Gli Etruschi, abili commercianti - Vinarte

Vino nella storia – La via della cultura enologica parte dalla Toscana per arrivare ai confini del Ticino e oltre

Il popolo degli Etruschi sviluppò la sua civiltà fra il IX secolo a.C. e il secolo I d.C. Durante questi secoli ha avuto, a proposito di vino, un ruolo particolare.

I frequenti contatti con i commerciati Fenici e Micenei, furono molto importanti per lo sviluppo delle loro conoscenze nel campo dell’enologia.

L’attuale Toscana era il centro della società etrusca, una civiltà di persone intraprendenti tanto da fortemente espandere la propria influenza, fondando molte città sia al sud, sia nella pianura padana, sino a raggiungere le Alpi.

Testimonianze storiche e archeologiche attestano che furono gli Etruschi a far conoscere il vino e la viticoltura alle popolazioni dei Celti e a quelle del nord Italia.

Peraltro, come dimostrano gli studi di Emilio Sereni, la vite selvatica era attestata un po’ ovunque, nella Cisalpina, come dimostrano parecchi ritrovamenti dal Neolitico all’età del Bronzo, ma che di certo non poteva elevarsi nella produzione di una bevanda fermentata, come molto probabilmente lo erano le bacche di corniolo, le more di rovo e il sambuco.

È in ogni caso possibile, grazie ai vari ritrovamenti, pensare che nelle zone dell’alto Adriatico, grazie ai commerci con i Greci in tarda età del Bronzo, sia stato incoraggiato l’utilizzo, per quanto marginale, di una selezione di uve selvatiche locali a scopo alimentare.

Con l’inizio dell’età del Ferro, soprattutto dopo l’VIII secolo a.C., ci fu come dicono i climatologi, il passaggio dal periodo climatico subboreale a quello subatlantico. Il conseguente miglioramento della temperatura ha favorito la diffusione della viticoltura, l’ingentilimento dei vitigni, la scoperta di nuove metodologie della coltura della vite, evoluzione il cui merito è assegnato da tutti gli studiosi concordi agli Etruschi.

La forma di coltivazione della vite, caratteristica dell’area sotto l’influenza etrusca, era quella delle viti maritate agli alberi, ovvero all’arbustum gallicum, come scrivono Plinio (nella sua opera Naturalis Historia) e Varrone (nella sua De Re Rustica), in modo che il sostegno vivo non mortificava il vigore vegetativo della pianta.

L’importanza dell’arbustum gallicum e il suo ruolo nella costruzione del sistema viticolo Cisalpino sopravvivono nella toponomastica in denominazioni moderne, vedi: Narbosto nell’Oltrepò presso Casteggio e in Arbostora, il monte che dall’Alpe Vicania scende verso Morcote.

Nell’Italia Cisalpina, Plinio (N.H. XVII 212,23) segnalava la diffusione di un albero chiamato Opulus Rumpotinus sul quale la vite si appoggiava. L’etimologia di Rumpotinus porta a «rumpus», tralcio, e «teneo», verbo che significa sostegno. L’albero più usato come «marito» sostegno della vite, soprattutto nella Padana centrale era il Populus nigra (pioppo nero).

Questo ci ricorda che il nome della divinità etrusca corrispondente al greco Dioniso, era Fufluns/Fufluna da cui Pupluna (Populonia), era connessa in modo stretto al nome latino del pioppo (populus). Il richiamo a Populonia non è quindi accidentale se consideriamo il grande rapporto del popolo etrusco con l’area padana e l’area golasecchiana, situata all’uscita del fiume Ticino dal lago Maggiore, come attestano le grandi anfore vinarie etrusche ritrovate a Castelletto Ticino, dove viene confermato l’uso delle vie fluviali per il trasporto del vino. La presenza etrusca nell’area del Ticino è quindi fortemente comprovata sul nostro territorio. O come scrive il professor Filippo Maria Gambari nelle sue imperdibili riflessioni racchiuse nel testo intitolato Le origini della viticoltura in Piemontela Protostoria (in Vigne e vini nel Piemonte Antico, a cura di Rinaldo Comba, di cui consigliamo la lettura a tutti gli appassionati) – dalle cui fonti storiche abbiamo attinto – la diffusione della viticoltura intorno al lago Maggiore, avvenne all’incirca mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, re etrusco.

Di certo è che il commercio del vino era una delle principali fonti di reddito delle città etrusche. Il commercio, per via marittima o fluviale, si estendeva nella Gallia Meridionale, lungo il Rodano, nella Renania, in Austria. Il vino era parte integrante della vita sociale degli Etruschi, ne sono testimoni i loro usi conviviali e le loro espressioni artistiche.

Dai loro commerci nel sud della Francia, luogo dove l’irradiazione greca era molto forte, gli Etruschi portarono anche un nuovo sistema d’allevamento della vite, quello della vinea cioè con il sostegno morto, che portò a un graduale arretramento dell’arbustum stesso, favorendo una coltura specializzata. Ma per molti secoli il sistema arbustum per la coltivazione della Vitis labrusca o meglio la vitis agrestis continuò, allevata come scrive Virgilio «in labris et extremitatibus terrae» cioè ai margini dei campi, maritata a pioppi e olmi, che ancora oggi danno un’impronta speciale al paesaggio agricolo di parte della vicina Penisola.

Agli Etruschi inoltre viene attribuita l’introduzione di alcuni vitigni a bacca nera, oggi presenti sui nostri territori. La raetica, che potrebbe essere uno di quei vitigni esclusivi che vanno dal centro-orientale delle Alpi al Vallese, e quello che Plinio, in seguito, chiamerà «gallica» o «spioria», di cui lo spazio tiranno ci impedisce di raccontarvi la storia, ma che «quasi» sicuramente s’identifica con il Nebbiolo.

Fu sempre il vino, forse l’antenato del Sangiovese, contenuto nelle anfore a far muovere dalle nebbie padane i Galli che avrebbero «più tardi» causato la terribile «Clades Gallica» e cioè il crollo dell’Urbe. Su questo argomento però si apre un giallo storico: secondo Plinio (23-79 d.C.), fu un Elicone fabbro degli Elvezi emigrato a Roma, che tornando in patria avrebbe fatto conoscere al suo popolo il vino e le ricchezze mediterranee; secondo Livio (59 a.C.-17 d.C.), invece, fu un certo Arrunte cittadino di Chiusi (l’antica Chamars etrusca) che per vendicare l’oltraggio subito dalla moglie di Lucumone agendo contro la sua città, attrasse con il vino le popolazioni Cisalpine. Comunque, al di là della marcata tendenza anti-etrusca che qualcuno può avere, noi da bravi insubri, siamo grati a questo popolo per il bel dono che ci ha fatto conoscere.

Scelto per voi

Marc Hebrart Rosé
I terreni dello Champagne sono una specie di cocktail geologico che si è creato in seguito a una serie di movimenti tellurici risalenti a circa 70mila anni or sono.

Risalendo la Marna da Épernay, dopo circa una decina di chilometri vi troverete a Mareuil-sur-Aÿ, dove ha sede la maison Marc Hebrart nel cuore di quel territorio vocato per la produzione dei grandi cru. Terreni che danno vini di grande impatto e struttura, vini longevi, che con l’affinamento esprimono una vasta gamma di profumi maturi ed evoluti.

Il Marc Hebrart da noi provato è uno champagne molto elegante, dai delicati profumi di frutta rossa e sentori floreali. Ci ha quindi piacevolmente stupito per la sua complessità e il suo equilibrio dato dal 55% di Chardonnay (eleganza), 38,5% Pinot Nero (forza) e mai provato prima, dal 6,5% di Mareuil Rouge, un rosso prodotto con Cabernet Franc, Négrette, Pinot Nero e Gamay, che dona freschezza e vivacità a questo prodotto: ve lo consigliamo come accompagnamento a tutto pasto per festeggiare San Valentino.

/ Davide Comoli