Nel Decameron della Firenze medievale - Vinarte

Il vino nella storia – L’ironia di una bevanda il cui consumo ha trovato spazio anche in alcune delle novelle boccaccesche

I vini che compaiono nei testi letterari della Toscana medievale diventano una chiave di lettura del ruolo che essi ricoprivano nella vita quotidiana.

Si può notare come il vino sia collegato a tre classi di valore. La prima è quella delle virtù terapeutiche e mediche: il vino viene infatti considerato come elemento in grado di mantenere la salute. La seconda classe è quella dei valori sociali: esistono infatti vini adatti per determinate celebrazioni, vini per la festa e vini popolari. La terza classe comprende quei vini capaci di intaccare le buone norme, dando origine a scene di lussuria e sfrenatezze varie, vini quindi che per le persone assennate vanno evitati.

Si capisce dagli scritti che il bevitore medievale fiorentino aveva una scelta grande di vini. Un ritratto della vita fiorentina dell’epoca è rappresentato nel Decameron, l’opera di Giovanni Boccaccio composta da cento novelle scritte tra il 1349 e il 1353.

La classificazione dei vini era all’epoca un’operazione complessa: l’aspetto fondamentale tra vini forti e vini deboli passava attraverso la concezione degli «umori», dove assumeva una forte rilevanza l’opposizione caldo/freddo, cui si sovrapponeva e quasi sostituiva l’opposizione organolettica dolce/acido. La corretta scelta del vino si doveva quindi basare sull’analisi dello stato sanitario del bevitore (età e condizioni di vita), ma si teneva conto anche della stagionalità, così pure del regime alimentare.

Nel trattato di dietetica di Michele Savonarola (sembra sia stato lo zio del più famoso «Girolamo»), si trova chiaramente descritta la classificazione dei vini dell’epoca. I vini «piccoli» (cioè poco alcolici/deboli) sono caldi al «primo grado», i vini più potenti sebbene ancora relativamente «piccoli» sono caldi al «secondo grado», le Vernacce e le Malvasie (vini dolci e più alcolici) sono caldi al «terzo grado», l’acquavite o acqua ardente è calda al «quarto grado». Su queste basi il Savonarola conclude scrivendo che «il vino, prima che un piacere, diventa un sostegno fondamentale per la buona salute, che conforta, corrobora, difende l’organismo».

Esempi di queste regole, non sempre seguite, vengono presentate dal Boccaccio (1319-1375) nell’epidemia di peste che colpì Firenze nel XIV sec. nella prima giornata nel suo Decameron. Alcuni, «racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo», cercano di proteggersi dal morbo seguendo principi morigerati, isolandosi dagli infermi e utilizzando il vino seguendo le regole della dietetica medica del periodo in modo «temperato». Altri invece di opinione opposta preferiscono godersi la vita per quanto possibile e di «bere assai (…) e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura»

Nella Firenze del 1300 esistevano comunque precise regole dietetiche per il consumo del vino. Così in estate si consigliavano vini «freddi», cioè vini deboli eventualmente con aggiunta d’acqua, «rinfrescare alquanto con freschissimi vini» troviamo sulle pagine del Decameron. In inverno al contrario sono consigliati vini «caldi» più forti e più dolci come le Vernacce e le Malvasie, perché si pensava che questi vini avessero la virtù di scaldare il corpo in inverno, di suscitare l’appetito, di scaldare lo stomaco e di facilitare la digestione. In quel periodo la teoria di collegare il vino alle condizioni atmosferiche era condivisa da tutti e non solo dai medici. Infatti nelle fonti mediche medievali spesso si trova il consiglio di servire il vino «secondo quello che il tempo richiede».

Nel Decameron il potere riscaldante e corroborante del vino «caldo» è sempre presente. Nella decima novella della seconda giornata, si racconta del giudice pisano Riccardo di Chinzica «magro, secco e di poco spirito» che dopo la prima notte di nozze passa quasi all’altro mondo, tanto che alla mattina «convenne che con Vernaccia e confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornava».

Il vino dolce e alcolico era il più costoso e quindi più prestigioso rispetto ai vini deboli e aciduli. Come tali questi vini erano segni di ricchezza e abbondanza, collegati quindi a occasioni solenni quali matrimoni oppure banchetti in onore di ospiti illustri. Sempre nel Decameron, in molte novelle si respira l’atmosfera di sfarzosi banchetti dove il «vin Greco», la «Malvasia», la «bella e buona Vernaccia», vengono offerti in «scatole di confetti e preziosissimi vini», dove «bevendo e confettando» gli ospiti si riconfortano bevendo «vini finissimi» che accompagnano grossi capponi.

In una novella il Boccaccio racconta che gli ambasciatori papali in missione a Firenze insieme a messer Geri Spina, passano ogni mattina davanti alla bottega del fornaio Cisti, divenuto ricchissimo, e che viveva in modo splendido. Fra le tante cose buone possedeva «i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero nel contado». Cisti, per onorare gli ambasciatori del papa, offre il suo buon vino bianco scelto, travasandolo da un piccolo orcioletto in «quattro bicchieri belli e nuovi». Oltre a riscaldare il sangue i vini bianchi dolci e potenti sono immancabilmente collegati alla trasgressione e alla lussuria.

Quando il Boccaccio descrive la casa di campagna dove si rifugiano le sette fanciulle e i tre giovani che per dieci giorni racconteranno a turno le novelle del Decameron, a proposito di vini dolci dirà: «con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne». Più avanti aggiunge «non è bello per i giovani correre alla lussuria bevendo Malvasia fin dal mattino, ma per le donne è ancora peggio», come mostra la novella della figlia di Soldano di Babilonia, che in una cena beve vari vini mescolandoli, tant’è «più calda di vino che d’onestà temperata» e senza vergogna accetta proposte sconvenienti.

Con il suo repertorio di situazioni, tipi e burle narrate di volta in volta da Panfilo, Neifile, Filomena, Dionèo, Fiammetta, Emilia, Filòstrato, Lauretta, Elissa e Pampinea, il Decameron ha conservato nei secoli la sua fama di libro «ameno».

Anche gli ordini religiosi non si sottraggono alle canzonatorie, infatti il Boccaccio lancia strali contro i frati che appaiono grassi e coloriti, che possiedono scorte opulente di leccornie come «alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono più tosto a’ riguardanti».

Le regole di assunzione dei vini vengono ancora chiamate in causa nelle ultime pagine del Decameron, dove lo scrittore vuole rispondere a probabili accuse contro la morale contenute nelle novelle, Boccaccio difende la propria opera servendosi di paragoni con il vino: «Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi (…) et a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, perciò che nuoce a’ febbricitanti, che sia malvagio? (…) Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle».

/ Davide Comoli