I celti e l’arte del bottaio - Vinarte

Vino nella storia – Tra le divinità più importanti del Pantheon gallico, Sucellus, ovvero «colui che batte bene»

Da Le origini della viticoltura in Piemonte a opera del professor Filippo Maria Gambari, apprendiamo grazie ai numerosi corredi tombali etruschi ritrovati nella zona del Lago Maggiore, che la diffusione della viticoltura risale all’incirca quando a Roma regnava Tarquinio Prisco, quinto re di Roma (616-579 a.C.).

La mancanza di grosse anfore vinarie, e i ritrovamenti di piccoli vasi potori e brocche dal becco di bronzo, portano il noto archeologo a supporre l’utilizzo di piccoli otri o addirittura di botti lignee di facile trasporto per vie d’acqua come l’idrovia Ticino-Lago Maggiore.

Purtroppo, mancano prove e riscontri certi, ma è sicuro che la nascita della botte da vino gallica, descritta come vedremo da Strabone (21 d.C.) e da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), sia avvenuta nella Gallia Cisalpina.

La tesi dell’impiego di piccole botti lignee per il trasporto fluviale è quindi anche a parer nostro più che una supposizione. Immaginare un drammatico naufragio che, dopo l’affondamento del barcone, metteva in salvo le botti contenenti il vino grazie alla loro capacità di galleggiare ed essere recuperate, non doveva essere probabilità remota, ma è meglio non far correre troppo la fantasia.

Il vino è stato comunque veicolo di confronti e travasi di civiltà, da qui l’origine dell’apprendimento delle popolazioni Celtiche, che divennero un’eccellenza nella produzione e conservazione del vino nelle botti di legno. Tuttavia va ricordato anche solo per curiosità che i celti utilizzarono le prime anfore vinarie etrusche come «urne cinerarie»; non pensiamo che lo facessero per risparmiare, ma in ogni caso l’idea che le «ceneri» potessero risposare in un contenitore reso «sacro» dal vino ci regala un immenso sorriso.

Mentre la cultura della vite e soprattutto la produzione del vino erano inizialmente ignote alle popolazioni celtiche nelle loro sedi transalpine, pare comunque indubbio che già molto prima della conquista romana i Galli calati nella Cisalpina avessero appreso dalle popolazioni indigene certe tecniche, che essi integrarono con le loro precedenti esperienze produttive. Notevole era l’abilità di questo popolo nella metallurgia e nell’oreficeria, inoltre i Celti erano esperti anche in tutte le pratiche di carpenteria. Un esempio importante di questa integrazione, come riferì lo storico dell’agricoltura italiano Emilio Sereni, è quello dell’impiego di tini e botti di legno ai fini della preparazione e della conservazione del vino. Un impiego delle botti completamente estraneo alla tradizione dei popoli mediterranei, che usavano come è noto, manufatti ceramici di varie dimensioni oppure otri di pelle.

Di «botti di legno più grandi delle case», invece, ci parla non senza farsi meraviglia, Strabone nella sua Gheographiká (V,1,8) scritto verso il 18 d.C., parlando dell’abbondanza della produzione vinicola nella Padania. Così come di vino conservato in recipienti di vino cerchiati, ci parla Plinio (Gaius Plinius Secundus, Naturalis Historia, XIV 27, 132) per la regione alpina: «Circa Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt atque etiam hieme gelida ignibus rigorem arcent. Rarum dictu, sed aliquando visum, ruptis vasis stetere glaciatae moles, prodigii modo, quoniam vini natura non gelascit». «Nelle località alpine pongono i vini in recipienti di legno, li cerchiano e anche durante i rigori invernali, li difendono dal freddo con il fuoco. È cosa straordinaria, ma qualche volta si è visto che, rotti i recipienti, restano lì immobili masse di ghiaccio, quasi per prodigio, perché il vino per sua natura non gela». E aggiunge: «doliis etiam intervalla dari, ne inter sese vitia serpant atque contagione vini semper ocissima». «Le botti devono essere disposte a una certa distanza l’una dall’altra, a evitare che i difetti si diffondano tra di esse, perché il contagio del vino è velocissimo» (Plinio, N.H.).

Scoperte archeologiche rivelano che le doghe erano fatte di legno di abete e larice, piegate e chiuse a incastro «Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt», tenuti insieme da cerchi di noce e salice.

Strabone (Gheographiká) era pure rimasto impressionato dalla presenza di forni per la produzione della pece, che si otteneva dalla resina degli abeti rossi e che serviva a calafatare gli interstizi tra le doghe. Chissà com’era il gusto del vino che era stato in contatto tra legno d’abete e la pece? Quel che si sa è che perlomeno la pece garantiva una buona tenuta stagna.

Le pratiche della carpenteria celtica ebbero una parte di primo piano, alcune parole inerenti all’arte del bottaio le possiamo ritrovare ancora oggi ad esempio dal gallico «bunda» ritroviamo il lombardo «bondòn» (il cocchiume – il tappo che chiude la botte), da «tunna» la «tonne» francese, e poi ancora: «brenta» per il trasporto a spalla di liquidi, «bonz», botte carreggiata, o in lombardo «bonza». Molte sono le fonti iconografiche di età romana che rappresentano nei territori della Gallia Cisalpina e Transalpina i trasporti di vino effettuati nelle botti per terra o per via fluviale.

D’altronde possiamo aggiungere che la botte e il martello del bottaio, hanno una parte importante nell’iconografia di una delle divinità più importanti del Pantheon gallico, Sucellus, che presiedeva a quanto pare, alla preparazione della birra, la mistica bevanda celtica, alimento e gioia della vita d’oltretomba, e pertanto anche all’arte del bottaio, dato che il suo nome significherebbe «colui che batte bene».

Il culto di Sucellus fu così diffuso in tutta la Gallia romana che molti musei, soprattutto francesi, offrono un gran numero di rappresentazioni di questo dio che impugna un mazzuolo a indicare che Sucellus era per l’appunto il patrono dei vignaioli gallici; quindi ricordatevi, quando andrete a Beaune (Borgogna), di conoscere questo personaggio, che di certo non usurpa il posto in cui è collocato nel museo del Vino della città.

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Barbera d’Alba Superiore «Adriano»
In località San Rocco Seno d’Elvio, piccola frazione di Alba, su suoli argillo-calcarei, adatti a produrre vini complessi e strutturati, i fratelli Marco e Vittorio Adriano coltivano, da lungo tempo e con grande rispetto per l’ambiente, i classici vitigni del Piemonte. Il Barbera Superiore che oggi vi consigliamo – e per i meno avvezzi al Piemonte, ci troviamo a pochi passi da Barbaresco – ci colpisce per la pulizia dei suoi profumi che richiamano la marasca, la prugna, il ribes, ma anche la viola e alcune spezie delicate. Pure il suo colore, che è di un rosso rubino profondo con riflessi viola-blu, ci fa capire che abbiamo di fronte un vino ottenuto dalla migliore selezione di uve. Al palato troviamo un vino molto armonico, con un ingresso tenue in bocca e una bella apertura verso la polpa del frutto. È il vino che vogliamo consigliare come regalo per la Festa del papà, da abbinare a primi piatti corposi, dove non manca il formaggio d’alpeggio, e al bollito misto, ma da non disdegnare nemmeno con una merenda tra amici con pane e salame.

 

/ Davide Comoli