sono ritenuti poco gradevoli, ma anche poco salutari, poiché il bere, per chi ha sete è più dolce e gradito di qualsiasi cibo per chi abbia fame. Conviene innaffiare il cibo, sia per rinfrescare i polmoni sia per meglio stemperare e digerire quello che abbiamo mangiato. Il vino che Androchide, scrivendo ad Alessandro col proposito di frenare la sua intemperanza, chiamò sangue della terra, ha il potere di riscaldare e di rinfrescare… Ne viene che niente è più pronto del vino nel soccorrere i corpi affaticati, purché sia preso con moderazione. Niente invece è più dannoso se venisse a mancare il senso della misura. A causa dell’ubriachezza gli uomini diventano infatti tremebondi, grevi, pallidi e maleodoranti, smemorati, cisposi, sterili e tardi a procreare, canuti e calvi e vecchi anzitempo».

    Il Nostro parla poi di quando e che tipo di vino usare a seconda della stagione, dell’età, delle proprietà dei vari tipi di vino e il modo di vinificare, concludendo così: «Quanto a noi è sufficiente che passiamo in rassegna i vini maggiormente pregiati (15-20). Ma prima desidero esortare i lettori a non credermi per questo un beone; poiché non c’è nessuno più di me per principio e per natura, faccia uso di vino allungato».

    / Davide Comoli

  • Le colline vitate del Monferrato

    Bacco giramondo – Continua il viaggio enologico nella regione del Piemonte

    Il Monferrato è una regione storica del Piemonte, tra i fiumi Po, Tanaro, Belbo e Bormida, per la maggior parte si trova in provincia di Alessandria e in minor misura in quella di Asti. Si suddivide in Alto Monferrato (a sud) e Basso Monferrato (a nord). Il nostro itinerario tra vigne e cantine inizia da Casale Monferrato, dove morbide colline disegnano armoniose tavolozze in cui torri, castelli e borghi fortificati si alternano a ondulati colli caratterizzati dalla coltivazione di BarberaGrignolinoRuchèFreisa Malvasia a bacca nera: una vera cartolina.

    Seguendo il corso del Po fino a Pontestura, sfioriamo la zona della D.O.C. Rubino di Cantavenna e Gabiano, che vedono la compartecipazione di tre vitigni dell’Astigiano per eccellenza, GrignolinoFreisa Barbera. Continuando sulla 457 ci dirigiamo verso Serralunga di Crea, dove con una piccola deviazione a destra si sale al Sacro Monte di Crea, una delle più alte colline del Basso Monferrato, da cui si ammira uno splendido panorama.

    Continuiamo per pochi chilometri a sud, fermandoci a Moncalvo, famosa anche per le numerose sagre e manifestazioni gastronomiche, dove un Grignolino (vanto della zona), dai delicati profumi fruttati, dal gusto piacevole, fresco e dai tannini poco pronunciati, accompagna l’agognato fritto misto piemontese. Entrati nelle grazie del ristoratore, non abbiamo potuto esimerci dal provare il Ruchè offertoci. Il Ruchè è un vino dal colore rubino scarico e dal profumo intenso, leggermente speziato e aromatico, molto piacevole.

    Destinato a scomparire, questo vitigno coltivato in zona da secoli fu salvato a Castagnole Monferrato dall’allora sindaco della cittadina Lidia Bianco, che lo recuperò dall’oblio. Oggi, l’intrigante vitigno è coltivato in sei comuni che circondano Castagnole (tra Moncalvo e Asti).

    Ripartiamo verso sud, sfioriamo Asti, la capitale di questa provincia, che vista sulla carta geografica sembra abbia la forma di un grappolo d’uva, dove storia e natura possono entusiasmare chi la visita, almeno come il Grignolino e il Barbera che stiamo andando a provare.

    Attraversiamo il fiume Tanaro che fa da spartiacque tra l’Alto e il Basso Monferrato, puntiamo verso Rocchetta Tanaro, dove il compianto Giacomo Bologna dimostrò al mondo che anche la Barbera poteva essere un grande vino, guadagnandosi la copertina di «Wine Spectator».

    Subito fuori dall’abitato troviamo un’area boschiva protetta, il Parco Regionale della Val Sarmassa, dove faggi, roveri, castagni e querce secolari ci accompagnano per la gioia dei nostri occhi in una distesa interrotta: dopo Vinchio arriviamo a Castelnuovo Calcea. Qui le vigne di Barbera diventano un’opera d’arte: i filari del produttore Chiarlo sono infatti costellati di realizzazioni di vari artisti; ci fermiamo a scattare alcune foto prima di arrivare a Nizza Monferrato.

    La cittadina con orgoglio esibisce il centro storico attraversato dal porticato e i suoi palazzi d’epoca; il museo Bersano accoglie «contadinerie» e stampe antiche sul vino. Qui ci si può deliziare con gli amaretti della vicina Mombaruzzo, inventati nel Settecento da un pasticciere di casa Savoia, da innaffiare con un vivace/vinoso giovane Barbera del Monferrato.

    La sera ci trova a pochi chilometri da Canelli, in un agriturismo da dove si gode una bella vista panoramica, in un’elegante atmosfera piemontese. Luogo magico già descritto da Cesare Pavese (nato in questi luoghi) in un suo romanzo.

    Il Piemonte ha una ricca tradizione gastronomica: a cena, sfila la classica bagna càuda ottenuta con il cardo gobbo di Nizza e peperoni crudi, da intingere in una salsa composta da olio bollente con aglio e acciughe dissalate, contenuta nel classico fornelletto (fojòt), a cui abbiniamo un giovane violaceo Barbera di una bevibilità fuori dal comune. Il «coniglio al Barbera» che giunge poi fumante al nostro tavolo, fa coppia con un Nizza (sottozona del Barbera che prevede un disciplinare di produzione più severo), dal colore rubino scuro e intense note fruttate: vino di estrema eleganza e un finale di grande persistenza.

    Ci troviamo nell’angolo più dolce della provincia di Asti. Qui è il regno del Moscato e quindi, dulcis in fundo, piccoli torroni e frolle alle nocciole con un Loazzolo (Moscato passito) dalla complessa aromaticità olfattiva, dove oltre ai classici aromi primari dell’uva Moscato, percepiamo sentori di miele, camomilla, frutta secca e sfumature che vanno dal legno di sandalo alla vaniglia: una goduria!

    Al mattino ripartiamo: a Canelli è d’obbligo visitare le Cattedrali sotterranee, una rete di oltre venti chilometri di gallerie tufacee adibite ad affinare lo spumante e inoltre per capire e spazzare via i dubbi eventuali sulla differenza tra Asti Spumante e Moscato d’Asti.

    Puntiamo a nord-ovest, superiamo Castagnole delle Lanze poco dopo Costigliole d’Asti, ci spostiamo sulla sponda sinistra del Tanaro e proseguiamo verso S. Damiano d’Asti. Siamo al confine con le terre del Roero. Prima di dirigerci verso Villafranca d’Asti, ci fermiamo per degustare un piatto di salumi locali molto apprezzati con un bicchiere di rosso Croatina, coltivato nelle vicinanze di Cisterna d’Asti (unico comune del Roero in provincia di Asti).

    A circa dieci chilometri da Albugnano facciamo una piccola deviazione a sinistra per salire al Colle Don Bosco, da ex allievi Salesiani. Il luogo ci ricorda i momenti lieti della nostra fanciullezza e gli insegnamenti ricevuti. Ad Albugnano con uve NebbioloFreisa Barbera si produce un vino rosso/rosato che ben s’adatta ai formaggi vaccini ben stagionati, ma la ragione per cui siamo saliti fino a qui è un’altra: isolata in una piccola valle da idillio, silenziosa e immersa nel verde, visitiamo la suggestiva Abbazia di Vezzolano. Vuole la leggenda che Carlomagno di passaggio in questi luoghi, come ringraziamento per i numerosi boccali di Freisa ricevuti in dono da un’eremita locale, abbia fatto erigere la cappella su cui sarebbe sorta l’Abbazia. Ritorniamo verso Castelnuovo Don Bosco, dove Chiara ci ha preparato salumi, salsiccia, cardi in bagna càuda e castelmagno semi stagionato, il tutto bagnato da vino Freisa dal colore rubino non troppo intenso, profumato di lamponi, viole e rose, con una buona acidità e di cui apprezziamo la rusticità, molto adatta alla cucina povera.

    Prima di lasciare Chiara, chiudiamo questo giro in dolcezza con un’aromatica Malvasia di Schierano, dal bel colore cerasuolo, nella quale inzuppiamo i nostri Torcetti, biscotti lunghi e sottili piegati a forma di cuore. Sulla strada verso Torino a cinque chilometri a sud di Chieri, ci fermiamo per l’ultima tappa d’obbligo; la visita al Museo Martini di Storia dell’Enologia a Pessione.

    / Davide Comoli

  • La parodia enologica di Lorenzo il Magnifico

    Vino nella storia – Nel suo Simposio molti i riferimenti alla bevanda cara a Bacco

    Il 1400 è per Firenze un’epoca di straordinario splendore culturale e artistico. È la Firenze che – nell’arco di sessant’anni, tra l’insediamento alla Signoria della città di Cosimo de’ Medici (1389-1464) e la morte di suo nipote Lorenzo il Magnifico (1449-1492) – vede costituirsi in città la più alta concentrazione di «geni» che mai si è vista nella storia della civiltà occidentale. Tra le sue vie impreziosite dalla più elegante architettura che abbia mai onorato una città, non sarebbe stato infrequente incontrare Donatello, il giovane Michelangelo, Leonardo da Vinci, l’enciclopedico Pico della Mirandola, Sandro Botticelli o magari, tenendosi alla larga, il cupo fra’ Girolamo Savonarola.

    Tra costoro, l’artista che è sempre al fianco di Lorenzo de’ Medici e in larga misura lo influenza è senza dubbio alcuno Angelo Ambrogini, detto il Poliziano (Montepulciano 1454-Firenze 1494). Nulla ci è pervenuto che ci faccia avere idea se il Poliziano sia stato un’amante della bevanda sacra a Bacco, ma il vino compare con una certa frequenza nella sua poesia.

    Gli studi biografici sulla vita di Lorenzo de’ Medici, ascrivono la stesura del Simposio (componimento gradevole e poco conosciuto, dove il vino è cantato in parodia) tra gli anni 1466-1467.

    Il vino è il filo conduttore di tutto il poemetto ed è la materia prima che serve per canzonare e rivelare gli aspetti meno ufficiali della vita dei fiorentini dell’epoca. I primi biografi di Lorenzo parlano di una stesura a getto quando aveva 18 anni, il che dimostra la sua precoce vena letteraria. Attraverso questo poemetto a tema enoico, affiorano così molti aspetti dell’immagine del vino nella Firenze del 1400. In quest’opera molti sono i versi che richiamano le espressioni usate da Dante e Petrarca. Il collegamento con Dante è evidente fin dall’esordio della parodia enologica del Magnifico, dato il celebre inizio della Divina Commedia: «Nel mezzo di cammin di nostra vita», infatti, il Simposio si apre con «Nel tempo ch’ogni fronda lascia il verde, Bacco per le ville e in ogni via si vede a torno andar».

    Così come Dante trova guide che lo accompagnano nel suo viaggio (Virgilio e Beatrice), anche Lorenzo si avvale dei suoi due mentori: Bartolo Tebaldi e Nastagio Vespucci, sommi… mangiatori e bevitori.

    Lorenzo, nel poema, si trova in una fitta calca di persone. Tutti procedono nella stesse direzione e di gran fretta. Ma dove vanno? Questa è la domanda rivolta a Bartolino (Bartolo), la risposta è semplice, si recano di fretta a ponte Rifredi a bere vino appena spillato dalla botte dell’oste Giarnesse. In questa lesta corsa davanti a Lorenzo sfilano tutti i beoni fiorentini attratti dall’irresistibile profumo di vino.

    Da questo originale catalogo di ubriaconi fiorentini del XV sec., abbiamo scelto di riproporre alcuni caratteristici personaggi che compongono l’originale processione.

    Il primo ama talmente il vino da essere conosciuto con il nome «Acinuzzo». Il secondo ubriacone che estrapoliamo dalla processione (cap. VIII) è anche a suo modo un personaggio storico, si tratta del grasso piovano Arlotto, prete della campagna mugellana, le cui burle proverbiali ci sono state tramandate da un anonimo contemporaneo di Lorenzo nei Motti e facezie del piovano Arlotto. (Arlotto significa ingordo).

    L’Arlotto ha sempre con sé la fiasca per il vino e nel Simposio così viene descritto «Quest’è il piovan Arlotto e non gli tocca il nom indarno né fu posto a vento (a caso) sì come secchia è molle (bagnato di vino). Costui non s’inginocchia al Sacramento (all’Eucarestia) quando si leva, se non v’è buon vino, perché non crede che Dio venga dentro». È quantomeno intrigante l’immagine di Dio data qui, il quale potrebbe rifiutare sdegnato il sangue di Cristo se questo implica un vino dalle caratteristiche scadenti.

    Tra i tanti, la Malvasia è un vino che piace molto a un altro personaggio, Antonio del Vantaggio, un oste che beve più vino di quanto ne vende. Sperpera denaro in ogni taverna di Firenze e, dato che nella sua bottega non riesce a tenere la preziosa Malvasia, va a berla dal collega Candiotto, un taverniere che prende il nome da Candia, rinomata per le sue Malvasie. E Lorenzo così lo descrisse «Costui taverna fa, ma ne fa male ch’egli ha bevuto tanto in capo all’anno, che non gli resta mai in capitale. El Fico el Buco e le Bertucce el sauro e perché Malvagia non ha n bottega al Candiotto ancora fa spesso danno».

    Nel Simposio si trovano altri divertenti modi di dire «El vin gli fa puzzo» (il vino gli fa schifo), «Per sé e un compagno uccide» (tracanna per due), «Beve sol col naso una vendemmia» e chi «Al tornar un baril frode» (perché prima di rientrare tra le mura della città ha ingerito tanto vino da far passare di frode l’equivalente di un barile), «Come el cammel ha soma egli» (tanto pieno di vino).

    L’arguto piovano Arlotto e Lorenzo il Magnifico condividono una speciale considerazione per l’acino d’uva e il primo si meraviglia che il buon Dio non abbia fornito maggior protezione «Per quale ragione al chicco d’uva è data tanta poca difesa, che ogni piccola goccia lo offende, e lo sciupa, è un frutto così prezioso che puoi vedere il liquore nobile che produce e quale nutrimento da».

    Forse non tutti conoscono il Simposio del Magnifico, ma di certo tutti conoscono la Canzona di Bacco che esalta la giovinezza, l’amore e il vino, così all’improvviso anche a noi capita di canticchiare quasi come un’invocazione «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».

    / Davide Comoli

  • L’allevamento della vite ai piè del monte

    Bacco Giramondo – Continua il viaggio vitivinicolo nelle regioni d’Italia entrando in punta di piedi in Piemonte

    La corona di vallate protette dalle vette delle Alpi, che lo circondano, dà il nome al Piemonte che letteralmente significa proprio «ai piedi del monte»; non c’è termine migliore per rappresentare la morfologia di questa regione. Infatti il perimetro della regione è contornato per i tre quarti (sud, nord, ovest), da montagne (Alpi e Appennino Ligure) che proteggono il territorio favorendo un clima freddo, temperato e continentale.

    Con ancora maggior precisione possiamo dire che le montagne occupano il 43,3% del territorio, la pianura il 26,4% e le colline il 30,3%. Ed è proprio sulle colline che si è sviluppata la viticoltura piemontese, dove la vite s’insedia sui versanti a sud, est e ovest e lascia le altre colture sul lato nord. In collina la vite condivide forme di allevamento basse (guyot e cordone speronato), mentre le forme alte sono poco diffuse e concentrate localmente (Erbaluce di Caluso e altre aree del nord come la Val d’Ossola).

    Con inverni lunghi e freddi, estati siccitose e percettibili escursioni termiche tra la notte e il giorno, ogni zona del Piemonte ha peculiarità diverse relative a precipitazioni e temperature. Con questa variabilità, l’uomo nel corso dei secoli ha saputo sviluppare accurate selezioni dei vitigni più adatti alle varie aree, applicando specifici metodi di coltivazione.

    Un esempio di come il terreno, il clima e il vitigno, grazie all’opera dell’uomo possono produrre vini dalle diverse caratteristiche è dato dal Nebbiolo che occupa circa il 14% del vigneto piemontese. Oltre a essere la base dei più aristocratici vini del Piemonte, il Nebbiolo è forse il più antico vitigno a bacca rossa della regione, con molta probabilità conosciuto prima ancora dei Romani dalle antiche popolazioni Liguri.

    Nella Langa il Nebbiolo allevato su dei terreni compatti e marnosi, ricchi di argilla e gesso, dove le escursioni termiche sono meno accentuate, dona vini molto complessi, dai tannini ben presenti e profumi intensi. Al di là del fiume Tanaro, nel vicino Roero, dove abbiamo l’indice più basso di piogge della regione e terreni sabbiosi di basso fondale, i vini ottenuti da questo vitigno non necessitano di lunghi invecchiamenti. Per questo si possono gustare vini di precoce bevibilità, dai profumi molto accentuati. Mentre il Nebbiolo coltivato nelle zone di Novara, Vercelli, Biella (chiamato in loco con nomi diversi), su terreni acidi e ricchi di minerali, dà origine a vini molto sapidi e con una buona finezza olfattiva.

    Il vigneto piemontese si estende per circa 50mila ettari, di cui oltre il 60% della produzione di vini (circa 2’600’000 ettolitri) è ottenuta soprattutto da uve rosse di monovitigno. Ma la ricchezza di questa regione, in cui i vini internazionali coprono circa il 6 % della produzione, è data dalla grande quantità di vitigni autoctoni coltivati, che ancora oggi costituiscono per l’appunto la gran parte della produzione regionale, in questa terra dove ben radicate sono le tradizioni.

    Molti di questi (che assaggeremo visitando le zone vitivinicole) sono vitigni semi-sconosciuti che devono la loro riscoperta all’impegno e alla tenacia di alcuni viticoltori.

    In Piemonte si produce vino in tutte le province, che possono essere suddivise in sei aree: l’Alto Piemonte, l’area pedemontana tra Saluzzo e Torino, il Monferrato Astigiano, l’Alto Monferrato, il Roero e le Langhe. Il vitigno più diffuso è la Barbera: da quest’uva derivano i vini rossi per antonomasia del Piemonte. Il secondo vitigno per diffusione (il terzo è il Nebbiolo del quale abbiamo già parlato) è il Dolcetto, che determina una decina di denominazioni: Alba, Diano d’Alba, Dogliani, Acqui, Asti, Ovada, Langhe Monregalesi, dei Colli Tortonesi, del Monferrato, Langhe.

    Tra i vitigni a bacca bianca nell’Astigiano troviamo il Moscato, che oltre a essere il vino dolce spumante più famoso al mondo, si vinifica anche non spumantizzato e in vendemmie tardive.

    Per gli amanti del turismo enogastronomico ecco qualche indicazione per andare alla scoperta di vini, magari un po’ rudi e austeri, da gustare senza fretta, aspettando che lentamente nel bicchiere rivelino la loro anima. Per coloro che conoscono a memoria i vari sentori dei vini più noti, consigliamo di visitare l’ampia zona pedemontana, a volte montana, che si estende tra Pinerolo e Saluzzo e tocca le montagne ai confini della Francia: siamo sulle pendici montane delle valli Chisone, Germanasca e Val Pellice.

    In queste valli – dove NebbioloBonarda, Freisa, Dolcetto, Barbera, alle volte insieme, danno origine a vini rossi e rosati – la viticoltura è praticata da secoli. La particolare storia che ha segnato queste valli (definite le Valli Valdesi), ha creato una straordinaria varietà di vitigni e un eccezionale patrimonio ampelografico, che rischiava di andare perso dopo l’invasione fillosserica. Oggi, grazie al riaffermato desiderio di tutelare la singolarità della viticoltura locale, alcuni appassionati enologi e viticoltori locali si stanno impegnando nel recupero degli storici vitigni di queste valli.

    Andare quindi a provare vini le cui radici vanno così in profondità nella storia è uno stimolo per ogni amante della sacra bevanda. L’occasione ci è stata data a Pinerolo, dove abbiamo degustato, accompagnati dai pregiati prodotti caseari locali (stupendi il seirass – ricotta piemontese – profumato al timo serpillo e il plaisentif, vale a dire il formaggio delle viole), il rosso Ramié – che prevede l’utilizzo dei vitigni Avané, Avarengo, Neretto e Plassa – un vino fruttato, leggero e fresco, e il Doux d’Henry, prodotto in circa 4500 bottiglie a vendemmia, dagli intensi profumi di mora e ciliegie che sfumano nel dolce; è l’ideale compagno per un piatto di salumi. Coltivato sulle colline intorno a Saluzzo, il Quagliano è invece un vino dal colore rosso tenue, con note di viola, dal sapore dolce e dai sentori di fragole; ideale se abbinato a una crostata di frutti di bosco.

    Da Pinerolo raggiungiamo la A5 in direzione delle colline moreniche del Canavese, un po’ più a nord troviamo il Carema, un Nebbiolo allevato a pergola e che può invecchiare per decenni.

    Fuori da San Giorgio Canavese, e passato Caluso, arriviamo sul piccolo lago di Candia, dove ci fermeremo per la notte. Siamo nella patria dell’Erbaluce; in autunno i grappoli di questo vitigno si accendono di riflessi ramati, leggermente rosati, con i quali si producono intriganti Spumanti, un Bianco fermo che abbiamo abbinato a una frittura di lago, ma soprattutto un Passito molto complesso, nel quale senza vergogna abbiamo a fine pasto intinto i famosi torcèt prodotti nella vicina Agliè.

    / Davide Comoli

  • Nel Decameron della Firenze medievale

    Il vino nella storia – L’ironia di una bevanda il cui consumo ha trovato spazio anche in alcune delle novelle boccaccesche

    I vini che compaiono nei testi letterari della Toscana medievale diventano una chiave di lettura del ruolo che essi ricoprivano nella vita quotidiana.

    Si può notare come il vino sia collegato a tre classi di valore. La prima è quella delle virtù terapeutiche e mediche: il vino viene infatti considerato come elemento in grado di mantenere la salute. La seconda classe è quella dei valori sociali: esistono infatti vini adatti per determinate celebrazioni, vini per la festa e vini popolari. La terza classe comprende quei vini capaci di intaccare le buone norme, dando origine a scene di lussuria e sfrenatezze varie, vini quindi che per le persone assennate vanno evitati.

    Si capisce dagli scritti che il bevitore medievale fiorentino aveva una scelta grande di vini. Un ritratto della vita fiorentina dell’epoca è rappresentato nel Decameron, l’opera di Giovanni Boccaccio composta da cento novelle scritte tra il 1349 e il 1353.

    La classificazione dei vini era all’epoca un’operazione complessa: l’aspetto fondamentale tra vini forti e vini deboli passava attraverso la concezione degli «umori», dove assumeva una forte rilevanza l’opposizione caldo/freddo, cui si sovrapponeva e quasi sostituiva l’opposizione organolettica dolce/acido. La corretta scelta del vino si doveva quindi basare sull’analisi dello stato sanitario del bevitore (età e condizioni di vita), ma si teneva conto anche della stagionalità, così pure del regime alimentare.

    Nel trattato di dietetica di Michele Savonarola (sembra sia stato lo zio del più famoso «Girolamo»), si trova chiaramente descritta la classificazione dei vini dell’epoca. I vini «piccoli» (cioè poco alcolici/deboli) sono caldi al «primo grado», i vini più potenti sebbene ancora relativamente «piccoli» sono caldi al «secondo grado», le Vernacce e le Malvasie (vini dolci e più alcolici) sono caldi al «terzo grado», l’acquavite o acqua ardente è calda al «quarto grado». Su queste basi il Savonarola conclude scrivendo che «il vino, prima che un piacere, diventa un sostegno fondamentale per la buona salute, che conforta, corrobora, difende l’organismo».

    Esempi di queste regole, non sempre seguite, vengono presentate dal Boccaccio (1319-1375) nell’epidemia di peste che colpì Firenze nel XIV sec. nella prima giornata nel suo Decameron. Alcuni, «racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo», cercano di proteggersi dal morbo seguendo principi morigerati, isolandosi dagli infermi e utilizzando il vino seguendo le regole della dietetica medica del periodo in modo «temperato». Altri invece di opinione opposta preferiscono godersi la vita per quanto possibile e di «bere assai (…) e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura»

    Nella Firenze del 1300 esistevano comunque precise regole dietetiche per il consumo del vino. Così in estate si consigliavano vini «freddi», cioè vini deboli eventualmente con aggiunta d’acqua, «rinfrescare alquanto con freschissimi vini» troviamo sulle pagine del Decameron. In inverno al contrario sono consigliati vini «caldi» più forti e più dolci come le Vernacce e le Malvasie, perché si pensava che questi vini avessero la virtù di scaldare il corpo in inverno, di suscitare l’appetito, di scaldare lo stomaco e di facilitare la digestione. In quel periodo la teoria di collegare il vino alle condizioni atmosferiche era condivisa da tutti e non solo dai medici. Infatti nelle fonti mediche medievali spesso si trova il consiglio di servire il vino «secondo quello che il tempo richiede».

    Nel Decameron il potere riscaldante e corroborante del vino «caldo» è sempre presente. Nella decima novella della seconda giornata, si racconta del giudice pisano Riccardo di Chinzica «magro, secco e di poco spirito» che dopo la prima notte di nozze passa quasi all’altro mondo, tanto che alla mattina «convenne che con Vernaccia e confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornava».

    Il vino dolce e alcolico era il più costoso e quindi più prestigioso rispetto ai vini deboli e aciduli. Come tali questi vini erano segni di ricchezza e abbondanza, collegati quindi a occasioni solenni quali matrimoni oppure banchetti in onore di ospiti illustri. Sempre nel Decameron, in molte novelle si respira l’atmosfera di sfarzosi banchetti dove il «vin Greco», la «Malvasia», la «bella e buona Vernaccia», vengono offerti in «scatole di confetti e preziosissimi vini», dove «bevendo e confettando» gli ospiti si riconfortano bevendo «vini finissimi» che accompagnano grossi capponi.

    In una novella il Boccaccio racconta che gli ambasciatori papali in missione a Firenze insieme a messer Geri Spina, passano ogni mattina davanti alla bottega del fornaio Cisti, divenuto ricchissimo, e che viveva in modo splendido. Fra le tante cose buone possedeva «i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero nel contado». Cisti, per onorare gli ambasciatori del papa, offre il suo buon vino bianco scelto, travasandolo da un piccolo orcioletto in «quattro bicchieri belli e nuovi». Oltre a riscaldare il sangue i vini bianchi dolci e potenti sono immancabilmente collegati alla trasgressione e alla lussuria.

    Quando il Boccaccio descrive la casa di campagna dove si rifugiano le sette fanciulle e i tre giovani che per dieci giorni racconteranno a turno le novelle del Decameron, a proposito di vini dolci dirà: «con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne». Più avanti aggiunge «non è bello per i giovani correre alla lussuria bevendo Malvasia fin dal mattino, ma per le donne è ancora peggio», come mostra la novella della figlia di Soldano di Babilonia, che in una cena beve vari vini mescolandoli, tant’è «più calda di vino che d’onestà temperata» e senza vergogna accetta proposte sconvenienti.

    Con il suo repertorio di situazioni, tipi e burle narrate di volta in volta da Panfilo, Neifile, Filomena, Dionèo, Fiammetta, Emilia, Filòstrato, Lauretta, Elissa e Pampinea, il Decameron ha conservato nei secoli la sua fama di libro «ameno».

    Anche gli ordini religiosi non si sottraggono alle canzonatorie, infatti il Boccaccio lancia strali contro i frati che appaiono grassi e coloriti, che possiedono scorte opulente di leccornie come «alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono più tosto a’ riguardanti».

    Le regole di assunzione dei vini vengono ancora chiamate in causa nelle ultime pagine del Decameron, dove lo scrittore vuole rispondere a probabili accuse contro la morale contenute nelle novelle, Boccaccio difende la propria opera servendosi di paragoni con il vino: «Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi (…) et a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, perciò che nuoce a’ febbricitanti, che sia malvagio? (…) Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle».

    / Davide Comoli

  • Dalla Franciacorta all’Oltrepò

    Bacco Giramondo – Continua il viaggio nella Lombardia vitivinicola

    La produzione vinicola della Lombardia non è certo importante come in altre regioni d’Italia, ma in questa area geografica che è la Franciacorta, formata da piccoli colli e ampie vallate situate a sud del lago d’Iseo (l’antico Sebino) e a est della provincia di Bergamo, ha saputo ritagliarsi un importante spazio internazionale nel mondo vitivinicolo grazie a un vivace dinamismo. Il «miracolo» Franciacorta è il risultato ottenuto grazie alla lungimiranza di produttori seri e motivati, dotati di grande energia, ma soprattutto innovazione. Inoltre il visitare i vigneti sparsi tra i vari villaggi, il degustare i vini nelle innumerevoli cantine situate talvolta all’interno di storici edifici, ci portano a rivivere le origini magistralmente raccontate da Gabriele Archetti nel suo Le origini della Franciacorta nel Rinascimento Italiano.

    Noi la «storia» delle bollicine della Franciacorta la troviamo nelle Cantine Guido Berlucchi a Borgonato di Corte Franca, con Paolo Ziliani che davanti la mitica «numero uno» imbottigliata nel 1961, ci racconta come è nato il mito Franciacorta, prima di passare a una indimenticabile e conviviale degustazione dei vari Brut, Rosé, Satèn e infine ai Millesimati.

    Il nostro itinerario continua in direzione di Brescia, dove costeggiando le colline, s’incontrano dei gruppi rocciosi che fan da corona al capoluogo di provincia. Sui ridenti colli intorno a Gussago, dove i terreni sono composti da un misto calcareo-argilloso con mescolanze di fanghiglie ereditate da diverse epoche geologiche, troviamo la D.O.C. Cellatica che produce vini rossi di buona sapidità e struttura dai vitigni Barbera, Schiava, Marzemino, Sangiovese Incrocio Terzi (incrocio tra Barbera Cabernet Franc). Sono vini ottenuti da uvaggi tra i vitigni sopracitati, da bersi abbastanza giovani che accompagnano piatti semplici durante le scampagnate in collina.

    A sud di Brescia potete trovare la D.O.C. Capriano del Colle, dove vengono prodotti interessanti vini bianchi, elaborati dal Trebbiano di Soave e un passito ottenuto dal semisconosciuto vitigno Invernenga.

    Scendendo verso il lago di Garda, tra i comuni Rezzato e Botticino, troviamo la D.O.C. Botticino, dove gli stessi vitigni rossi di cui abbiamo accennato, grazie al fortunato matrimonio con il terreno argillo-calcareo, talvolta marnoso, danno origine a vini dai profumi vinosi, intensi, caldi e giustamente tannici, il completamento ideale per una veloce merenda con salumeria e formaggi mediamente stagionati.

    La strada che ci porta verso Desenzano del Garda, ci ricorda che fin dai tempi antichi, grazie alla barriera delle Dolomiti che frenano i freddi venti, al lago di Garda veniva dato l’appellativo di «lago benefico» (Benacus), tant’è che le sue rive furono luogo di soggiorno per personaggi del calibro di Plinio, Virgilio, Strabone, Catullo.

    L’area collinare compresa tra Desenzano e Salò, tappezzata da ulivi e vigneti prende il nome di Valtènesi, orgoglio della zona è il Garda Classico Chiaretto, ottenuto da uve Groppello, Sangiovese, Barbera, caratterizzato dal colore rosato, dai profumi di rosa, viole, fragoline di bosco e lamponi; molto interessante è anche il rosso Garda Groppello, ottenuto da vitigno omonimo con il piccolo aiuto di Marzemino Barbera, dotato da intriganti profumi floreali e fruttati.

    Da Desenzano, riprendiamo la S236 in direzione di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, cittadina dall’illustre passato, per ritornare verso Solferino. Questo circuito a sud del Garda è formato da cordoni collinari concentrici. La sua posizione ne ha fatto nel corso della storia un territorio punteggiato da strutture difensive. Dal punto di vista enologico siamo nella D.O.C. interregionale del Garda, dove si producono vini di pronta beva, ottimi per allegri convivi. La sera ci trova nei pressi di San Martino della Battaglia, uno dei luoghi simboli del Risorgimento italiano, un ottimo Lugana (qui chiamato Turbiana) e un piacevole Marzemino leggermente frizzante.

    Al mattino di buon’ora imbocchiamo l’A4 posta a 1,5 km e alla periferia di Brescia entriamo sulla A21 dove usciamo a Stradella, siamo nell’Oltrepò Pavese. Questa è una terra generosa, ricca di una vasta gamma di vitigni, capace di produrre vini bianchi fermi, spumanti secchi e dolci, vini rossi sia da bere giovani sia da invecchiamento.

    Da Stradella prendiamo la SS10 e raggiungiamo Broni passando per l’antica via Emilia, consigliamo questa cittadina come punto di partenza per un giro tra i vigneti dell’Oltrepò. A sud-ovest, immerso in un paesaggio collinare, dove i crinali sono coperti dalla vite, si arriva a Canneto Pavese, che con Montescano, Castana e Pietra de’ Giorgi, è la patria del Buttafuoco (Barbera, Croatina e Ughetta), lo stesso uvaggio impiegato per il dolce e frizzante Sangue di Giuda.

    Dalla provinciale che costeggia la riva sinistra del torrente Versa, circondato da filari di viti, si raggiunte Montù Beccaria, le varie diramazioni ci portano a Santa Maria la Versa, considerata la capitale dello spumante sia metodo classico che Martinotti, usando i vitigni Chardonnay, Pinot Grigio, Riesling Italico, Riesling Renano, che oltre a esaltare le note fruttate e la loro freschezza, riescono a dare ai vini un’importante nota minerale, il Moscato Bianco, con cui si producono vini dolci, dalle note aromatiche.

    Una grande attenzione viene data al Pinot Nero a Santa Giuletta, in questa zona viene sfruttato tutto il potenziale di questo vitigno (Oltrepò ne è il maggior produttore italiano), per produrre rossi fermi d’invecchiamento, di grande eleganza, dai profumi di liquirizia. Notevole il metodo classico a cui è dato il curioso nome di Cruasé, ottenuto con macerazione a contatto con le bucce, è uno spumante dal colore rosa salmone, con suadenti sfumature di fragoline, melograno e arance sanguinella, che abbiamo abbinato a delle succulente «tartine con salmone affumicato, formaggio di capra e rondelle di cipolla» che aromaticità; senza dimenticare «da ultimo ma non ultimo», una bottiglia del vero simbolo enologico di questa terra, la Bonarda (Croatina), tipologia ferma, dal profumo di viole, abbinata a uno «stufato di lepre», che vino!

    Attraversiamo il Po nei pressi di San Zenone al Po, ci siamo diretti verso San Colombano al Lambro, unica D.O.C. in provincia di Milano, dove sulle colline argillose si coltivano gli stessi vitigni dell’Oltrepò, che ne tappezzano la superficie sino a Miradolo Terme. È ispirandosi a questi luoghi che il Francesco Redi (1626-1697) scrisse i seguenti versi, che di fronte alla distesa di vigneti prepotentemente ci tornano in mente: «il purpureo liquor del suo bel colle, / cui bacia il Lambro il piede, / ed a cui Colombano il nome diede, / ove le viti in lascivetti intrichi / sposate sono invece d’olmi a’ fichi.».

    / Davide Comoli

  • Così scrisse Pier De’ Crescenzi

    Vino nella storia – Molte le informazioni vitivinicole contenute nello storico Liber Ruralium Commodorum

    La raccolta del Liber de Vindemiis è la riduzione dei Geoponica, collezione di venti libri compilata nel X secolo a Costantinopoli, che all’epoca si trovava sotto l’imperatore Porfirogenito Costantino VII. Questa collezione, originariamente scritta in greco, è in parte tratta dall’opera perduta di Cassiano Basso del VI secolo e in parte attribuita ad altri autori. Fu poi tradotta dal giureconsulto Burgundio da Pisa che, trovandosi nel 1172 a Costantinopoli, ebbe modo di tradurre diverse opere dal greco, tra le altre le tre che rivestirono grande importanza per il mondo vitivinicolo medievale, ovvero: il V, il VI e il VII libro dedicato alla coltivazione delle uve.

    Al Liber de Vindemiis attinse ampiamente anche il bolognese Pier de’ Crescenzi (nasce verso il 1233) per il suo Liber Ruralium Commodorum (Libro dei benefici agricoli), arricchendolo però di numerose osservazioni e molti consigli personali che gli derivano dalle esperienze maturate nel suo peregrinare come «magistrato» per tutta Italia.

    In quel periodo storico, i liberi Comuni italiani erano retti da Capitani del Popolo o da Podestà ai quali veniva affidata la gestione della giustizia e l’amministrazione civile e militare. Questi uomini di comprovata onestà si avvalevano della collaborazione di esperti magistrati, gruppo del quale faceva parte Pier De’ Crescenzi.

    Lo troviamo nel 1269 a Senigallia, nel 1271 ad Asti, più tardi a Ferrara, Pisa, Brescia e allo scadere del secolo rientra nella nativa Bologna, dove si ritira a vita privata nella sua tenuta di Rubizzano alle porte di Bologna, dove tra il 1304-1309 scrive, grazie alla sua esperienza nella gestione dei suoi possedimenti, il De Agricoltura: 12 libri che comporranno il Liber Ruralium Commodorum. Oltre al già citato Burgundio da Pisa, altre sue fonti furono: Plinio, Columella, Catone, Varrone, Palladio e Alberto Magno dell’ordine domenicano; per compilare il capitolo dedicato alle virtù della pianta di vite, si avvale delle conoscenze di Dioscoride, Galeno, e Isaac Israeli (855-955), un autore poco conosciuto alle nostre latitudini, ma importante per poter capire gli effetti psicologici del vino nell’Occidente medievale.

    Dopo essere passata al vaglio dell’«Imprimatur» ecclesiastico (a quel tempo scardinare dogmi antichi, credo significava porsi in conflitto con la Chiesa, vedi tre secoli più tardi Galileo Galilei), l’opera suscitò subito un vasto interesse ed ebbe una grandissima diffusione «in folio». È soprattutto nel IV tomo che De’ Crescenzi si sofferma su norme di viticoltura (De vitibus et vincis et cultu carum, ac natura et utilitate fructus ipsarum).

    Nell’opera, l’autore precisa subito che l’habitat prediletto dalla vite è caratterizzato da una temperatura calda, perché ivi al contrario di quelli freddi dà prodotti migliori, a condizione però che il luogo di coltura sia asciutto (IV, 5fol).

    I terreni da evitare (sono da privilegiare quelli vergini o che non siano mai stati coltivati a vite) devono essere duri in modo che trattenendo l’umidità, possano mitigare l’aridità estiva. Buone le terre argillose a patto che non siano composte esclusivamente dall’argilla (IV, 6fol).

    De’ Crescenzi introduce l’utilizzo delle talee (un argomento ancora attuale) e raccomanda che siano colte in ottobre, mese in cui il «calore» solare è ancora nei rami, prima di ritirarsi con l’irrigidirsi della stagione, nelle radici: i tralci da tagliare debbono essere scelti dalla parte mezzana della pianta, perché sono i più fecondi. Prosegue poi entrando in merito agli scassi del terreno, indugiando su importanti nozioni tecniche, quali profondità e distanza tra le fosse (IV, 7fol). Importanti pure le indicazioni che vengono date sull’utilizzo delle «talee» e di vivaismo per quanto riguarda le «barbatelle». Una volta poste a dimora in terreno grasso mescolato a letame (metodo usato ancora sino a cinquant’anni or sono), vengono posizionate nel vigneto.

    Sulla base di una millenaria consuetudine, le viti erano piantate a stretto contatto con altre piante, talvolta alberi da frutto, in modo che queste ultime facessero da sostegno.

    Tra i sostegni vivi, l’autore consiglia l’olmo, considerato il migliore, a questo fanno seguito: acero, salice, pioppo, frassino, ciliegio, susino e simili; consiglia inoltre alcuni metodi di legatura, ricordando però di usare il salice e il pioppo solo in terreni umidi.

    Nel V «folio» intitolato De vitibus et vineis et cultu earum, sono trattate le virtù terapeutiche dell’uva e delle viti.

    De’ Crescenzi scrive tra l’altro che «Le foglie della vite sono molto medicamentose, perché puliscono le piaghe e le guariscono dopo averle cotte nell’acqua. Esse rinfrescano il calore dato dalle febbri e come per incanto fanno cessare i dolori di stomaco; esse aiutano pure le donne incinta; e fortificano il cervello».

    Divide pure i vitigni in bianchi e neri, classificando le uve in base alla «bontà», la quale viene espressa con diversi aggettivi, sottile, chiaro, potente, serbevole, dolce, che ci danno la misura dei criteri d’apprezzamento in epoca medievale.

    Appoggiandosi all’autorità di Isaac, conclude confermando che il vino «dà buon nutrimento e rende la sanità al corpo: e se si prende come si deve e quando bisogna, e quanto può sostenere la natura, conforta la virtù digestiva, così nello stomaco come nel fegato: perché è impossibile che si attui il processo della digestione senza il calore che conforta la virtù naturale e accresce la forza».

    All’inizio del Trecento, il nome del vino derivava solitamente dall’uva con la quale era prodotto. Quest’opera – ristampata più volte con ripetute difficoltà interpretative, talvolta insormontabili – riveste una particolare importanza come documento che presenta una panoramica interessante delle varietà di uva coltivate a cavallo tra il XIII e il XIV secolo nel nord e centro Italia.

    Quasi impossibile risulta però ai nostri giorni riconoscere tutti i 41 vitigni elencati dall’agronomo bolognese nel suo peregrinare lungo la penisola, perché nell’arco di sette secoli, molti sono stati i mutamenti che hanno interessato la struttura ampelografica italiana. D’altronde lo stesso De’ Crescenzi riconosce la difficoltà e il rischio a causa di sinonimie nel distinguere i vari vitigni: «multe diversis nominibus in diversis provinciis et civitatibus appellatur» («è chiamato con molti nomi diversi in diverse province e stati»).

    Di alcuni vitigni (una ventina), l’autore presenta una buona scheda tecnica, soprattutto per i bianchi, come la Schiava (Sclava), Albinaza (che noi pensiamo sia il Pigato) o il Trebbiano, ma ecco la lista dei vitigni elencati nell’opera: Schiava (Sclava), Trebbiano (Tribiana), Gragnolata, Malixia o Sarcula, Garganeca, Albinazza, Buranese (Buranexae), Africogna, Lividella, Verdiga, Verdecia, Moscato, Luglienga, Greca, Vernaccia, Berbigenes, Cocerina, Groposa, Fuxolana, Bansa, tra le bianche. Tra le uve nere: Grilla, Zisiga, Margigrana, Nubiola (Nebbiolo?), Maiolo, Duracla, Gimnaremo (Gunarone), Paternica, Pignuolo, Albatichi (Albarica), Vaiano, Dentina (Clentina), Portina (Porcina), Valminica, Tusca Melegono, Canatuli (Canaiolo), Canopum, uve silvestri chiamate Lambrusche e Pergole (Brumeste).

    A De’ Crescenzi bisogna comunque dare atto di aver dato il via, a partire dal XVI secolo, alla trasmissione scritta di conoscenze enologiche e viticole.

    / Davide Comoli

  • Dal lago di Como al lago d’Iseo

    Bacco Giramondo – Arriva in Lombardia il percorso tra le regioni d’Italia alla ricerca dei vini locali più interessanti

    Il poeta Virgilio (Mantova 70 a.C. – Brindisi 19 d.C.) scriveva: «tra fiumi, laghi, olivi, viti e bionde messi d’oro…» con tutta probabilità si riferiva alla terra in cui aveva avuto i natali, e cioè alle colline che fanno da contorno al lago di Garda. Luogo in cui oggi la viticoltura è una fonte importante di reddito. Le colline che si affacciano sulla Pianura Padana godono, infatti, di condizioni favorevoli alla coltura della vite grazie al clima continentale, con estati calde, inverni rigidi e stagioni intermedie spesso piovose.

    E proprio in corrispondenza degli anfiteatri morenici del lago di Garda e d’Iseo, laddove i rilievi prealpini lambiscono la fertile pianura, ritrovamenti risalenti all’età del bronzo (III millennio a.C.), dimostrano come in questi luoghi la coltivazione della Vitis vinifera silvestris fosse già praticata.

    I circa 23mila ettari vitati della regione sono disposti soprattutto in collina, ma le diverse zone vitivinicole, richiedono forme di allevamento molto diverse avendo differenti caratteri pedoclimatici.

    Molto diffusi nell’Oltrepò Pavese i sistemi «Guyot singolo» o «multiplo», nel bresciano e nel bergamasco, la «pergola trentina» e il «Sylvoz», sui rilievi collinari si possono ancora trovare vigneti allevati a spalliera, mentre sulle terrazze della Valtellina, dove regna la vera viticoltura «eroica», è molto diffuso il Guyot.

    Il 54 % del vigneto lombardo è occupato da vitigni a bacca rossa e trova l’Oltrepò Pavese come maggiore produttore (55 %) dei più di 1’300’000 ettolitri di vino annuali.

    Le principali zone vitivinicole sono: le colline del lago di Garda e quelle mantovane di origine morenica, la Franciacorta, il Bergamasco, l’Oltrepò Pavese e la Valtellina, da dove inizieremo il nostro itinerario alla scoperta dei luoghi di produzione dei vari vitigni che il panorama ampelografico lombardo ci offre.

    Uscendo da Como imbocchiamo la S340 dove lungo le rive del lago omonimo si alternano lussuose residenze trasformate in hotel, ville con ombrosi giardini e villaggi con accoglienti porticcioli, quasi alla fine della sponda occidentale ci fermiamo a Domaso, villaggio dai gloriosi passati vitivinicoli e che oggi, grazie a qualche piccolo produttore, sta cercando di tornare agli antichi fasti con la produzione del Domasino Rosso (Sangiovese-Merlot-Rossela) e l’ottimo Domasino Bianco (con l’autoctono VerdesaSauvignon Trebbiano), da bersi accompagnandolo con piatti di pesce di lago con risotto.

    Dopo esserci lasciati il lago di Como alle spalle, imbocchiamo la veloce superstrada che dopo Morbegno e Talamona, ci porta – oltre l’Adda, il fiume che scorre per tutta la Valle – ad Ardenno sulla sponda destra, da dove sulle soleggiate pendici scoscese ricomincia per più di 40 km l’incredibile terrazzamento costituito da muri di pietra che sostengono il patrimonio vitivinicolo valtellinese, uno spettacolo che un amante del dono di Bacco non può perdere. 1200 ettari di vigneto posizionati tra i 300/700 m s/lm, dove la pendenza oscilla dal 45 al 65 %: pensate al sudore che da secoli le generazioni di viticoltori hanno versato per creare questo territorio che non ha eguali al mondo.

    Qui tutte le operazioni vengono eseguite manualmente; è solo con tanta fatica che l’uomo riesce a trasformare i rigonfi grappoli di Chiavennasca in purpureo vino. Siamo di fronte a una vera «viticoltura eroica». Oltre alla Chiavennasca (è il nome locale del Nebbiolo), vengono coltivati la Pignola, vitigno di notevole vigoria, la Rossola e la Brugnola, ma è dalla Chiavennasca quasi in purezza che si ottengono i pregiati D.O.C.G. del Valtellina Superiore. Coltivato nelle sottozone di Maroggia nel comune di Berbenno, il Sassella prende il nome della chiesetta omonima nel comune di Castione (ovest di Sondrio), mentre il Grumello prende il nome dall’omonimo Castello (nord-est di Sondrio); l’Inferno, invece, potrebbe derivare dalle alte temperature estive che si possono raggiungere sui terrazzamenti ricavati nelle rocce; infine, troviamo la Valgella, che è la zona più estesa, circa 164 ettari, nei comuni di Chiuro, Teglio e Tresenda (nord-est di Sondrio).

    Dopo una giornata passata tra vigneti e degustazioni varie, accompagnate dagli immancabili stuzzichini di salumi vari e formaggi come il Bitto e il Casera, la sera ci trova ospiti dall’amico Angelo, dove la sorella Ilde ci prepara i suoi famosi pizzoccheri accompagnati da un morbido Sassella. Davanti al fuoco di un camino, con Angelo ricordiamo i tempi passati, mentre centelliniamo a brevi sorsi un mitico Sfurzat, il re dei vini di questa terra, prodotto con uve appassite: è un vino dai grandi profumi e potenza, dove le note tostate incalzano quelle di frutta rossa, con un finale che desta meraviglia.

    Al mattino di buon’ora imbocchiamo la S39 del passo dell’Aprica fino a Edolo, dove prendiamo la S42 che ci porta a sfiorare la parte nord de lago d’Iseo e puntiamo verso la Valcalepio, l’area viticola della provincia di Bergamo, situata sui rilievi delle Prealpi, dove si stanno facendo conoscere eccellenti produttori di bianchi realizzati con uve Chardonnay Pinot Bianco. Degni di nota sono però i rossi di carattere, prodotti da uve Cabernet e Merlot, come quello gustato a pranzo con risotto e salsiccia a Scanzorosciate, dove siamo venuti a gustare il Moscato di Scanzo D.O.C.G. (la più piccola denominazione italiana).

    Il Moscato di Scanzo è un vino con una lunga storia alle spalle, apprezzato già dai Visconti e dagli Sforza, signori di Milano, era molto gradito alla corte degli Zar di Russia. Questo vino sta avendo un secondo risorgimento dopo qualche anno passato in letargo. Il dolce nettare che stiamo gustando, profuma di note intense di rosa canina, incenso e spezie, date dall’appassimento, ed è il complemento ideale alla nostra mousse di cioccolato bianco e alla piccola pasticceria secca che ci è stata servita.

    A Seriate entriamo per un breve tratto sulla A4 per uscire poco dopo a Palazzolo in provincia di Brescia. Risaliamo verso nord seguendo il fiume Oglio in uscita dal lago d’Iseo e arriviamo a Capriolo, uno dei 19 comuni che formano il territorio della Franciacorta. Scendiamo quindi ad Adro e, immerso nei vigneti, arriviamo a Erbusco, dove sosteremo in questa splendida isola vitivinicola estesa su circa 900 ettari di colline di origine morenica.

    Le fresche brezze dopo aver attraversato il lago d’Iseo provenienti dalla Val Camonica, creano un microclima ideale, impedendo la formazione di nebbie invernali e umidità estive, dove lo Chardonnay 80% della superficie vitata, il Pinot Nero 15% e il Pinot Bianco, vendemmiati precocemente fanno della Franciacorta il «leader» italiano dei vini spumanti metodo classico, una terra caratterizzata da imprenditori seri e motivati che hanno saputo valorizzare questo territorio.

    / Davide Comoli

  • Dalla Teriaca all’Ippocrasso

    Vino nella storia – Quando il nettare di Bacco incontrò le spezie e finì sulle tavole degli aristocratici

    Il dotto pisano Burgundio (1110-1193), letterato, giurista, diplomatico, fu un personaggio celebre soprattutto per le sue traduzioni di testi medici, Galeno in modo particolare, fra l’altro scrisse un ricettario in cui si occupava di metodi di vinificazione. Testo, quest’ultimo, che venne copiato e ricopiato più volte, in modo quasi integrale nei secoli successivi da personaggi come: Pietro de’ Crescenzi, Corniolo della Cornia, Arnaldo da Villanova.

    Tra le curiosità che abbiamo trovato sfogliando una vecchia copia di questo celebre testo, una delle più stimolanti è lo spazio dedicato ai vini aromatizzati. Infatti nel XII sec. si sviluppò molto la moda delle spezie, grazie soprattutto alle navi della Serenissima che avevano ripreso i traffici con l’Oriente, praticamente interrotti con la caduta dell’Impero Romano.

    Il vino trattato con le spezie venne chiamato all’inizio con il nome di vinus odorifer o vinus aromaticus. Era in effetti difficile dare un nome a un prodotto composto da vino mescolato con l’alchimia o la magia. In ogni caso, all’inizio, erano vini per le sole mense aristocratiche. Uno degli aspetti che sicuramente contribuì al successo di questa formula, fu il ruolo che assunsero sia vino sia spezie nella preparazione di prodotti terapeutici. Di loro, l’inglese Bartolomeo Anglico (1190-1250), autore di una pregevole enciclopedia composta da 19 libri (De Proprietatibus Rerum) scrisse che «sono vini fatti con la forza di buone spezie e che sono adatti sia come bevanda che come medicina. In virtù delle spezie e delle erbe si cambia e si corregge il vino e gli si dà una virtù singolare e perciò quei vini sono completi e apprezzabili quando spezie e delle erbe sono incorporati ad esso in modo dovuto. Così il loro sapore, sono graditi al gusto ed eccitano l’appetito e confortano sia il cervello che lo stomaco e con il loro buon odore e profumo puliscono anche il sangue e lo purificano e vengono nelle parti interne delle vene e delle membra».

    È sempre grazie al dotto Burgundio che apprendiamo il nome della principale preparazione medica del passato: la Teriaca dal greco Theriaké che significa antidoto. L’invenzione della Teriaca è attribuita a Crateva, medico personale di Mitridate re del Ponto (133-64 a.C.). Il monarca viveva nel terrore di essere avvelenato, Crateva, dopo lunghi studi, mescolò tra loro ben 54 medicamenti cosiddetti «semplici» che aggiunse alla composizione del principe degli «antidoti». Nel 63 a.C. con Pompeo, portò a Roma la meravigliosa ricetta che venne in seguito usata da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone che, come molti altri monarchi, viveva nel terrore di essere avvelenato.

    Fu poi Claudio Galeno, con la sua autorità in campo medico, a sostenere la Teriaca. Tant’è che il medicamento continuò a essere usato per tutto il Medioevo e il Rinascimento: fu somministrato da medici e farmacisti, ottenendo grande fiducia, fino agli inizi del 1800.

    Uno dei componenti principali della Teriaca era costituito dalla carne di serpente cotta nel vino. Considerato l’essenza dell’immortalità, il serpente veniva cotto nel vino perché si riteneva che questo fosse in grado di impregnarsi dell’essenza immortale dell’animale, assumendo così potenza e valori magici. Si pensava o meglio si credeva che così facendo il vino potesse dare a chi lo assumeva la capacità di essere immune ai veleni e prolungare la vita, e che voi cari lettori, ci crediate o no, questa unione decisamente originale venne difesa per un lunghissimo periodo da moltissimi medici.

    L’elenco dei nomi dei medici che impiegavano ricette in cui nel vino venivano messe a macerare delle vipere è lungo, ma uno per tutti fu Galeno, il quale dichiarava che l’unico vino indicato per la Teriaca era il Falerno dolce, chiamato Faustiniano e lasciò scritto: «A chi si avvicina alla vecchiaia consiglio di bere la Teriaca spesso, ed in dose piuttosto elevata, sciolta nel vino, perché rinfranchi il calore naturale che comincia a languire». L’aspetto importante a livello enologico è il collegamento del vino alle erbe medicinali, in modo da preparare vini realizzati per i loro aspetti sensoriali, creati dall’unione di molti elementi sovrapposti in modo da adattarli piacevolmente agli uomini e alle complessioni dei pazienti. Lo dimostrano le ricette inserite negli antichi ricettari di pratiche enologiche, dove ritroviamo le stesse erbe e spezie che componevano la Teriaca: mirra, nardo, cinnamomo, pepe, salvia, rosmarino, assenzio, ecc. A partire dal 1200 ogni ricettario o testo di agronomia non poteva esimersi dal presentare un vino aromatizzato. Fu così che diventò necessario dare un nome al vino aromatizzato per eccellenza, quello che doveva accompagnare le mense dei nobili ed essere bevuto dagli aristocratici: Ippocrasso (Ypocras), vino di Ippocrate, collegato al medico greco, simbolo dell’arte medica.

    Gli scopi di questi vini erano vari, in certi casi si trattava di vini usati per scopi medicinali, in altri si trattava di migliorare vini carenti di aromi o per renderli almeno bevibili (leggere le opere di Arnaldo da Villanova). Di certo le ricette più divertenti sono quelle che ci ha lasciato il notissimo François Rabelais (1494-1553), il papà di Gargantua e Pantagruele che, forse non tutti lo sanno, fu anche uno dei medici più colti del suo tempo.

    Come per i suoi romanzi, Rabelais, che senz’altro era un estimatore e un conoscitore di vini e spirito vivace, ci descrive con stile satirico la diversità delle erbe usate per l’aromatizzazione. Questo per far capire la differenza tra il vino bevuto per il piacere e l’idea del vino bevuto come medicina, sottolineando bene la distinzione tra le erbe e le spezie. Per questo, quando egli parla di Ippocrasso è ben lontano di paludarsi con vesti da sapiente medico, ma invita a bere senza troppe remore e trarre piacere dal buon vino, con gaiezza e leggerezza.

    Visitando la Devinière, la sua casa natale nella Loira, ci pareva di udire le sue grasse risate, mentre ci offrivano il bianco di casa (Chenin Blanc) con un pizzico di cardamomo, zenzero e un po’ di zucchero; e sinceramente va detto che questo novello Ippocrasso non era niente male.

    Figlio del suo tempo, lIppocrasso, vino saporito e profumato, contribuiva a innalzare lo status symbol di chi lo offriva ai suoi ospiti; era, insomma, segno di un’elevata posizione sociale servire l’Ippocrasso in quest’epoca in cui nasce la «follia delle spezie» e per questo diventò l’elemento che completava i pranzi di gala. Ma dato che si parla di spezie, bisogna sfatare la convinzione errata secondo cui l’uso di queste servisse a coprire le puzze dei cibi mal conservati: leggendo attentamente le ricette medioevali, si nota una grande volontà di trovare nelle spezie nuove armonie ed equilibri ben meditati, per dare ai cibi e alle bevande nuove sensazioni organolettiche.

    Per tornare all’Ippocrasso, il momento più consono per il suo consumo era a fine pasto con i confetti, il marzapane e dolcetti vari, come oggi d’altronde si fa con i vari Porto e Marsala.

    / Davide Comoli