Un americano a Parigi - Vinarte

Il vino nella storia – Thomas Jefferson soggiornò in Francia dal 1784 al 1789 appassionandosi all’intero mondo della viticoltura prima di tornare in America.

Niente paura! Abbiamo solo preso in prestito la nota composizione dello statunitense George Gershwin per introdurre un personaggio a cui va il merito di aver fatto conoscere i grandi cru francesi (e non solo) alla allora giovane Nazione americana. Sofisticato rivoluzionario, più pensatore che brillante, più riservato che timido, più studioso che pedante, più esteta che gaudente, Thomas Jefferson (1743-1826) fu una persona fuori dal comune e il suo soggiorno in Francia fece epoca per il raffinato savoir-vivre tanto in voga in quel tempo.

Fu un autentico figlio del secolo dei Lumi, erudito avvocato dell’aristocrazia virginiana, discepolo positivistico di Bacon e Newton ed illuminato contemporaneo degli Enciclopedisti francesi, con i quali amava molto disquisire.

Terza generazione dei coloni del Nuovo Mondo, Jefferson possedeva un certo fervore ereditato dai suoi avi per la terra e per tutto quello inerente all’agricoltura, aveva infatti ottime conoscenze in agronomia, in geologia e in botanica. A Parigi, dove giunse come ministro plenipotenziario in rappresentanza dei giovani Stati Uniti d’America, venne ricevuto nei più famosi salotti letterari, scientifici e mondani dell’epoca. Per il suo ruolo, talvolta fu persino ricevuto alla corte di Luigi XVI del quale poco apprezzava gli intrighi e gli artifizi. In compenso ritrova un grande amico, Gilbert du Motier de La Fayette (1757-1834) con il quale aveva combattuto durante la guerra d’indipendenza americana (1777).

La missione in Francia di Jefferson durò dal 1784 al 1789. Alla sua tavola, presso l’hotel Langeac dove prese alloggio, egli ebbe molti ospiti e sorvegliò personalmente la qualità della cucina e il servizio dei migliori vini. In Francia, Jefferson scoprì di avere un grande interesse per l’enogastronomia, sia per una sua personale inclinazione, sia per far brillare il più possibile l’immagine americana. Contadino nell’anima, ma epicureo gourmet egli s’interessò all’agricoltura durante i suoi viaggi in territorio francese e italiano, ma fu soprattutto la viticoltura e l’intero mondo del vino ad appassionarlo molto.

Lo studio dei vitigni non portò Jefferson a desiderare l’importazione della viticoltura negli Stati Uniti, ma al contrario: egli diffidava di un’economia basata sulla monocultura della vigna, secondo quanto scrisse nelle lettere inviate all’amico William Henry Drayton. Furono invece osservati con interesse da Jefferson la produzione di piselli, delle fragole e del granoturco, mentre in Italia, nel vercellese, scoprì una varietà di riso che egli propose d’acclimatare nel sud Carolina.

Dalle sue lettere emerge che per Jefferson il buon vino era legato intimamente al relazionarsi civile, alle buone maniere, all’arte del vivere, che prevedevano l’uso di questa bevanda in modo misurato. Era anche convinto che il consumo del vino fosse un antidoto all’alcolismo dilagante nel suo Paese d’origine, dove s’abusava di distillato di mais e frumento. Quando divenne Presidente degli Stati Uniti (1807) fece quindi modificare, diminuendole, le tariffe d’importazione dei vini.

Da studioso d’agronomia, Jefferson restò affascinato dalle molte discipline legate alla viticoltura, così come fu impressionato dalla portata degli sforzi umani richiesti per ottenere una qualità ottimale nei vini. A Bordeaux, Jefferson andò alla ricerca dell’eccellenza, uomo d’ordine e metodico, seguì la sua inclinazione enciclopedica, stilando una lista gerarchica delle principali proprietà viticole della Gironda, 70 anni prima della classificazione dei crus bordolesi (1855).

L’interesse per la viticoltura è dimostrato anche dal suo impegno volto a crearsi una cantina personale: trascorse molto tempo a degustare prima di comprare, non s’accontentò mai della sola reputazione di un Château o di un vino. Non fu dunque un «bevitore d’etichette» come lo definiremmo ai giorni nostri. Fu così che egli forgiò la propria reputazione di connaisseur diventando anche punto di riferimento e consigliere agli acquisti di molti suoi connazionali. È evidente come Jefferson fu uno dei più grandi esperti di vini nella sua epoca.

Di ogni regione attraversata, Thomas Jefferson osservò prima di tutto la composizione e il colore dei terreni, cercando di stabilire delle correlazioni tra i biotopi visitati con quelli della sua Virginia, esempi che avrebbero potuto servire in seguito… Nel suo peregrinare incontrò casualmente il celebre agronomo inglese Arthur Young, ma né i loro obiettivi né i loro metodi d’osservazione collimarono. A Bordeaux, Jefferson non solo volle conoscere la gerarchia dei crus, ma desiderò imparare le pratiche di coltivazione e vinificazione (i suoi commenti sulle tecniche d’innesto ci stupiscono ancora oggi).

Noi che viviamo in questo secolo siamo legati a una conoscenza post-filossera, infatti nel XVIII sec. la Philossera vastatrix ancora non minacciava i vigneti europei. Gli innesti di cui parla Jefferson non servivano per combattere parassiti della vigna, ma a riprodurre vitigni più forti secondo una tecnica descritta dall’agronomo Nicolas Bidet nel suo trattato Traité sur la nature et sur la culture de la vigne nel 1759. Jefferson fece anche riferimento alla qualità del vino rapportandolo all’età delle vigne (le quali necessitano di almeno tre o quatto interventi all’anno) e menzionò l’uso del letame, scrivendo che il pieno rendimento di una vigna sia per qualità sia per quantità viene raggiunta al 25° anno d’età del ceppo.

Dopo quasi cinque anni di diplomazia politico-economica, Jefferson dovette rientrare, con la speranza però di poter presto ritornare a Parigi, ma già spirava il vento della Rivoluzione e per cui non riuscirà più ad assaporare in Francia i vini che amava divenuti «repubblicani».

Le cronache narrano che tra i suoi bagagli ci fossero delle barbatelle di vite; gli amici della Borgogna giurarono che fossero di Pinot Nero e Chardonnay, noi con sicurezza sappiamo che a bordo c’erano 41 barbatelle di Cabernet, destinate a rappresentare la viticoltura di Bordeaux a Monticello in Virginia dove aveva casa Jefferson e sappiamo pure che quelle barbatelle non si acclimatarono mai.

Clos Floridene 2016
Le calde giornate e le tiepide serate invogliano a un’alimentazione semplice e leggera. I freschi ingredienti di questa stagione permettono di preparare con facilità piatti appetitosi senza passare troppo tempo al caldo in cucina, creando combinazioni sfiziose.

Con il suo colore paglierino luminoso il «Clos Floridene», vino bianco delle Graves che trovate nelle nostre Enoteche, è un ottimo compagno per i tartare di pesce o i carpacci di spada e tonno affumicati, ma anche per le varie salades composées, fra tutte la famosa Niçoise.

I deliziosi sentori di vitigni Sauvignon Blanc e Semillon elevati in barriques nuove evocano, infatti, aromi di fiori bianchi, fiori d’acacia, frutti a polpa bianca come la mela cotogna e note d’albicocca. In bocca troviamo la freschezza di un sorbetto alla frutta e una discreta sapidità, con un leggero retrogusto di vaniglia che ricorda il legno tostato.

L’enologo Denis Dubourdieu, grande esperto della vinificazione in bianco, nel suo vigneto ha prodotto questo vino, che abbiamo voluto provare con la nuova linea di Sushi creata dalla Migros, non vi resta che provarlo (buon appetito).

/di Davide Comoli