Nelle vigne del Signore - Vinarte

Vino nella storia – Quel che si deve ai monaci dei secoli XII-XIII: dai Benedettini delle origini, passando dai Cluniacensi, fino ai Cistercensi

Il vino è sicuramente uno dei temi attorno al quale, sia pure con gli equivoci sfondi delle taverne, si sviluppa quel poco di poesia laica che il Medioevo è riuscito a farci pervenire. Il vino, tutto sommato, resta una delle poche fievoli luci che riescono a illuminare quelli che noi chiamiamo «secoli bui».

Una luce che, forse grazie ai Clerici Vagantes, riesce a trovare uno spiraglio nello spazio lasciato di proposito aperto nei massicci portoni dei monasteri, per permettere l’ingresso alla bevanda sacra a Bacco. Uno spiraglio incredibilmente lasciato socchiuso dalla rigida Regola di San Benedetto, disposta a fare concessioni riguardo il prodotto della vigna.

Nel capitolo XL della Regula Benedicti, intitolato De mensura potus (La misura della bevanda; ovvero La quantità del bere), si ritiene che – in linea di massima – per ogni monaco «un’emina* di vino al giorno sia sufficiente» (*misura greca che equivale a circa ½ litro), e non trascura di aggiungere che «quelli ai quali Dio dà la forza di astenersene sappiano che avranno una ricompensa particolare». In ogni caso continua: «se le esigenze locali o il lavoro o il caldo d’estate richiederanno di più, stia al superiore giudicarlo, badando che in nessun caso subentri sazietà e ubriachezza». Alla base di questa concessione della Regola, c’è una considerazione che poggia sul buon senso: «Siccome oggi non è possibile persuadere i monaci, acconsentiamo almeno che non si beva fino alla sazietà, ma con moderazione, perché il vino fa apostatare anche i saggi».

Quanta saggezza! Se proprio il peccato non si può evitare, che almeno lo si commetta senza suscitare troppo scandalo.

Per questi peccati minori («veniali» cioè «perdonabili»), nel Medioevo la Chiesa con un colpo di genio, s’inventa anche il luogo per l’espiazione: il Purgatorio.

Il secolo XI ebbe un inizio (994) e una fine (1109). Fu il secolo che dipanandosi, diede avvio a un profondo cambiamento nella storia dell’Europa occidentale: l’assoluta affermazione della superiorità e centralità della Chiesa di Roma, l’innalzamento a legge indiscutibile di tutte le norme elaborate a Roma e il passaggio in secondo piano di tutte le altre Chiese locali.

In quel tempo già molti monasteri si erano un po’ allontanati dalla Regola benedettina; la tolleranza agli eccessi di carne e di vino era divenuta a poco a poco un’abitudine. E proseguì fino a produrre una reazione contraria. Una grossa spinta al ritorno a un modello di vita monastica che accentuasse gli aspetti penitenziali e ascetici della Regola benedettina, perseguendo con maggior rigore la povertà e l’isolamento, fu data dall’Abbazia di Cîteaux (Cistercium), fondata nel 1098 da Roberto Molesme. Nel 1119, l’abate Stefano Harding formalizzò la proposta religiosa contenuta nella Carta Caritatis, con la quale i Cistercensi rifiutavano inizialmente i diritti signorili e quelli connessi con il controllo delle chiese. Anche se alla fine del XIII sec., certi ideali cominciarono a venir meno, la regola Cistercense ci ha lasciato un’immagine positiva della figura del monaco, non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche per quel che concerne la gestione economica.

Più dei Benedettini delle origini, i monaci Cluniacensi, e ancora di più i Cistercensi, diventano dei viticoltori. In Borgogna questi ultimi creano tra il XII e il XIII sec., una «corona» di vigne, acquisendo (senza eccedere nel bere), un solido sapere viticolo ed enologico. È certo che stabilirono il rapporto che esiste tra «terroir» e vitigno, forse in modo empirico. Vuole la leggenda che i monaci, per analizzare il suolo, mettevano in bocca piccole particelle di terra, sia quelle ricevute in dono quanto quelle strappate alla boscaglia.

Alla fine del XIII sec., i climats, così erano e sono tutt’ora chiamati gli appezzamenti vocati alla viticoltura, si distinguevano e venivano identificati per il loro aspetto fisico (Montrachet, e Mont Chauve), per la loro pedologia (les Perrières, les Grèves, les Gravières), per le loro particolarità botaniche (les Charmes, les Genevrières). Sfruttando il materiale di cava essi non lesinano il materiale per le loro chiese e con lo stesso ardore, edificano luoghi per la fermentazione delle uve e capaci cantine ove stoccare il vino. La cantina di vinificazione del castello di Clos de Vougeot è lunga 27 metri, larga 16 e alta 6, mentre la vicina cantina sotto lo Château di Gilly, poteva contenere sino a 2mila «pièces» (botti da 228 l).

Oggi qualcuno avanza seri dubbi sul ruolo dei Cistercensi nelle nostre campagne: gli storici sostengono che essi abbiano beneficiato di una dinamica già in atto da tempo nelle campagne europee. Ma per noi che scriviamo quei Monaci rimangono i dissodatori, dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia alla Andalusia; per noi, essi hanno creato radure nelle fitte foreste, provetti idraulici hanno domato fiumi e drenato paludi, pionieri della rotazione triennale sono riusciti a ottenere alti rendimenti agricoli; per noi hanno selezionato grandi vitigni.

I cellieri Cistercensi costruiti nelle regioni viticole più rinomate, per la maggior parte hanno resistito al tempo come ad esempio Eberbach, nel cuore dei vigneti di Rheingau al già citato Clos de Vougeot o a La Bussière, sempre in Borgogna. Per questo motivo i Cistercensi costituiscono una testimonianza primaria nella produzione del vino nel Medioevo insieme ad altri Ordini.

Tempo fa, spinti dalla passione enologica e dalla voglia di capire meglio il mondo del Monachesimo medioevale, abbiamo cercato delle «appellations» di vini che avessero un’origine monastica, attualmente ce ne sono 109 in Francia, 45 in Germania, 27 in Austria, 17 in Italia, 12 in Svizzera, 9 in Portogallo, 7 in Spagna, 5 in Grecia e 2 dubbiose in Gran Bretagna.

Scelto per voi

Michel Genet Champagne

La famiglia Genet ha una lunga storia radicata a Chouilly, villaggio situato lungo la D3 tra Épernay e Ay.

Antoine, Vincent e Agnes hanno voluto onorare il padre dando il nome a questo Gran Cru brut nature, prodotto solo con uve Chardonnay; un blanc de blanc che ci stupisce per i suoi aromi floreali e vegetali.

La complessità dei sentori di tostato, frutta secca e mandorle fresche che vengono espresse nel palato dallo Chardonnay con la maturazione – al quale non manca un tocco di mineralità e un finale che ricorda l’ananas maturo – fanno di questo Champagne l’ottimo partner per il brindisi di fine anno, sia come aperitivo sia come compagno su una lunga serie di piatti, dai pesci con salse saporite al pesce affumicato o ai piatti di carne aromatizzati con spezie orientali.

 

/ Davide Comoli