Nella terra vitata del Roero - Vinarte

Bacco giramondo – Terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo ideale per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati – Piemonte 3a parte

Usciti da Torino sulla S29 arriviamo a Montà, siamo nel Roero, qui le «rocche», forre profonde e scoscese, frutto di erosione, emerse milioni di anni or sono dal mare, danno una connotazione esclusiva a questa zona del Piemonte.

Una manciata di chilometri e arriviamo a Canale, la nostra prima tappa, famosa per le sue succulenti pesche. Questo borgo agricolo è anche il luogo in cui – grazie ai fratelli Enrico e Marco Faccenda (Cascina Chicco) – facciamo conoscenza delle specialità enologiche di tale lembo piemontese. Un ricco piatto di salumeria roerina (antico vanto di casa Faccenda) di cui sottolineiamo il «prosciutto cotto al forno», c’invita alla degustazione.

Qui, terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo soffice; un’ideale situazione per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati. Un profumato e fresco Nebbiolo, vinificato in bianco «Metodo classico», apre la degustazione seguito da una Favorita, un bianco molto beverino. L’Arneis è un po’ il simbolo del Roero e dona un vino bianco con note olfattive molto interessanti, fresche e fruttate, piacevolmente amarognolo, ma noi chiudiamo con un prestigioso Roero Valmaggiore rosso, ottenuto da uve Nebbiolo, vino potente, ma armonico, vellutato e dai profumi delicati, ma soprattutto di facile beva.

Stivate alcune bottiglie di nettare, ringraziati Enrico e Marco Faccenda, ripartiamo per il nostro giro nel Roero. I colori dell’autunno creano meravigliosi quadri con il profilo delle colline ricoperte di vigne dopo la vendemmia. Colline spesso impreziosite dalla sagoma di un castello, una torre, un edificio sei-settecentesco, o anche solo da una chiesetta o una cappella di campagna che emergono dalla trama dei filari. Sempre sulla riva sinistra del Tanaro che divide il Roero dalle Langhe, troviamo Priocca, Govone, Castellinaldo e, tra il su e giù dei rilievi ricoperti con l’albero sacro a Bacco, arriviamo a Castagnito.

Ilaria, la proprietaria, ci accoglie con cordialità e, senza troppo tergiversare, ci serve un fumante «civet di lepre» (salmì) marinato per giorni nel Dolcetto, con crostoni di polenta. Meritevole da menzionare è il Barbera d’Alba prodotto da vecchie vigne, dal colore rubino intenso, note di spezie dolci al naso iniziali, poi amarena, cassis e lieve cacao, che ben si sposa con la portata calda. Ilaria poi ci vizia servendoci delle pere «madernassa» cotte nel vino con zucchero, cannella e chiodi di garofano. Sono pere dalla buccia sottile, di piccole dimensioni, che si trovano su alberi isolati sparsi tra i vigneti tra Canale, Guarene e Castagnito.

Si riparte: Guarene, Piobesi, S. Vittoria d’Alba, Cinzano dove è d’obbligo una visita al museo che raccoglie la storia del bicchiere. Una breve deviazione per il piccolo villaggio di Pocapaglia, circondato da un paesaggio di calanchi e burroni, spettacolo mozzafiato al tramonto. Quattro chilometri e siamo a Bra per la notte. La generosa cittadina, oltre a distribuire i suoi eleganti palazzi intorno a via Vittorio Emanuele II e con la vicina Pollenzo, è la capitale del buongusto (Slow-Food). Un piccolo assaggio di «carne cruda» con lamelle di tartufo bianco e un carrello di formaggi con differenti mieli delle valli piemontesi, tome varie, formaggelle del bec, robiole, seirass, gli erborinati Castelmagno e il raro Murianengo, sono sostenuti da un giovane Nebbiolo d’Alba. A tal proposito va detto che il Nebbiolo di questa zona deve essere bevuto piuttosto giovane per meglio apprezzare i suoi aromi floreali e fruttati, per la sua media struttura gradevolmente tannica. La classica panna cotta è invece servita con un Birbet, che tradotto dal dialetto significa birichino (è il nome che nel Roero viene dato al Brachetto), dolce e dal caratteristico sentore di muschio.

L’indomani raggiungiamo Verduno, dove dal giardino del castello sovrastante le vigne di Pelaverga, dalle cui uve si trae un vino cerasuolo, fragrante e speziato, si gode un fantastico colpo d’occhio sul susseguirsi ininterrotto di colline che offrono squarci di possente bellezza.

La Morra, Novello, Barolo con il suo castello e il museo del vino. Il lettore ci perdoni se abbandoniamo veloci le Langhe sabaude e barocche per inoltrarci in quelle più aspre e parimenti ricche di storia. Stiamo infatti attraversando i filari dei cru più prestigiosi del Nebbiolo, quelli che produrranno il Barolo (re dei vini e vino da re); la zona del Barolo comprende il territorio di undici comuni.

A Monforte scendiamo lungo i vigneti che ricoprono la collina, attraversiamo le frazioni di Perno e Castelletto, arriviamo a Castiglione Falletto con il castello dalle torri cilindriche. Purtroppo lo spazio concessoci c’impedisce di soffermarci di più sul binomio inscindibile di vino/cucina di questo territorio. Qui sembra che il tempo si sia fermato: che emozione la vista dei filari colorati dall’autunno che accarezzano i fianchi dei poggi. Rari «ciabòt» (casotti per gli attrezzi) sono i testimoni di un passato recente e ci ricordano il romanzo La malora scritto dal grande albese Beppe Fenoglio. Arriviamo a Serralunga d’Alba, che ospita la Casa di Caccia di Bela Rosin, dove si consumò la tresca con Vittorio Emanuele II.

A Diano d’Alba le vigne di Dolcetto producono un vino di pronta beva, Grinzane Cavour. Un anfiteatro di colline nel cui mezzo il Tanaro disegna una esse: siamo ad Alba, da sempre questa piccola città è il cuore delle Langhe. Alla sera mentre si va a cena, percorrendo la piazza che dal Duomo va nella via Maestra, l’aria si riempie di una densa nuvola di nocciole tostate (la tonda gentile) di cacao, ma si percepisce pure in sottofondo il profumo acuto e penetrante del tartufo. Come un sacerdote officiante «il patron» arriva con un carrello dove in piatti di porcellana presenta le fumanti catetiche, sette polpe di carne, i sette ammennicoli e le sette salse d’accompagnamento, poi comincia a tranciare i tocchi armato di un grosso coltello e forchettone.

Un Barolo Bussia 2011 granato intenso con accenni di viola, rosa e ribes e dai tannini fitti, ma ben integrati e dalla persistenza lunga è il degno «compare» del nostro «bollito misto». Una tazza del brodo di cottura con una nuvola di Dolcetto, prima di passare al raro formaggio: un Castelmagno invecchiato 40 mesi, e a Barolo Le Ginestre 2013, di grande struttura e complessità.

Al mattino risaliamo la collina di Altavilla e raggiungiamo la frazione di San Rocco Seno d’Elvio, luogo natale dell’imperatore romano Elvio Pertinace (126-193), ucciso dopo 87 giorni di regno. Un’impervia strada ci porta a Treiso, situato in un anfiteatro di marna bianca: siamo nel regno del Barbaresco. Treiso è un piccolo paese da cui si gode una straordinaria scenografia sulle vallate sottostanti. Seguendo le insegne delle molte cantine, arriviamo a Barbaresco, arroccato su una collina allungata con la sua torre costruita intorno all’anno 1000. I vigneti disegnano colline e valli in una splendida conca, dove ci sono le vigne dei grandi cru (Rabaja Asili). Ritornando indietro tra i filari di Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Moscato, si arriva a Neive; da questo piccolo gioiello dopo una pausa pranzo lasceremo le Langhe.

Cardi gobbi con fonduta di Castelmagno e tartufo vengono impreziositi da un raffinato Barbaresco Cottà 2015, mentre (quando ce vò ce vò) un Barbaresco Sorì Tildin 2015 del mitico Gaja, elegantissimo, di un rubino granato luminoso, enfatizza i classici «Tajarin» al tuorlo d’uovo, dove non viene lesinato il Bianco d’Alba.

Il bunet al cacao e dolci gianduiotti si sposeranno a meraviglia con il Barolo Chinato che seguirà, altra gemma dell’Enologia piemontese.

/ Davide Comoli