La secolare pergola valdostana - Vinarte

Bacco giramondo – Le fatiche della gente di questa valle porta alla produzione di vini d’eccellenza ma non riesce mai a soddisfare la domanda

«Eroico» il termine può sembrare banale, ma è quello che meglio rappresenta la viticoltura della Valle d’Aosta.

La Dora Baltea ha scavato nei secoli il suo alveo e percorre la Valle da ovest verso est. In questi luoghi, da secoli, la vite (il 65% vitigni autoctoni), ha selezionato gli anfratti e le migliori conche, dove il clima si fa più propizio a una coltura viticola orientata alla qualità e alla piacevolezza: il clima valdostano è continentale, caratterizzato da inverni lunghi e rigidi, frequenti gelate primaverili ed estati calde con un’ottima escursione termica, fattore che favorisce una maggiore intensità olfattiva nei vini prodotti.

Il vino è rimasto per secoli un alimento di particolare ricchezza in una società dove il benessere non era certo denominatore comune. La coltura vinicola, espressa il più delle volte nella forma ricorrente (la pergola valdostana), ha accompagnato per secoli le vicende umane.

L’uomo ha plasmato il territorio con enorme fatica, plasmandolo con quella struttura a gradoni, caratterizzata da muretti a secco e più o meno pianeggianti strisce di terra.

L’attaccamento della gente valdostana a questo genere di «viticoltura eroica», porta alla produzione di vini d’eccellenza, ma che non riesce mai a saziare la domanda.

Gli ettari vitati sono 520, dei quali ben il 65% in montagna. A dipendenza dell’annata si producono circa 15mila ettolitri di vino, dei quali l’80% rossi o rosati, il 15% vini bianchi, ma l’originalità dei vini della Valle è data da vitigni autoctoni, i quali con i loro caratteri individuali danno senza dubbio originalità, rendendo inimitabili questi vini. La resa è molto bassa, circa 6 t/ha.

Circondata a mo’ di ferro di cavallo dalle Alpi Graie, le quali culminano nel gruppo del Monte Bianco, la Valle è una delle zone più riparate d’Europa, ma anche una delle più secche. Nel giro di poche decine di chilometri, la vite deve affrontare situazioni ambientali molto differenti, determinate da un’altitudine che passa da 300-400m della Bassa Valle ai 500-700m della parte centrale, fino ai 1200m di Morgex.

Nella parte bassa si trovano le zone più vitate, con terreni a tessitura franco-sabbiosa, e la presenza di scheletro a favore del drenaggio. Qui crescono vitigni a bacca nera come il Nebbiolo e derivati. La parte centrale, invece, vanta terreni poco fertili. Mentre verso Morgex, i terreni sono di natura granitica: ed è proprio qui che viene prodotta una delle gemme locali, il «Blanc de Morgex et de la Salle».

Man mano che si sale, è d’obbligo impiantare la vite solo sui versamenti più assolati e più riparati, per cui nelle parcelle che si trovano in zone più elevate vengono coltivati vitigni a bacca bianca, i quali beneficiano di un’ottima acidità, mentre sui terrazzamenti orientati a sud, nel Mezzo e Bassa Valle, si privilegiano vitigni a bacca rossa, i quali danno dei vini robusti e corposi.

Dal 1987 il CERVIM (Centro di ricerche, studi e valorizzazione per la viticoltura montana), prosegue l’obbiettivo di salvaguardare e promuovere la viticoltura in montagna e/o in condizioni orografiche difficili, come in forte pendenza o terrazzamenti, minacciata dagli alti costi di produzione e dalle caratteristiche del territorio.

Furono i Salassi, preistorica tribù di origine ligure-gallica, i primi abitatori della Valle, a praticare la coltura della vite, favoriti da condizioni climatiche migliori delle attuali.

Sconfitti nel 25 a.C. dal console romano Aulo Terenzio Varrone, più di 35mila di loro furono deportati come schiavi e la Valle passò sotto il dominio di Roma.

I primi documenti che ci parlano di vini appaiono nel 515, momento in cui, Sigismondo (re dei Burgundi poi riconosciuto santo) fondò l’Abbazia di S. Maurizio nel Canton Vallese. La tradizione vitivinicola fu mantenuta nei monasteri anche sotto i vari domini stranieri che hanno nei secoli attraversato la Valle.

Nella seconda metà del 1800, la filossera sconvolse tutto quel che era stato creato nel passato. Dal 1985 la struttura qualitativa della vitivinicoltura ha preso la sua definitiva fisionomia che prevede una sola D.O.C. Valle d’Aosta o Vallée d’Aoste, denominazione che viene poi suddivisa in sette sotto-denominazioni le quali fanno riferimento a zone di produzione più piccole: Donnas, Arnad-Montjovet, Chambave, Nur, Torrette, Arvier e Morgex-La Salle. Ciascuna di queste caratterizza ancora meglio la propria produzione, utilizzando il riferimento a un vitigno, al colore o alla metodologia d’ottenimento: circa trenta sono le varie tipologie.

Lo sperone del Monte Cormet che divide Morgex da Courmayeur, impedisce agli abitanti di Morgex di vedere il Monte Bianco. Per fotografare la cima del Bianco e in primo piano i vigneti, siamo saliti a Villaret, frazione di La Salle. I due comuni costituiscono il tetto della viticoltura europea, dove resiste a più di 1200 m il Prié Blanc, sui terrazzamenti a pergole basse, su ceppi a «piede franco», che danno un vino ricco di mineralità, sentori di erbe alpine e fiori di sambuco.

Prima d’incontrare la piana aostana che è un po’ il cuore della viticoltura della valle, troviamo lo storico rosso Enfer d’Arvier, assemblage di rossi autoctoni, Petit Rouge, Mayolet, Fumin e Vien de Nus, ottimo con la tipica «carbonade»: spettacolare è l’anfiteatro di rocce, soleggiato anche in inverno, in cui matura.

Dove la Dora Baltea s’allarga a fondo valle, i vigneti si estendono su una stretta fascia di terreno che da ovest a est si estendono da Villeneuve fino a Montjovet, toccando i comuni di Introd e Aymavilles, il più vitato della regione. Questa è la zona elettiva per gli autoctoni a bacca nera, il Petit Rouge, capostipite di quasi tutti i vitigni rossi aostani; il Fumin che si affina con ottimi risultati, molto spesso vinificato in purezza, stupendo con gli gnocchi alla fontina; il Vien de Nus, da godere se bevuto giovane; interessanti pure il Cornalin (Humagne Rouge in VS) e il Mayolet; e se avete la fortuna non lasciatevi sfuggire il raro Vuillermin. Non mancano di certo i vitigni internazionali come il Gamay, Syrah, Merlot, ma se vi trovate a Saint-Pierre, passate dalla Maison Anselmet a provare (poche bottiglie) il superbo Pinot Nero.

Tra i bianchi internazionali, il più coltivato è lo Chardonnay con Müller Thurgau, Pinot Grigio (chiamato Nus Malvoisie), l’emergente Petite Arvine, sconfinato dal vicino Vallese, il Prëmetta uva a bacca grigia che dà buoni rosati, e il Moscato Bianco, sia secco che dopo appassimento.

In fondo valle, da Montjovet a Bard, si coltiva il Nebbiolo, su terrazze ripide e pergole sorrette dai «pilun» (colonne di granito), dove le vigne sembrano templi dedicati a Bacco.

Brindiamo al nostro viaggio con un rosso di montagna austero, di fronte a una tipica e fumante fonduta; a due passi inizia il Piemonte.

Malbec Terrazas de los Andes
Un tempo popolare a Bordeaux, il Malbec è un vitigno oggi molto legato all’Argentina, tanto da esservi stato per un certo periodo la varietà di uva a bacca nera più allevata.

Il Malbec arrivò in Argentina esattamente a Luján de Cuyo (Mendoza) a metà del XIX sec. portato dal francese Aimé Pouget, divenuto negli anni l’alfiere della viticoltura del Paese sudamericano, che occupa la quinta posizione come produttore nel rango mondiale.

Situati lungo le vallate degli altopiani delle Ande, i vigneti della zona di Mendoza si trovano a un’altitudine che varia dai 200 fino ai 1700 m sul livello del mare, come quelli del Malbec prodotto dalla storica cantina Terrazas de los Andes.

Da noi provato, si presenta con un colore rosso profondo, con leggera unghia violacea; al naso rivela note di ciliegia matura e frutta scura, con un leggera speziatura, i tannini sono morbidi e testimoniano una grande struttura con un finale piacevole che sa di cioccolata.

Nel nostro recente viaggio lo abbiamo spesso gustato con i grandi piatti di carne alla brace, per questo lo raccomandiamo per le vostre grigliate estive.

/ Davide Comoli